31 gennaio, 2006

 

Dibattito. Liberali costretti per anni a fare gli extraparlamentari? Gli farà bene.

"L'attuale bipolarismo è di grande ostacolo ad una presenza in Parlamento di liberali politicamente organizzati. Il vecchio PLI morì per sue colpe e con il valido aiuto di coloro che si resero ben conto che uccidere il PLI era la premessa necessaria perché potessero spostarsi con successo in altri ospitalissimi lidi". Così mi scrive l'amico Guido Di Massimo in una nota che riporto integralmente, e che così continua.
"Dal vecchio PLI nacque la Federazione dei Liberali, che ha condotto vita grama cercando spazio nella coalizione di sinistra, e negli ultimi anni è risorto un nuovo PLI che cerca spazio nella coalizione di destra. Accanto a queste organizzazioni entrambe "eredi" del vecchio PLI è sorte una quantità di associazioni cultural-politiche di ispirazione liberale; basta cercare su internet e se ne trovano a iosa. Anche i liberali hanno i loro "cespugli".
Il tipo di persone che guarda o sostiene l’una e l’altra delle organizzazioni principali è praticamente lo stesso, con poche sfumature. E anche le due organizzazioni sono accomunate da uno stesso comportamento: per essere presenti in Parlamento, sembrano entrambe occupate e preoccupate più del "con chi allearsi" che del "cosa proporre o pretendere" dall’una o dall’altra parte, in termini di politica liberale, in cambio della disponibilità ad allearsi.
Purtroppo il nostro bipolarismo, tra le tante anomalie, ha quella di essere diviso tra sinistra e destra mentre invece una divisione corretta sarebbe quella tra liberali (e quindi liberisti) e statalisti ( e quindi socialisti). In questo caso avremmo un bipolarismo molto sbilanciato, perché nel nostro Paese, a prescindere dalle diffuse dichiarazioni di liberalismo, gli statalisti sono la grande maggioranza; però avremmo una situazione chiara, invece di quella attuale, equivoca e caotica, dove troviamo liberali – pochi – ovunque, e statalisti, tantissimi, altrettanto ovunque.
Come uscire da questo pantano? Penso che rinunciando per il momento – un momento che potrebbe durare anni - ad ambizioni parlamentari, i liberali farebbero bene a starsene per proprio conto, affrontare anni duri battendosi per le loro idee senza quei compromessi che sono inevitabili quando si cercano alleanze avendo tra l’altro ben poco da offrire in termini di voti.
Dovrebbero accettare di essere di fatto degli "extraparlametari" e "rompere le scatole" su una quantità di problemi ai quali i liberali sono o dovrebbero per loro natura essere sensibili, come ad esempio: la laicità dello Stato, che tende a sparire, i conflitti di interessi, che sono molto più diffusi di quanto si percepisca, la trasparenza, le liberalizzazioni delle professioni e dei mestieri (dai notai ai tassisti), un nuovo sistema di tassazione (introduzione dell’imposta negativa sui redditi con contestuale implicita introduzione di un sistema di protezione sociale che non protegga solo chi sta più o meno bene, ma anche chi sta peggio), l’eliminazione della partecipazione azionaria di Stato ed Enti Locali nelle imprese, l’accelerazione del processo di unificazione europea, l’accelerazione dei tempi della giustizia, la radicale separazione tra Magistratura inquirente e giudicante, l’organizzazione delle Forze Armate in previsione di un futuro esercito europeo, e vari altri temi.
Su questi temi, e senza i compromessi sempre necessari quando con scarse forze si tenta di allearsi o introdursi in spazi occupati tra l’altro da sedicenti liberali, i liberali italiani potrebbero differenziarsi e rafforzarsi, e in futuro avrebbero modo di riportare nel Paese il loro spirito di libertà e il loro senso dello Stato e delle Istituzioni. E va considerato inoltre che è molto più dignitoso essere extraparlamentari per scelta che esserlo perché, per una ragione o l’altra, nessuno nei due schieramenti vuole i liberali tra loro".
Purché, aggiungo io, quei mesi o anni di cattività babilonese come extraparlamentari, i liberali li sappiano impiegare bene. Che fare in questa specie di "anno sabbatico", ma proprio nel senso di "sabba"? Un grande appello agli italiani, cui seguirebbero dei veri e propri Stati generali (amico Vivona dove sei, che non ti sentiamo più?) del Liberalismo italiano. E anche riuscendo a riunificare solo un terzo dei liberali potenziali, cioè il 10 per cento circa degli elettori, altro che ago della bilancia, sarebbe una Torre Eiffel.

 

"Tira" finalmente il mercato: tornano gli annunci delle massaggiatrici

"Ho notato con stupore e nostalgia la ricomparsa nella rubrica delle inserzioni commerciali dei messaggi delle "massaggiatrici", stranamente scomparsi da decenni, nonostante viviamo in un periodo di mercantilismo sfrenato", mi scrive l'arguto amico Achille Della Ragione da Napoli.
Ma qui, scusate, mi viene in mente l'imbranato zio Augusto, che sceso in città dal paesello veneto e volendo fare "grandi cose" con quelle signorine, sbagliò rubrica sul giornale e finì davvero in un centro medico vero e coi fiocchi, dove purtroppo finì davvero brutalmente massaggiato in lungo e in largo, con tanto di oli aromatici indiani da sbrigative e nerborute infermiere di mezz'età, di cui una - recriminò sempre - "baffuta", che alle sue rimostranze lo misero pure alla porta, dopo avergli fatto pagare un conto da capogiro...
Ma, a parte le disavventure da Calandrino in città, Della Ragione così continua il suo nostalgico "amarcord" delle massaggiatrici con secondi fini. "Sono ritornato agli anni in cui leggevo questi annunci con un interesse malizioso, che poteva diventare personale, ben diverso da oggi che la lettura è puramente intellettuale. Scopro così che l'offerta, al passo con i tempi, si è specializzata, ma a pensarci bene già sugli antichi lupanari pompeiani esplicativi affreschi pubblicizzavano le prestazioni nelle quali la proprietaria era particolarmente versata.
Poi si possono percepire gli effetti della globalizzazione: brasiliane e cubane calienti, slave vogliose, addirittura cinesi meticolose e pazienti. Quanti posti di lavoro perduti per le nostre prestatrici d'opera! Le possibilità coprono non solo tutti i gusti, ma anche tutti i momenti ed i luoghi della città. Ci siamo recati in visita ad un parente ricoverato e ci siamo rattristati? Vi è subito il rimedio per risollevare... lo spirito: ardente minorenne, prestazioni particolari, zona ospedaliera. Siamo all'aeroporto ed il nostro aereo è in ritardo? Niente paura, ci penserà Nietta, prezzi modici, calata Capodichino. O tempora, o mores, avrebbe gridato un severo censore nostro antenato, noi semplicemente sorridiamo". Guarda, caro Della Ragione, questa te la pubblico, ma se poi protestano le lettrici - ho scoperto che ho più donne che uomini tra i fedelissimi - te lo dico subito, io "non ti conosco", e scindo ogni responsabilità...

 

Davos "montagna disincantata": senza riforme liberali l'Italia come l'Argentina

Lo scrittore Thomas Mann nel 1924 ambientò il romanzo "La montagna incantata" a Davos, la città più alta d’Europa, con i suoi 1560 metri. E tutta la vicenda, compreso il destino dei suoi personaggi, si svolgeva in un sanatorio. Oggi il World Economic Forum che si tiene a Davos ogni anno alla fine di gennaio si svolge tutto in grandi alberghi e palazzi di congressi. E anche qui si giocano i destini degli uomini. Non sappiamo se davvero dopo le cliniche, Mann, lo sci e i grandi alberghi, oggi "Davos è il simbolo di un nuovo liberalismo economico che sta trasformando il mondo", come ha scritto lo svizzero "Swiss Info". Certo, l’inadeguatezza delle "decisioni" prese dai saggi dell’economia a Davos, talvolta velleitarie, accademiche e lontane dai veri problemi della gente, spesso lasciano il tempo che trovano. Una montagna sempre più disincantata.
Il ministro italiano dell’economia, Tremonti, a Davos ha replicato alla pessimista analisi di Nouriel Roubini, professore di economia a New York, che ha paragonato l' talia all'Argentina, prevedendo che, se l'Italia non intraprende con decisione la strada delle riforme liberali, a causa del protrarsi della "stagdeflazione" possa esserci un collasso dell' conomia, l'uscita dall'euro, il ritorno ad una lira molto deprezzata e seri danni anche per i paesi europei. Troppo forti sono, infatti, le differenze di sviluppo tra i vari paesi dell’euro. "Grazie dell'attenzione" all’Italia, ha risposto con sarcasmo Tremonti al Roubini che protestava la propria indipendenza. "Non so se lei è indipendente, certo è indipendente dalla logica". Il teatrino dell'economia, come si vede, non è diverso dal teatrino della politica.

 

Monopoli ex-statali e "mercato" di comodo: deboli coi fornitori, forti coi consumatori

Era statale, ma dopo la "privatizzazione" è rimasto un monopolio di fatto. Con tutti i vantaggi e senza nessuno svantaggio. Para-economia all’italiana ("paracula", dicono a Roma). Un curriculum tipicamente da "Seconda Repubblica". Ma se l’Eni per ipotesi operasse in un paese anglosassone, il semplice fatto di essersi fatto sorprendere a corto di scorte di gas, in pieno inverno, durante una prevista – molto prevedibile dai geo-politici – crisi energetica, sarebbe stato motivo di licenziamento in tronco dell’intera dirigenza. E nonostante la liberalizzazione sulla carta, l’Eni (come l’Enel nel settore elettrico) resta di fatto monopolista in Italia, ha lamentato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, in una lettera al Corriere.
Monopolio che ha significato finora costi più alti per i consumatori. Oggi abbiamo la prova provata che lo strapotere tutto nazionale di Eni non ha rafforzato il suo potere contrattuale in campo internazionale, continua Martinello. Ci troviamo di fronte a un colosso nazionale forte con i deboli (gli utenti domestici) e debole con i forti (Gazprom e gli altri fornitori stranieri). Il risultato è che i consumatori si trovano con bollette elevate e senza neanche la garanzia che in casi di emergenza, come quello attuale, vi sia una adeguata riserva di energia per dormire sonni (caldi e) tranquilli. Oggi dobbiamo constatare che per interessi prettamente aziendali l’Eni non ha previsto stoccaggi adeguati e che il ministro non ha fatto prevalere sui suoi interessi quale azionista di Eni quelli della sicurezza nazionale. Questo, mentre in piana crisi, l’Eni, continuava a fare giochetti di trading, per puri interessi economico-finanziari, vendendo gas ad esempio alla Germania, che non sembra abbia oggi problemi di scorte analoghi ai nostri.
Era questo il liberalismo economico che volevamo? No di certo. Qui manca ancora la concorrenza e i monopoli italiani ex-statali fanno pure i loro interessi, come se fossero in regime di libera concorrenza, anziché quelli dei consumatori a cui sono tenuti per essere ancora di fatto monopolisti con l’avallo dello Stato. In pratica si sono presi, nell’indifferenza dei Governi d’ogni colore, quello che gli faceva comoso: i vantaggi dei monopoli e lo spirito egoistico del mercato. Quando è troppo è troppo. Einaudi si rivolta nella tomba.

30 gennaio, 2006

 

"Liberale chi?" E Vespa fu punto dagli europei. Elementare, Watson

Mentre i meschini politici litigano mediocremente su quanti minuti a testa si può apparire in tv, come se si potesse fare un tanto a minuto, come per le domestiche (e anzi, chi protesta di più è proprio chi ha asservito da decenni la Rai, tant’è vero che un autore o giornalista liberale non vi può lavorare), gli amici liberali discettano più elegantemente sull’aggettivo o sostantivo "liberale". Che vuol dire? Può essere attribuito al Presidente del consiglio, come ha fatto Vespa a "Porta a porta"?
Ha inviato una lettera di protesta il Presidente dei liberali europei, il britannico Graham Watson, come riportiamo in sintesi da Critica liberale: "Essere liberali non e' un qualcosa che si puo' affermare alla leggera; implica non solo l' adesione a principi filosofici e teorici, ma anche la pratica quotidiana di questi principi, nella propria vita pubblica e privata". E continua: "Non mi sembra che l'on Berlusconi abbia mai dato segno di mettere in pratica alcuno di questi principi, particolarmente nell'esercizio delle sue funzioni di Presidente del Consiglio. Anche se il Partito Liberale in Italia non esiste piu', il liberalismo e' ancora vivo e vivace, e molte sono le sue voci all' interno della societa' civile e politica; sicuramente le sara' possibile trovare un "liberale praticante" da invitare alla sua trasmissione".
Punto sul vivo, Vespa risponde: "Mi dispiace di non condividere la Sua posizione. Nell'ultima edizione (2005) dell'Enciclopedia del pensiero politico diretta Roberto Esposito e Carlo Galli alla voce 'liberalismo' sta scritto: "In tutte le sue accezioni il termine designa la centralità conferita, in politica come in morale, all'individuo, ai suoi diritti, alle sue libertà". È esattamente il programma politico-ideologico al quale si è sempre richiamato Berlusconi. Non sta a me stabilire se questo si inserisca nella linea del liberalismo europeo. Ma non credo che Lei possa giudicare scorretto che io scriva - non a caso tra virgolette - che Berlusconi si è sempre attribuito la qualifica di 'liberale'. Ma Enzo Marzo (Critica liberale) e Raffaello Morelli (Federazione dei Liberali) hanno replicato che Forza Italia fa parte del partito popolar-conservatore europeo, spesso contrapposto ai Liberali europei o all’Internazionale liberale, e poi hanno elencato vari esempi di approccio non liberale, conflitto d’interessi alle mancate liberalizzazioni, dai privilegi di corporazioni e monopoli al clericalismo.
Però, cari amici liberali, il grave deficit di liberalismo in Italia non è certo imputabile al Presidente del consiglio. E’ endemico e radicato da secoli. Pensate con realismo alle alternative possibili nel 1994 e nel 2001: così ragiona un liberale razionale e non tifoso. Secondo voi, ciò che – è vero – non ha fatto Berlusconi avrebbero fatto invece Occhetto, Prodi, Cossutta, D’Alema, Pecoraro e Bertinotti? Definirsi "liberali" è solo propaganda, non analisi politologica. Anche Fini e D’Alema, anzi, tutti i politici italiani, si sono definiti "liberali", senza esserlo, o essendolo solo in parte. Anche perché, vista, per fortuna, la pervasività e l’ampiezza del liberalismo nella società moderna dell’Occidente, chi oggi riuscirebbe, anche volendolo, a evitare la sia pur minima azione liberale? Nessuno, neanche Berlusconi.
La mancata iscrizione al Partito liberale europeo è invece l’obiezione più efficace. Però, per carità, nessun copyright stretto sulla parola, come vorrebbero, p.es., gli ordini degli psicoanalisti o dei giornalisti, che vietano titolo e professione a chi non è iscritto da loro. Né corporativismo, né protezionismo. Chiunque deve potersi definire "liberale". Salvo poi subire le giuste critiche e le conseguenze elettorali se la sua azione politica e personale non è conseguente.


 

"Hamas non è il nazismo", dice D'Alema. Ma neanche lui è proprio Stalin

Dopo le elezioni tra i palestinesi che hanno decretato l’ampia vittoria degli estremisti e terroristi di Hamas, il presidente Ds intervistato da un blogger si è lasciato andare e ha rivelato quello che moltissimi tra i Ds e nella Sinistra, al di là della facciata per i gonzi elettori, pensano in realtà degli estremisti dell’Islama: "Hamas non è il nazismo", come dire, non è il male assoluto, qualche ragione ce l’ha. "Dobbiamo capire le ragioni dell’odio" verso Israele. Che, udite udite, "è anche una conseguenza dell’occupazione in Iraq". Ma non era cominciata decenni fa? Insomma, gli Stati Uniti e altri paesi europei, tra cui l’Italia, secondo il finto liberal-comunista devono smetterla di combattere il terrorismo con metodi rudi, come la guerra e le altre cosacce, prestino ascolto ai gruppi integralisti e, magari, si mettano attorno ad un tavolo a discuterne con chi predica la Guerra Santa, la jiad islamica.
Basta, basta, abbiamo capito, redivivo compagno D’Alema che per anni ti sei spacciato per "ormai liberale", come tutti del resto. Queste sciocchezze ambigue di chi di fatto è d’accordo con i terroristi le conosciamo già. Li ascoltiamo così tanto, questi fiancheggiatori dei fanatici islamici e dei terroristi antisemiti - come Europei, voglio dire - che li finanziamo ogni anno con 500 milioni di euro, mica briciole. E nell'indignazione ci viene anche da ridere: stiamo pensando a certi amici ebrei che ancora credono che i Ds possano essere, anzi siano, o meglio possano tornare ad essere, i veri "amici di Israele".

27 gennaio, 2006

 

Liberali ed ebrei nel giorno della Memoria (e del Salon Voltaire). Vite parallele

Il Giorno della Memoria è giornata di grandi esercizi. E poi, nel nostro piccolo, è anche il giorno in cui nacque, due anni fa, la Newsletter del Salon Voltaire. Ma spegniamo la tv per non ascoltare la retorica ipocrita dei nemici degli ebrei divenuti per un giorno finti amici. Di fronte al male, tanto più se grande, l’uomo tende istintivamente a dimenticare. E a giustificare. E’ una forma di auto-difesa psicologica. Così molti hanno fatto per decenni in Europa, cercando di rimuovere il ricordo della più vasta e crudele delle persecuzioni: quella del popolo ebraico da parte del nazismo. Peccato che si colorasse di uno strano giustificazionismo.
"L’olocausto? Un fatto loro", dicono alcuni europei. "Se pure c’è stato", rincarano gli islamici e qualche patetico revisionista. "Se la sono cercata: sono separati dagli altri". "La persecuzione degli ebrei? Io non l’approvo, ma un po’ di colpa ce l’hanno anche loro". "Fanno sempre le vittime: sono bravissimi in questo". Gente della strada, e della più squallida. Ma sempre meno, per fortuna.
Stupidi e infondati pensieri del genere, offensivi per qualunque liberale, che pure è abituato a tollerare le idee più balzane, sono diffusi tra minoranze di gente comune, specialmente la più ignorante e anziana (vedi il sondaggio di Mannheimer sull’antisemitismo). A questi stereotipi razzisti di destra e di sinistra, e all’antico anti-giudaismo cristiano, si aggiunge l’antisemitismo politico di frange molto ampie della sinistra, che mettono sul piatto per buon peso le "ragioni" dei palestinesi contro presunti "errori" di Israele, entrambi storicamente falsi, come false e ridicole sono certe fantasiose ricostruzioni della storia e della geografia di quella regione.
Ma negli ultimi anni, complice l'islamismo, siamo ritornati all’antisemitismo sfrontato. Ed è ora di dire "basta". Siamo stati troppo tolleranti con le idee balorde degli stupidi e dei fanatici. D’ora in poi bisogna combattere anche con la psicologia e l’arte della comunicazione le falsità su Internet, le leggende metropolitane diffuse negli uffici e nelle scuole, passando di bocca in bocca. E anche certi subdoli articoli di giornale che spaccano il capello in quattro per dimostrare che "non è antisemitismo, ma opposizione a Israele". Vecchio trucco.
Tanto importante per noi è questo tema – scrivevamo nel primo numero del Salon Voltaire (27 gennaio 2004) – che la newsletter liberale nasceva proprio nel Giorno della Memoria. Per testimoniare che con l’uso della ragione, dello spirito di libertà e della satira le donne e gli uomini di oggi negano all’origine non solo l’antisemitismo, ma anche il fondamentalismo religioso d’ogni tipo, il fanatismo, l’estremismo e il terrorismo.
Per questo serve una "ginnastica morale" e mentale che molti di noi, ormai incapaci di capire e di indignarsi perché diventati sedentari dell’ethos e del logos, non praticano più da decenni. Perché è provato che l’uso dell’intelligenza critica favorisce le scelte e l’impegno morale, contrariamente a quello che vorrebbe dare ad intendere una certa retorica da sacrestia del genere "Frate Indovino", in cui il "buon contadino grullo ma onesto" con la sua "santa" ignoranza sarebbe un modello positivo per la Chiesa ("Beati i poveri di spirito"), in contrapposizione al miscredente intellettuale cittadino di idee liberali, se non libertine. Nulla di più ottuso e oscurantista, naturalmente. Anche perché è proprio per la Santa ignoranza diffusa nei secoli da curie, presbiteri e preti che l’antigiudaismo prima, il razzismo poi e l’antisemitismo oggi hanno preso il sopravvento.
E anche per questo noi liberali siamo da sempre con gli ebrei: non solo perché entrambi, come minoranze, siamo stati costretti drammaticamente a vivere i medesimi problemi di libertà, utilizzando al meglio per sopravvivere l’intelligenza, la capacità d’adattamento e l’innovazione (da cui lo sviluppo del senso critico e la tendenza alla scienza), ma anche per l’abitudine comune a sorridere anche nel dramma più doloroso (l’amaro humour ebraico) e nella lotta più aspra (la tagliente satira liberale). Liberali ed ebrei: vite parallele.

26 gennaio, 2006

 

La Palestina ai fanatici di Hamas. Anche Hitler andò al potere col voto

La storia non può insegnare nulla di nuovo a noi liberali, gli unici ad aver sempre sostenuto nell’incomprensione generale che democrazia e liberalismo non sono sinonimi, ma sistemi politici ben diversi, talvolta perfino contrastanti, e che la prima senza il secondo è solo un vuoto esercizio del voto che può legittimare il peggior populismo: la terribile dittatura della maggioranza.
La vittoria in Palestina (bisogna, poi, vedere quanto regolare) degli estremisti islamici, i fanatici di Hamas (76 seggi), contro la più laica ma corrotta Al Fathà, il partito che fu di Arafat (43), dimostra che in un Paese tribale e arretrato nessuna pantomima democratica, nessuna elezione formale, ha senso e valore. Per un liberale non vale nulla la democrazia, il "governo del popolo", se manca già prima del voto attorno ai seggi e nel Paese la maturità e consapevolezza necessaria, come un minimo d’informazione e cultura per poter scegliere con cognizione di causa. E una democrazia, oggi, "deve" essere liberale, basata su un’atmosfera feconda di libertà diffusa, rispetto dei diritti di tutti, e spirito di tolleranza, che la Storia e il progresso della civiltà hanno dimostrato essere insostituibili.
Ma queste condizioni già sono critiche nei Paesi occidentali, proprio a causa della società di massa che non permette al cittadino medio di valutare seriamente le scelte politiche. Figuriamoci nei Paesi culturalmente, politicamente e socialmente arretrati come quelli Arabi. Ecco perché non basta esportare la democrazia elettorale in un popolo che per millenni ha conosciuto solo dispotismo, violenza e discriminazione. Semmai, bisogna esportare – e la cosa potrebbe richiedere anni, se non decenni di maturazione – i principi e lo spirito liberale.
Quella di oggi, perciò, è una giornata nera per i Palestinesi, che pur di avere un cambiamento e punire le ruberie e la corruzione della classe politica lasciata da Arafat. si sono consegnati nelle mani dei fondamentalisti panislamici fautori del terrorismo e della lotta dura a Israele. Ma, per i medesimi motivi, è un giorno drammatico soprattutto per Israele, che vede proprio nel giorno della Memoria dell’Olocausto e col governo indebolito dalla fine politica di Sharon il proprio avvenire nuovamente messo in discussione.
Certo, Storia e Politica insegnano che quando i movimenti estremistici vanno al potere mutano più o meno velocemente verso posizioni più moderate. Ed è anche vero che potrebbe subito riformarsi per scissione una frangia intransigente ed estremista. Ma la Palestina è debolissima e non può isolarsi troppo. Per la propria economia dipende dai finanziamenti dell’Europa e dei paesi arabi, che non hanno certo interesse a finanziare il terrorismo e a boicottare il processo di pace nel vicino Oriente.
Solo una cosa ci piacerebbe sapere, e magari ce lo dirà in qualche corrispondenza da Israele la brava Deborah Fait: che cosa pensano della vittoria di Hamas i coloni ebrei che Sharon ha fatto sloggiare dalla striscia di Gaza, e la destra religiosa israeliana che contesta il piano di pace del governo. Che vedano in Hamas un paradossale alleato? Brutta cosa la politica.

 

Commedia dell'arte. Il programma comune segreto di Destra e Sinistra

Elezioni all’ultimo sangue? Ma va là. Finora sembra una battaglia finta, puro "teatrino della politica". Pre-tattica prima del derby calcistico, ad uso esclusivo della "curva" degli ultrà. Che, si sa, come minimo sono un po’ ingenui e fessacchiotti. C’è tutto il repertorio della Commedia dell’arte. Con alcune figure topiche, guarda caso, tratte dall’abc del football italiano: la finta caduta, il falso claudicante, l’aiutino con la mano alla Maradona, la corsetta personalizzata dopo il gol, la "scena" dolorosa per terra dopo che l’avversario ti ha sfiorato, la protesta arrogante dall’arbitro, le dichiarazioni velenose negli spogliatoi.
Ecco spiegato perché a capirci qualcosina di politica italiana sono, ben più dei politologi e dei giornalisti, i baristi e gli avventori dei 130 mila bar (più numerosi delle chiese, che è tutto dire in Italia) eretti nella Penisola a vero Parlamento popolare, sempre riunito in seduta congiunta. E loro hanno capito che è tutto teatro, fatto apposta per impressionare la base becera, che poi è la gente normale, che di politica non capisce nulla: la casalinga di Pinerolo, l’agricoltore di Ceccano, l’insegnante di Osimo, lo studente di Canicattì, il pensionato di Bitonto. Ma ai baristi e agli avventori da bar non la danno a bere.
Eppure, ci sarebbe materiale per discutere tra Destra e Sinistra, se entrambe non guardassero all’avversario piuttosto che agli Italiani. Come la libertà del cittadino da corporativismo e burocrazia, la tutela dei consumatori, l’energia e l’ambiente, che non sono prerogativa di quegli ignoranti e imbroglioni dei Verdi, ma che pure vogliono sensibilità, competenze scientifiche e rispetto della natura. Perché la natura non è "di sinistra", e va preservata per noi e le generazioni future. Per vivere meglio. Guai a chi la svende per farci pochi euro: non fa "una cosa di destra", è solo stupido. Sarebbe come se decidesse di tagliarselo per far dispetto a Pecoraro Scanio.
Macché, niente di tutto questo. Perché Destra e Sinistra si guardano negli occhi, in un morbosissimo rapporto di odio-amore, e per le prossime elezioni hanno già un programma segreto comune. Ve lo nascondono perché toglierebbe suspence alla partita, e perché non piace alla gente: sottomissione alle corporazioni professionali (dagli Ordini ai tassisti), alle grandi banche e alle fondazioni bancarie, ai sindacati, agli impiegati pubblici, alla burocrazia, al Vaticano, agli gnomi di Strasburgo e Bruxelles, al localismo reazionario (dalla Val di Susa ad Acerra, da Scanzano a Messina). Il tutto condito come sempre di populismo, demagogia, finzione, scelta dei peggiori, raccomandazioni degli amici, settarismo.
Smentiranno disperatamente, ma questo è il vero, segreto, programma comune della classe politica in Italia. Altro che modernizzazioni, altro che America tanto sbandierata, altro che libertà del cittadino. E invece, ci piacerebbe un altro genere di competizione e concorrenza tra i poli: quello per il liberalismo, anziché la corsa a chi è più clericale. Una sciocchezza che oltretutto non pagherà alle elezioni, aumenterà l’astensionismo – soprattutto a Destra, perché i laici scontenti stanno soprattutto a Destra – e farà solo perdere moltissimi voti liberali sia a Destra che a Sinistra, visto che serie indagini demoscopiche hanno accertato che Ruini non porta voti, e lo scarso voto cattolico è ininfluente, frammentato tra tanti partiti e poco mobile.
Certo, qualche differenza non di poco conto si nota tra i due schieramenti. Nella Casa delle libertà, per esempio, non ci sono ben tre partiti anti-liberali, anti-mercato, anti-americani e anti-Israele, che invece ci sono nell’Unione. E ci sono invece, nominalmente, vari politici liberali, "veri liberali" bisogna riconoscerlo. Ma a che servono, se soffrono di diarrea cronica, e come le famose tre scimmiette non vedono, non sentono e non parlano? Come mai, per esempio, Forza Italia e il Presidente Berlusconi hanno aderito al gruppo europeo dei popolari (la Dc) e non a quello liberale? Ricchi premi a chi, tra i tanti blog che abusivamente si chiamano "liberali", saprà rispondere a questo fondamentale quesito. Ma prima, da liberali veri, neutralizziamo una possibile stupida risposta: il gruppo liberale europeo e l'Internazionale liberale non sono infiltrati dai comunisti.

25 gennaio, 2006

 

"A Betti', che ti sei perso". Una scritta sul muro di Hammamet

Possibile che siano passati solo sei anni dalla drammatica morte in esilio di Craxi? Sembra una vita. Certo, che Bancopoli è molto peggio di Tangentopoli, in cui ci si dimetteva – "o nobiltade di cavalieri antiqui" – da segretari politici d’un partitino di Centro per modesti 50 milioni di lirette sottoscritti da una ditta come finanziamento politico. Roba da pezzenti rispetto ad oggi: basta solo considerare i 50 milioni (300 per altri), sì ma di euro, trovati su uno dei tanti conti esteri accesi da un manager compagno di politici della Sinistra. E a proposito di pezze al sedere con cui questi entrarono al Governo, come ripete Travaglio, vi risulta che chi ha goduto dei conti all’estero o in Italia, ma anche di finanziamenti, versamenti, accreditamenti, abbonamenti e collegamenti di favore da parte dei manager di cooperative e banche si sia almeno dimesso dagli incarichi? No? E allora perché nei primi anni ’90 quei "poveretti" tangentisti attivi e passivi (be’, veramente, come in tutti i rapporti contorti, c’era anche una terza categoria: i…contemplativi) erano dimessi d’autorità o toglievano il disturbo da sé? Ci fu addirittura chi si auto-inflisse un umile "lavoro socialmente utile", tanto voleva espiare. Ma i chiacchierati di oggi stanno ancora lì con grande faccia tosta. Allora ha ragione l’umorista Aldo Vincent:

Sopra la banca la ganga campa
Sotto la banca, la barca crepa

Davvero, parla al cuore la scritta che mani anonime hanno vergato in rosso sul muro del cimitero di Hammamet dove riposa Craxi, a sei anni dalla sua scomparsa: "A Betti’, che ti sei perso…"

 

Italiani nel gorgo del Maelstrom: la sindrome della puttana moralista

Ci voleva uno tsunami, ma purtroppo il modesto Tirreno non lo consente. E, dannazione, per quanto attesa da tempo, tarda anche l'eruzione del Vesuvio (ma a Napoli, dove trasformano il piombo in oro, se la stanno giocando al lotto). Per fortuna è venuta in nostro soccorso l’ennesima classifica economica che punisce l'Italia. "Era ora", si è tirato un respiro di sollievo nel vero Parlamento del Paese, i 132mila bar riuniti in tele-conferenza a reti maldicenti unificate. Del resto, lo dice sempre il Giuanìn del bar di via Porta Vigentina, a Milano, non poteva durare così a lungo nel "meno peggio": meglio un peggio certo e rassicurante che un meno peggio ansiogeno e incerto.
Ora, per fortuna, c’è non solo l’arretramento economico, ma anche la perdita di 14 punti (dall’indice 2,50 a 2,28) nella scala mondiale del mercato libero. Negli ultimi anni (l’analisi si arresta al 2003, se abbiamo capito bene), analizzati i più diversi parametri economici, Heritage Foundation e Wall Street Journal hanno concluso che l’Italia si è declassata ancor più nella scala delle libertà economiche. Finalmente. Gli Italiani se l'aspettavano, e hanno accolto la notizia con un senso di liberazione, anzi un godimento morboso da "caduta nel Maelström" degna del racconto di Edgar Poe. Cioè, il Peggio del peggio, che dico, il Meglio del meglio. Illudendosi, poveri scemi, di avere almeno il record del Peggio assoluto. Come quei pirla di provincia, dall’America all’estremo Oriente, che da buoni a nulla si allenano per tutta la vita a mangiare il sandwich più grosso per entrare nel Guinness dei primati. Ma intanto dovrebbero cercare di rientrare almeno nei Primati, intesi come ordine zoologico. Così gli Italiani: potrebbero tentare almeno il record della sfiga auto-procurata.
Del resto, il masochismo e l’autoflagellazione, si sa, in Italia trovano sempre nuovi e ghiotti pretesti. Un’occasione d’oro, ammettiamolo, questo declassamento economico. Grazie Heritage Foundation, grazie Istituto Bruno Leoni: non siete solo maestri di economia, ma anche di psicologia, varietà italica. Un "declassamento" ricorda inesorabilmente la classe, la scuola dell’obbligo. Per di più è stabilito da stranieri, ritenuti, chissà perché, maestri severi, crudeli e infallibili. Vuoi mettere se l’avesse detto la Bocconi? Gli avrebbero riso dietro. Al bar del Giuanin neanche avrebbero sollevato gli occhi dalla tazzina. L’ideale per noi che segretamente, eroticamente, amiamo essere bacchettati, e in sovrappiù da personale militare o carcerario straniero ("Helga la crudele kapò delle SS"). Infatti, pensateci, noi Italiani abbiamo spesso fatto ricorso all’estero per le nostre beghe, pur di sputtanare l’Italia. Da Carlo V a Le Monde, siamo di casa nei tribunali e nei giornali di Parigi, Bruxelles, Londra, Madrid, l’Aia e New York. Dove c’è sempre qualche italiano – lo chiamiamo ancora così? – che denuncia all’estero i torti subìti in patria, come se qui fosse vietato praticare il vero, unico, sport nazionale: la protesta.
Mancanza di dignità? Ahi, è una parola tabù, non pronunciatela mai: vi mettereste contro 58 milioni di persone. Prima di dirla, ricordatevi sempre dei personaggi popolari e beneamati dal pubblico, interpretati al cinema da Alberto Sordi, e anche di come (e a che prezzo) piangono in piazza le donne del Sud, di come e a che prezzo si lamentano in malafede e per secondi fini davanti alle telecamere del Tg sindaci del Sud, e purtroppo ora - dopo Val di Susa - anche del Centro e del Nord.
E ci riveliamo esterofili e amici del giaguaro perfino dopo una disastrosa, sporca e costosa vacanza estiva o un rapimento nello Yemen. "Che bella la Grecia", "Che gentili quei rapitori, che bello quel rapimento" dicono in piena sindrome di Stoccolma le madame Bovary di Vicenza o Treviso (il Veneto è in prima fila in queste idiozie, sarà per la carenza atavica di vit.PP causata dal granturco della polenta…). Turisti per caso. Un rapimento, ormai, non si nega più a nessun cliente di Tour Operator, tantomeno ad una sventata insegnante di Padova. Ma se qualcosa va storto, "dagli all’Italia". Prima solo al Sud, ora anche al Nord, siamo un "popolo" (si fa per dire, lo mette in dubbio perfino il nostro Inno nazionale) che per la più futile disavventura si "vergogna di essere italiano", salvo poi comportarsi male e in modo corrotto in ogni campo. Sicuramente peggio dei suoi governanti. Ma, si sa, da noi la colpa, come lo sporco, è sempre degli altri.
Pieni di difetti, immoralisti di professione e da secoli, protestiamo, litighiamo, urliamo, facciamo casino, rubiamo, intrallazziamo, inquiniamo, truffiamo, piangiamo. E soprattutto, mafiosamente, "portiamo gli amici". Ma poi, la catarsi: vogliamo essere puniti. Le sculacciate sul sederino. Così passa tutto. Eh, apposta c’è il pentimento cattolico. La perfetta religione italiana. Che non vuole neanche praticanti. Che con la scusa del perdono, mette immoralmente sullo stesso piano la persona onesta e il mascalzone. Davvero, il cattolicesimo, se non ci fosse già, dovrebbero inventarlo gli Italiani.
Nazione femminile e infantile quante poche al mondo, abbiamo bisogno di disprezzarci. Di qui il classico tormentone da treno, il cui acme teatrale è sempre lo stesso: "Mi vergogno di essere italiano" (più di destra che di sinistra). Non ci credete? Lo dicono anche molti conservatori arrabbiati, lo scriveva - da par suo - perfino Montanelli. Di qui, anche, lo sparlare dell’Italia all’estero (più di sinistra che di destra, questo). Ma fa tutto parte di un'unica facies psicologica, direbbero i fantasiosi psicanalisti. Potremmo definirla la "sindrome della puttana moralista": lo fa, lo fa con tutti, e lo fa pure a pagamento. E mentre lo fa, gode addirittura. Ma dopo averlo fatto, si giudica male, si disprezza, cerca auto-umiliazioni, e desidera ardentemente d’essere punita.Il problema, l’abbiamo detto tante volte, non è l’Italia, come dicono al Sud da quando non ci sono più i Borboni (prima con chi se la prendevano?), ma gli Italiani. E sono proprio quelli che si lamentano.
Ma da chi abbiamo preso? ripeteva mia nonna. Dai Romani, no di certo. Chissà, forse è la componente greco-araba del nostro patrimonio genetico, quella lamentosa, polemica e inconcludente, che prevale su quella etrusco-romana? Probabile. Certo, il compiacimento per le sventure, vere o presunte, di quei fini analisti tuttologi che sono i "viaggiatori di treno" e i "frequentatori di sale d’attesa" è perlomeno sospetto. La crisi economica all’italiana? Che goduriosa caduta collettiva nel gorgo del Maelström. Sarà, ma più che l’estetica romantica di Poe, ci fa venire in mente Totò sulle montagne russe. Al lunapark di Milano. Crisi? Quale crisi? Questa è la manna, paisa'.

23 gennaio, 2006

 

Sinistra: la levatrice nascosta nel sottoscala. E quella della Destra?

"Gli azzurri? – ripeteva il Giuanìn del bar di Porta Vigentina – giocano bene con le grandi, e male con le piccole". Verissimo anche in politica. E’ noto nei Paesi liberali anglosassoni, ma quasi mai ripetuto in Italia, che per valutare il livello d’un Governo si dovrebbe andare a vedere la qualità dell’opposizione. Allo stesso modo, per avere una buona Destra bisognerebbe avere una buona Sinistra. E viceversa. A tal punto il livello qualitativo dei due schieramenti dipende dalla concorrenza. E del resto maggioranza e opposizione sono in quei Paesi quasi "istituzioni" parallele, con tanto di ministeri omologhi, sia pure virtuali nel caso dell’opposizione, ma che in questo caso lavorano – programma alla mano – come se fossero al Governo. Tutto questo non esiste in Italia, Paese non ancora compiutamente liberale.
Se Mannheimer o Piepoli si prendessero la briga di sottoporre un grande sondaggio sul liberalismo in Italia, siamo sicuri che verrebbe fuori che gli Italiani d’accordo con tutti i punti tipici del liberalismo, dal mercato ai diritti civili, dall’anti-Stato alla correttezza dei bilanci, dal merito al laicismo, non sarebbero più – ed è grasso che cola, del 30 per cento. Con tutto che l’Italia fa parte dell’Occidente sviluppato. E questo, non perché, come qualcuno scrive, certi temi liberali sono superati (al contrario, sono tutti ancora attuali, se no il liberalismo non sarebbe l’unica dottrina al mondo che funziona), ma proprio perché gli Italiani non sono geneticamente liberali. Sono corporativi per interesse, protezionisti per paura, statalisti per raccomandazione, clericali per tradizione, comunisti (fascisti o anarchici) per ribellione.
Il nostro Risorgimento, per Gobetti fu una "rivoluzione incompiuta". Ma ringraziamo il Cielo che ci fu. Oggi sarebbe impossibile. Fu un miracolo laico, portato a compimento solo per la furbizia del grande Cavour, grazie anche a colpi di mano, finanziamenti inglesi, corruzione dell’esercito borbonico e alcuni trucchetti. Altrimenti in Italia avremmo ancora venti staterelli. Fa sorridere, ma oggi nella Penisola tira una tale aria reazionaria, clericale e localista che un Risorgimento e una Unità d’Italia non sarebbero più possibili. Pera, Casini e Buttiglione, che non sono né Rosmini né Gioberti, con l’appoggio cinico di sparsi teo-con e neo-con (in francese, lett.: "nuovi coglioni"), proporrebbero una "federazione sotto il Papa". Solo Pannella rifarebbe la Breccia di Porta Pia. Ma risvegliamoci dall’incubo: per fortuna il Risorgimento c’è già stato.
Ma proprio perché sono così poco liberali (e infatti tutti si definiscono tali), gli Italiani sono inclini al tribale e triviale scontro di uomini e sigle, senza veri programmi. Come per le squadre di football. Perché, del resto, tifare Milan o Roma? Per una particolarità dello stile calcistico, per la qualità del gioco, al limite per un sano campanilismo (milanesi tutti i giocatori del Milan, romani quelli della Roma)? No, solo per simpatia, antipatia, emotività infantile, spirito di gruppo, conformismo, odio settario. Tutti vizi italiani. Ebbene, una psicologia simile si è ormai impossessata della politica italiana. Non si vota per convinzione sui programmi, e infatti i partiti non li mostrano. E solo così, tacendo ambiguamente, riescono a fare l’en plein dei voti.
Ma un vero programma c’è, ed è comune sia al cosiddetto (ma è solo un nome) Centro-destra, sia al sedicente (ma è solo un nome) Centro-sinistra: populismo, demagogia, scelta dei peggiori, raccomandazioni degli amici, settarismo, sottomissione alle corporazioni, alle grandi banche, ai sindacati, agli impiegati pubblici, al Vaticano, agli gnomi di Strasburgo e Bruxelles. Il deficit di liberalismo è enorme, da una parte e dall’altra. Con qualche differenza, però: nella Casa delle libertà di liberalismo si parla senza quasi farlo o facendolo a dosi omeopatiche (però il Presidente si vanta di essere "liberale"), anche perché ogni partito ha la maggioranza o una grossa minoranza anti-liberale. Mentre nell’Unione va anche peggio: non se ne parla neanche, e non solo per timore di ben tre interi partiti anti-liberali (Comunisti italiani, Rifondazione e Verdi) e di un terzo dei Ds. Eppure qualcosina di liberale si aspettano i Poteri forti, il Corriere, e non più d’un decimo degli elettori di sinistra, se la Sinistra va al Governo. Di qui il silenzio drammatico ed eloquente di Prodi.
Già, ma noi liberali che facciamo? Ognuno, come sempre, si cercherà la sua soluzione individuale? Sta iniziando la campagna elettorale e nessuno sa quali sono i programmi della Casa delle libertà e dell’Unione. Un deficit non di trasparenza, ma di quella sana "contrattualità" liberale tra politici ed elettori molto più grave di qualsiasi conflitto d’interessi, perché tocca non la credibilità d’un candidato ma l’intero sistema politico, ed è di per sé fonte di corruzione ideologica e di disaffezione dei cittadini. Altro che Partito democratico nella Sinistra al posto degli ex trinariciuti post-comunisti, come vorrebbe giustamente il Corriere (ma si dovrebbe fare solo su un valore nuovo e rivoluzionario – dice bene Panebianco – cioè "l’anticomunismo democratico", campa cavallo…). Per ora abbiamo solo l’apporto di quei liberali ultrà, attivisti senza schema, che sono gli amici Radicali. Come la levatrice di Socrate ci provano a tirar fuori dalla pancia della Sinistra un neonato liberale. Missione difficile, quasi impossibile. Potrebbe venirne fuori un feto malformato. Per il quale s’imporrebbe l’aborto. Ma se la Sinistra ha il maieuta storico Pannella, sia pure relegato nel sottoscala, quale levatrice liberale avrà la Destra?

22 gennaio, 2006

 

Vaticano. Riammessi i mercanti nel Tempio: un tanto a Verbo

Ma, scusateci, la parola di Dio non era impagabile? Non più: ora si paga. O meglio, per essere più precisi, d’ora in poi si pagherà il copyright, se non del Verbo divino, almeno della sua traduzione terrena, vale a dire le parole dei comunicati e dei documenti ufficiali della Chiesa, comprese le encicliche, presumiamo. L’associazione No God nel commentare ironicamente un articolo di Marco Tosatti sulla Stampa se ne scandalizza, dimostrando così paradossalmente che a voler fare seriamente gli atei si deve essere addirittura più esigenti in fatto di senso del Sacro e del Divino della stessa Chiesa. Non per fare i moralisti, anzi per fare i mercanti, ma non era meglio lasciar fuori il copyright, visto che in fondo si tratta di propaganda, sia pure religiosa? Dal punto di vista del marketing è controproducente. E’ come se i partiti politici obbligassero a pagare il diritto d’autore tutti coloro (giornalisti o semplici cittadini) che riprendono i loro programmi. Anzi, come capirebbe un bambino delle elementari, dovrebbero pagarli, perché sarebbe tutta pubblicità. Insomma, non c’è logica di mercato. E, a parte il precedente della cacciata dei mercanti dal Tempio, ora fatti rientrare dalla porta principale direttamente nell’Ufficio stampa, ma siamo sicuri poi che questo diritto d’Autore, secondo le regole della stessa religione cattolica, appartenga proprio a papi, cardinali e vescovi?

21 gennaio, 2006

 

Lo shock tardivo della Sereni, comunista anti-Israele che si scopre ebrea

Vi ricordate l'accalorata lettera della Sereni all'Unità? Ora trova Giorgio Israel e Deborah Fait che la sistemano. La Fait, si sa, non pesa le parole e fa bene. E perciò ci piace: per noi è un punto di riferimento nel giornalismo di commento dell'area ebraico-israeliana. E ora commenta con parole forti lo shock tardivo che la comunista tutta d'un pezzo Clara Sereni ha provato (v. il nostro post di qualche giorno fa) fino a vergognarsi, dopo essere stata presentata ad un congresso sindacale come "ebrea e giornalista".
In un articolo dal titolo "Da ebrea israeliana a ebrea italiana", oggi Deborah Fait pubblica sull'agenzia Informazione Corretta un articolo di cui riportiamo la prima parte. L'articolo completo è possibile leggerlo grazie al link.

"Il mio primo pensiero - scrive Deborah Fait - nel leggere la lettera di Clara Sereni "La colpa di essere ebrea", e' stato: "questa non ha capito niente", e il primo impulso e' stato di rabbia, sdegno e sconcerto. A Clara Sereni ha risposto Giorgio Israel, che deve aver provato piu' o meno le mie stesse sensazioni, poiche' a un certo punto della sua lettera ha scritto " Clara Sereni è in stato di catalessi da qualche decennio. Precisamente dal 1967, da quasi quarant’anni."
Si, in effetti, dalle cose che scrive, puo' sembrare che la signora Sereni sia stata in letargo per una quarantina d'anni ma il mio timore invece e' che sia stata ben sveglia, sveglissima e che abbia condiviso la poltica comunista dal 1967 in poi nei confronti di Israele, politica di odio antiebraico, per molti di noi difficile da dimenticare e da perdonare.
Improvvisamente Clara Sereni si e' resa conto di essere considerata diversa nel momento in cui e' stata presentata come "Clara Sereni , ebrea e scrittrice", cioe' si comunista, si di sinistra, si kompagna, si scrittrice ma, ahinoi, anche ebrea!
La reazione, a quanto pare, e' stata devastante poiche' ha convinto la scrittrice della necessita' di scrivere di una lettera pubblica in cui si legge il dolore per essersi resa conto di non essere mai stata considerata "kasher' dagli esponenti del suo partito e del suo sindacato semplicemente perche' "ebrea", quindi facente parte del popolo che, secondo il pensiero distorto e razzista dei comunisti o ex comunisti, ha scacciato i palestinesi dalla loro terra.
Il credo di Clara Sereni , che lei non denuncia ma continua ad esaltare, fa parte di quella ideologia che ha sempre condannato Israele in quanto Terra del Popolo Ebraico, che ha giustificato la barbarie dei palestinesi , che ha deformato e negato la verita', e che e' stata complice dei palestinesi quindi corresponsabile delle sofferenze di Israele aggredita, non solo da guerre esterne, ma dal terrorismo del piu' grande mistificatore della storia, terrorista e ladro che fu Yasser Arafat. (...)"

Leggi l'intero articolo su Informazione corretta

 

Coppola rossa sull'Unità. Dal quartierino al giornalino: sempre furbetti sono

L’onesto Fassino, poveretto, si è sgolato a forza di dire che i Ds non c’entrano niente con le torbide trame di Unipol, Consorte e dei "furbetti del quartierino". Tutte insinuazioni di giornali scandalistici e di inqualificabili poteri forti. Ma come, i poteri forti non stavano, almeno in parte, coi Ds? Il povero D’Alema ha la voce rauca peggio di quando fa lo skipper sulla barca Ikarus, pagata con un mutuo acceso presso la famosa Banca Popolare (e skipper e mutuo ormai gli riescono più naturali che fare il politico, diciamo), a forza d’urlare che, sì, i collegamenti Ds-Unipol sono antichi, storici, ma mai il Partito ha avuto mani in pasta nella scalata alla Bnl. O comunque non ne conosceva dettagli e giochi sotterranei. Tutto bene: crediamoci.
Ma, purtroppo, è proprio il giornale dei Ds a rimetterci sulla pista giusta. Che ti ha combinato L’Unità? Oggi ha pubblicato un’intera pagina di pubblicità del Gruppo Coppola in cui si polemizza col Sole-24 Ore. Questo Coppola per noi è un perfetto sconosciuto, ma Mario Sechi assicura su Legno Storto che si tratta proprio dell’imprenditore Danilo Coppola, uno dei famosi "furbetti del quartierino", per dirla alla Ricucci, noto anche come consorte (oops, volevamo dire marito), beato lui, della Falchi.
Evviva la faccia tosta. Migliore scelta dei tempi il direttore dell’Unità e la segreteria Ds non potevano avere. Non chiamiamola doppiezza togliattiana, no, fa troppo anni '50. Vogliamo chiamarla almeno "clamorosa zappa sui piedi"?

 

Un'ombra sul settennato. Se "Ciampino" segue la lobby dei giudici

A Roma c’era chi lo chiamava affettuosamente "Ciampino", per la frequenza dei suoi viaggi in aereo. Noi liberali più laici, poi, non ci siamo mai uniti al coro retorico di quelli che vedevano in lui un "campione di laicismo". Sarà pure vero che a vent’anni fu iscritto a Giustizia e libertà, se ci portano le fotografie, ma nei suoi discorsi e nella sua attività d’ogni giorno, da Governatore della Banca d’Italia a regista tecnico del passaggio all’euro, e anche da Presidente della Repubblica, cioè come suggeritore, da lui ci saremmo aspettati molto di più in tema di laicità dello Stato e di riforme liberali. A cominciare da quella dei costosissimi e sovraffollati Uffici del Quirinale. Sarà che ormai è vecchio, ed è vecchio ormai da anni, ma il nostro caro Presidente Ciampi non ci ha mai convinto del tutto. E ha commesso i suoi errori, altroché. Ma quest’ultimo per lui potrebbe essere micidiale.
Proprio alla fine del mandato, quando cadono remore e inibizioni e un Presidente può essere finalmente se stesso, Ciampi ha censurato una legge che toglieva quel di più persecutorio, inutilmente borbonico e statalista, ai ricorsi dei processi, allineando almeno in questo l’Italia a qualche democrazia liberale d’Europa e d’America. D’accordo, gli italiani – vecchia storia – avendo la coda di paglia e sapendo di essere portati a infrangere la legge per genetica indisciplica, sono per lo più "innocentisti". Ma che ci sia "disparità di trattamento" in quanto al numero di ricorsi possibili, tra accusa e difesa, ci sembra irrilevante: è la difesa dei diritti dell’individuo, non la "tutela dei diritti dell’accusa" il problema in Italia. E lo scopo della norma non è garantire gli stessi "round" come nella boxe, ma appurare nella "verità processuale" se Tizio è colpevole o no. O al primo o all’ultimo processo. E se la sua innocenza viene trovata subito, in primo grado?
D’altra parte, anche in casi estremi, è inutile prolungare la tortura di processi, indagini e magari carcerazione, quando le prove portate dagli inquirenti (con tutte le polizie che abbiamo in Italia) sono modeste o inesistenti. Un processo non è "la verità" assoluta, né un giudizio morale completo sull’uomo, ma solo una decisione presa dopo che le parti hanno detto le loro ragioni. Se queste - sufficienti o insufficienti che siano - portano in primo grado ad una assoluzione, perché insistere? Ormai le prove sono quelle, ben poco di nuovo verrebbe fuori da nuove indagini. Sarebbe solo un di più inquisitorio, un’inutile e costosa persecuzione, il cui unico scopo è quello di confermare il Potere dell’Accusa, e indirettamente le Alte Prerogative dello Stato sul cittadino. Assurdo, poi, che la Cassazione, visto che c'è, non possa pronunciarsi sulle illogicità evidenti e sui vizi di contentuo d'una sentenza, anziché soloi sui vizi di forma.
Il Presidente, insomma, è sembrato cadere malamente su questioni giuridiche di lana caprina che non sono tutte farina del suo sacco, ma il frutto dei superpagati e pletorici uffici di consulenza al Quirinale, e in primis del segretario generale Gifuni, ma anche – si vocifera – delle pressioni della corporazione dei giudici e del loro organo di autocontrollo, in realtà ormai vera e propria lobby extra-costituzionale. Tanto che c’è stato perfino chi ha lamentano che sulle telefonate sicuramente intercorse al riguardo tra Quirinale e giudici, non siano state rese note finora intercettazioni telefoniche. Come a dire: ma come, ormai intercettano cani e porci, perfino la badante russa del piano di sotto, e mancano nei computer di Carabinieri e Finanza proprio le dritte di questo o quel politico (o magistrato) alla Presidenza della Repubblica? Comunque, Ciampi ha sbagliato. Una brutta ombra sul suo settennato.

20 gennaio, 2006

 

Cattivo esempio dall'Islam: con "Jesus Superstar" ritorna il fanatismo religioso d'Occidente.

E' un bene o un male per la "superiorità" liberale dell'Europa e dell'Occidente questa nuova moda americana di "Jesus Superstar"? Per i Romani, che la sapevano lunga e tra gli antichi erano i più laici, i fanatici erano solo i seguaci esaltati del dio Fanus, che accompagnavano i propri riti con eccessi d’ogni genere, orge e follia. D'altra parte, i fanatics ci sono ancora. Si chiamano "fans" e idolatrano in modo esagerato e maniacale i veri Divi di oggi, come cantanti, attori e sportivi, una squadra di football, un modello di auto, una marca di moto, una collezione. Ma la vera novità è che ora, come etimologia comanda, i fanatici tornano alle origini: dal rock alla religione.

Il fanatismo dell'Islam è un pericolo? Noi liberali, compresi i liberali cattolici, ce ne preoccupiamo molto. Non parlo del terrorismo, intendiamoci, ma solo di quella fede esagerata ed eccessiva che si fa notare perché contrasta con la vita d'ogni giorno, con la moderazione e la tolleranza della vita moderna (neu nimis, mai troppo, raccomandavano i filosofi antichi con un motto liberale). Ma il rischio è che ora anche negli Stati Uniti, forse per una distorta reazione uguale e contraria all’islamismo, stia dilagando una sorta di fanatismo cristiano che ha precedenti solo tra i primi fedeli del fanatico ebreo Joshua il Nazareo (cioè il "ribelle", secondo gli studi di Luigi Cascioli) nella Roma ancora pagana e, secoli dopo, negli anni più bui del Medioevo europeo.

Negli Stati Uniti, la società di massa evidentemente si presta alle ondate di entusiasmi, dal transvolatore Lindbergh al cantante Presley (v. poster, accanto a Gesù), dai figli dei fiori ai groupies. E' tale oggi l'infatuazione popolare per il personaggio Jesus, più che per Dio stesso, che la figura di Gesù ne è uscita stravolta. Sembra diventato una specie di Superman, un eroe western da figurine a colori. Con tanto di pubblicità sui cartelloni stradali, come se fosse l’attore d’un serial tv. Viene pubblicizzato addirittura un modo per tostare le fette di pane per farvi apparire una specie di "sindone": il Jesus toast. Se non è superstizione questa... Insomma, da divinità a mito terreno. E non so se le chiese evangeliche, in cui il fenomeno è più diffuso, se ne debbano gloriare. Gli stessi preti cattolici un tempo mettevano in guardia da ogni fanatismo i giovani catechisti. Ma oggi, dopo i "papa-boys" super-entusiasti fans di Wojtyla?

L’America, dove tutto e tutti, democraticamente, hanno il loro momento di gloria, a rotazione, ha decretato che "ora è di moda lo Spirito". Facili le ironie, conoscendo i giovani anglosassoni. Sembra quasi che alcuni di loro – fanatismi e mode sono sempre giovanili, il che la dice lunga - dal brutto vizio dell’alcol siano passati senza soluzione di continuità al vizio buono dello spirito.
Cambia poco: entrambi danno ebbrezza, per i Romani temulentia. Cosicché l’abstemius, chi si astiene dall’ebbrezza, sarà ateo?

E, quello che è più curioso, si va dallo spiritualismo esaperato al vitalismo terreno. Che è un po' una contraddizione. Gli stiliti, gli eremiti e i penitenti dell'Antichità, almeno, erano disinteressati alla vita, e vedevano ovunque la morte. Oggi, invece, accanto all'ostentazione della "bontà", che è anch'esso un controsenso perché è un "peccato d'orgoglio", è di moda presso certi giovani esaltati l’idea che attorno a noi esista un’entità diffusa chiamata "vita", che però - ulteriore contraddizione - viene vista come unica, ferma, eterna, immutabile: insomma morta. La Vita, anziché i miliardi di miliardi di vite, che in continuazione nascono e muoiono, come si conviene alla Natura da che mondo è mondo.

Il fanatismo cristiano, così, di fronte al più temibile fanatismo islamico, sembra più una reazione psicologica di debolezza (l'effetto copia) che di forza. Non per caso viene dopo l'attentato alle Torri di New York, che concentrò l'attenzione mondiale sulla diffusione del terrorismo dell'ala del Gran Califfato dell'Islam. Non meraviglia, quindi, che abbia preso piede soprattutto nell'Occidente più semplice, emotivo e suggestionabile, cioè la provincia profonda americana e le fasce d'età giovanili. Insomma, una reazione-non reazione, perché in fondo è la stessa cosa dell'islamismo super-devoto e intransigente. Anche se chi la scimmiotta in Europa, per ora pochissimi, dà più l'idea d'una diluizione all’acqua di rose che d'una soluzione concentrata. E per fortuna, in una società liberale che ha i suoi anticorpi, come negli Usa, non fa troppi danni. Al massimo danneggia gli individui che si lasciano suggestionare. Come quell’insegnante d’una scuola del Sud che ha avuto un sacco di grane sul lavoro per aver da un giorno all'altro sostituito Darwin e l’evoluzionismo con la "teoria della creazione", e il giovane campione di skate (la tavola acrobatica) che ha rinunciato alle gare, tutte di domenica, perché - ha detto - si è sentito "chiamato da Gesù" alle funzioni domenicali.

"Ma non è che tutto questo fanatismo religioso cristiano made in Usa potrà contagiare l’Europa?", si chiede l’intellettuale olandese Ian Buruma sul Corriere. Anche su questo - scrive - c'è una vera frattura culturale tra i due continenti: gli Stati Uniti sempre più religiosi, l’Europa sempre più laica e religiosamente scettica. Quesito, per la verità, già letto e riletto, e articolo un po' banale, come gran parte del giornalismo italiano, del resto.

Piuttosto, l’interrogativo originale che ci poniamo noi liberali, difensori dell'Occidente, è come potremo ancora parlare della tanto pubblicizzata superiorità intellettuale degli Europei, fondata sulla Ragione (della quale, contro il "politicamente corretto" sinistrese, siamo convinti), se anche l’Occidente tornerà a produrre come nel Medioevo un suo "fanatismo" cristiano, sia pure più leggero e meno invasivo di quello islamico? Con quali armi logiche, psicologiche e culturali combatteremo l’estremismo dell’Islam? Loro non se ne rendono conto, ma i politici demagoghi e populisti che fanno mostra di essere super-devoti, da Bush a Buttiglione, e ancor più i nostri falsi atei-devoti, da Ferrara a Pera, in fondo privano l’Europa e l’Occidente di un’arma formidabile contro i Paesi arabi: la forza della coerenza. Insomma, non vorremmo essere irrispettosi, ma la figurina di Jesus Christ Superstar, per colpa unicamente dei suoi inadeguati e sottoculturali "fans", anziché eccitarci e spingerci alla vittoria, come a Lepanto o a Vienna, stavolta potrebbe deprimerci e favorire la nostra sconfitta.

 

E Rutelli lanciò tre aggettivi. Dalla finestra del "Corriere"

"Rutelli lancia tre aggettivi: «Il mondo della cooperazione ha bisogno di autonomia, responsabilità e libertà". Siamo a Roma, all’assemblea di Confcooperative. Anzi, sul Corriere della Sera, ex giornale meglio scritto d'Italia. Vabbe' che parlava Rutelli, mica Manzoni, e si era in tema di Coop, quindi ogni sorpresa era lecita. Ha fatto bene la giornalista a non meravigliarsi di nulla quando è andata a rileggersi il testo. Rutelli e le Coop bianche - avrà pensato - sono capaci di tutto pur di screditare Consorte e Coop rosse, Fassino e Dante Alighieri, anche trasformare i sostantivi in aggettivi per far vedere che D'Alema e i Ds sono ignoranti. Io non ci casco: basta con i doppi Fini e il tritacarne anti-Ds. Non correggo. E così restò: "Rutelli lancia tre aggettivi: «Il mondo della cooperazione ha bisogno di autonomia, responsabilità e libertà. Basta con il collateralismo. Basta con le cinghie di trasmissione». E basta anche con la grammatica, aggiungiamo. Ecco perché le Coop cercano invano autonomia, responsabilità e libertà: le cercano nel cassetto sbagliato: quello degli aggettivi. Questo lapsus rivelatore, direbbe Edgar A. Poe, spiega tutta la vicenda Unipol. Che è un verbo, ci pare: voce del verbo "prendere". Quali aggettivi, era solo uno strano articolo!

19 gennaio, 2006

 

San Giavazzi. Più taxi e meno corporazioni, altro che Grandi Opere

San Giavazzi, meno male che ci sei tu a scrivere certe cose davvero liberali, sul Corriere. Se no, né la Sinistra, né la Destra (con tanto di Presidente del Consiglio che si è definito "liberale" a Porta a Porta) ne parlerebbero mai. Dunque, basta con le Grandi Opere Elettorali, fumo negli occhi per non parlare delle tante piccole cose della vita quotidiana che non vanno. Il "Ponte", la "Superstrada", la "Ferrovia super-veloce" ecc. Certo, anche le opere faraoniche andrebbero bene, ma dopo che le tante altre cose più piccole, meno costose e più importanti per la vita quotidiana dei cittadini saranno state fatte. Inutile ridurre di un’ora i tempi del treno Milano-Roma se poi si deve aspettare per un’ora il taxi. Perché non liberalizzare le licenze? E non è più sensato, prima, pulire i treni? Ma la pulizia è affidata alle solite coop di ex-dipendenti, che guarda caso vincono sempre le gare… Liberalizziamo. Avete mai visto un filippino guidare un taxi? Avete mai visto un russo vendere i giornali all’angolo delle strade o in un chiosco? Ed è intelligente far scorazzare tutte le auto, compresi i "fuoristrada da deserto", nel centro delle città, dove lo spazio e la pulizia dell’aria sono beni preziosi e limitati? Si mettano varchi col telepass, come a Londra. E il ricavato lo si usi per migliorare i mezzi pubblici. Ma i commercianti italiani - unici al mondo - temono di perdere i loro privilegi, la loro rendita di posizione, se il cliente non parcheggia sul marciapiedi. L’edicolante ha paura di non vendere, se la signora non si ferma sulle strisce per chiedere la rivista.
Ecco il problema vero: il corporativismo, sottospecie patologica, corporativismo all’italiana, tutelato per paura elettorale dai Governi di Destra e di Sinistra. Tutto in Italia è pensato e fatto non per il cittadino utente e consumatore, ma nell’interesse delle categorie protette, cioè di pochi privilegiati che sono contro la libera concorrenza e il mercato, quindi contro il liberalismo economico: tassisti, avvocati, cooperative, farmacisti, edicolanti, notai, editori di giornali, giornalisti ecc. Altro che tifo stupido da football tra una Destra e una Sinistra più o meno uguali e illiberali: voteremo chi ci assicura di risolvere questi problemi. San Giavazzi, aiutaci tu. Ma concedi ai tuoi "fedeli" una domanda ingenua: credi davvero che Prodi rinuncerebbe alle Grandi Opere "che danno voti" (secondo i politici), per dedicarsi alle mille piccole cose che interessano il cittadino e il funzionamento dell'economia liberale in Italia? Noi non lo crediamo. Tu sì? Be', qualche volta anche i santi si sbagliano, San Giavazzi.

 

De Luca (Pli) si difende: "E' il Premier che mi ha mandato da Rotondi..."

Tutti "liberali", nessun liberale. In Italia, piace la parola, evidentemente, più che i contenuti (v. più avanti Giavazzi). Ma forse neanche la parola, perché altrimenti non sarebbe così difficile, quasi impossibile, presentare una lista liberale. D'accordo, ora ci sono le ulteriori difficoltà della nuova legge elettorale. Ma prima, di grazia, quando le norme erano più favorevoli? Fatto sta che i tanti liberali italiani trovano difficoltà insormontabili a presentarsi col loro nome sia a Destra, sia a Sinistra.
Intanto vediamo quelle nella Casa delle libertà.
Dopo le polemiche dei giorni scorsi, con la base liberale in rivolta e il Consiglio nazionale del Partito liberale italiano che ha detto "no" alla ventilata presentazione del PLI alle elezioni politiche insieme con la Nuova Democrazia Cristiana di Rotondi, il Segretario Nazionale del PLI, Stefano De Luca, ha inviato oggi una lettera a tutti i quadri dirigenti del partito.
"Cari Amici, desidero informarVi che, in esecuzione di quanto stabilito dal Consiglio Nazionale del 12 gennaio scorso, ho invitato gli amici Repubblicani, Riformatori Liberali e Socialdemocratici, a promuovere, insieme a noi, una lista dell’area liberal-democratica a sostegno della Casa delle Libertà. I tre movimenti interpellati, hanno declinato l’invito ritenendo che, a loro avviso, non sussistono le condizioni per presentare tale lista. A questo punto ho informato della nostra iniziativa il Presidente Berlusconi, che ci ha invitato ad aderire alla lista promossa dall’on. Rotondi, condividendo la condizione da noi posta di inserire il simbolo del PLI, in quello comune. Ritengo doveroso informare tutti i quadri dirigenti del Partito prima di assumere una qualsivoglia decisione definitiva. La complessità delle procedure previste dalla legge per la presentazione delle liste, il numero enorme delle firme da raccogliere e lo sbarramento che penalizza le liste minori, ci impone di tener conto delle indicazioni del capo della coalizione, peraltro formulate in termini molto calorosi e pressanti. In attesa di convocare gli organi del Partito, Vi prego di farmi conoscere la Vostra opinione in merito"

18 gennaio, 2006

 

Vergogne d'Italia: i politicanti in Sicilia si aumentano lo stipendio

La privata cordialità e gentilezza dei suoi abitanti è proverbiale. L'ospitalità quasi eccessiva. Bella la terra, raffinata la cultura del cibo. La tranquillità d'una vacanza assicurata. Poteva essere una grande regione. E invece? La vita pubblica e sociale è un disastro in Sicilia, e unicamente per colpa dei siciliani. Le strade sono in dissesto, ci vogliono ore per andare da Palermo a Catania, l'abusivismo edilizio è dilagante, i controlli carenti ovunque, la sanità degradata (decine gli "incidenti" solo nell'ultimo anno), di igiene non parliamo, l'acqua potabile è poca non tanto per avarizia della Natura ma per difettosa raccolta, canalizzazione e manutenzione da parte dell'uomo.
In Sicilia l'incuria e l'inefficienza degli amministratori locali, la corruzione, lo spreco del denaro pubblico, il nepotismo, i favori agli amici, i privilegi, gli imbrogli politici, sono vere e proprie "regole sociali" osservate da tutti: centro, destra e sinistra, giovani e vecchi. Anzi, le hanno già esportate da tempo nel Continente.
La Sicilia, insomma, solo per le colpe esclusive dei suoi abitanti, della sua classe dirigente, è oggi un isola di inciviltà sociale. Un panorama che la privata cordialità, dolcezza e gentilezza dei suoi abitanti, come anche la squisita ospitalità e il mangiar bene, non possono neanche lontanamente compensare. Perché in Sicilia, per colpa degli uomini, si vive male, tra troppe ingiustizie, troppi favoritismi, troppa corruzione, troppi sprechi.
Ebbene, una classe politica così inefficiente e corrotta si è data (evviva l'autonomia) stipendi alti e soprattutto migliaia di collaboratori inutili. Ora, mentre i deputati della Camera hanno almeno avuto il pudore di ridursi lo stipendio del 10 per cento (non i senatori, però), i deputati dell'Assemblea regionale siciliana hanno avuto la faccia tosta di aumentarsi appannaggio e spese, anziché diminuirli per la crisi economica. Riporta la Apcom che ieri l'Assemblea a Palermo ha votato l'aumento del bilancio regionale di ben 7 milioni e 55 mila euro rispetto al 2005. in tutto, il bilancio annuo regionale della Sicilia è di ben 149 milioni e 240 mila euro, di cui 21,9 milioni di euro come compensi ai deputati locali (400mila euro in più dell'anno scorso).
La colpa non è della gente, ma dei politici, dirà il solito italiano. No, siamo in democrazia liberale: le colpe sono sempre degli elettori. E visto che i simpatici siciliani hanno anche il vizio di protestare e lamentarsi facilmente, per ogni nonnulla, contro lo Stato, contro l'Italia, come mai non protestano duramente contro i loro rappresentanti a Palermo? Possibile che tutta la loro polemica si fermi davanti agli "amici" del Palazzo della regione?
Quante volte, troppe, abbiamo sentito il politicante, l'amministratore locale, la moglie, il padre, la vedova, l'orfano, il professore, lo studente, esclamare di fronte alle telecamere la classica frase del meridionale frustrato e borbonico: "Che fa lo Stato? Ci deve aiutare", se non addirittura - proprio loro - "Mi vergogno di essere italiano". E se ora qualcuno dicesse finalmente a questi politicanti furbi e corrotti, a questa gente disattenta, ignorante e provata dalla sorte, ma non di meno responsabile dei suoi errori, che è vero tutto il contrario, e che sono loro la vergogna d'Italia?

 

L'edificante disfida d'Altamura tra la focaccia e l'hamburger

Il francese Libération del 3 gennaio vi ha intinto letteralmente il pane, figuratevi. O meglio, a nome della testata, lo ha fatto - e chissà se avrà imparato a fare "scarpetta" nel piatto - il suo Eric Jozsef, laggiù nel profondo Sud dei Borboni e di Federico II Hohenstaufen, precisa l'inviato di Libé, risalendo un po’ troppo in là nei secoli.
Certo, un’occasione unica per il giornale francese della Sinistra mangia-amerikani, vetero-comunista e reazionaria no-global in stile Bové, il contadino energumeno e spaccatutto che ce l’ha a morte con le multinazionali. Vedere per la prima volta agonizzare di morte non-violenta un ristorante McDonald. Non capita tutti i giorni che l’odiato panino ripieno di hamburger venga sconfitto da una piccola panetteria tradizionale, che come uniche armi contundenti sforna saporite focacce pugliesi al pomodoro, pizze di cipolla o di piccanti funghi cardoncelli (vietati dalla Chiesa durante i Giubilei perché ritenuti afrodisiaci), salsicce al pepe e pane di grano duro, mostaccioli di fichi secchi e "calzoni" gonfi di mozzarella filante.
Ecco le armi antiche ma efficaci con cui una neonata tavola calda ad Altamura ha avuto il coraggio di aprire i battenti proprio accanto al colosso col simbolo della grande M, pensate un po’, per fargli concorrenza. Ed ha vinto, anzi stravinto. Il fast-food grande e grosso le ha provate tutte, s'è inventato ogni genere di promozione, e ha perfino cambiato direttore, ma niente da fare, ha dovuto chiudere: il pubblico a poco a poco trasmigrava verso la vicina rosticceria rustica dai forti odori e sapori. Rosticceria che aveva avuto anche l’intelligenza di praticare prezzi analoghi o più bassi del gigante vicino.
Una favola bella nazional-popolare? Anche. Ma per noi razionalisti è solo un buon apologo liberale. Come ha confidato Onofrio Pepe che col medico Peppino Colamonico ha fondato ad Altamura l’associazione per la difesa del cibo tradizionale "Amici del cardoncello": "La morale è che non è necessario reagire come José Bové in Francia. Distruggere un fast-food, rinchiudersi sul proprio territorio di fronte alla globalizzazione è un comportamento reazionario. Noi, invece, abbiamo vinto sul terreno della concorrenza alimentare". Impeccabile.
Insomma, il piccolo David pugliese ha accettato la sfida, anzi ha dato battaglia per primo al Golia venuto da fuori, fornendo agli stessi prezzi prodotti di qualità e di nicchia che il gigante globalizzato ovviamente non poteva fornire. Ecco, dalla città di Altamura (65 mila abitanti e un famoso pane di grano duro) viene un piccolo grande insegnamento per i tanti italiani che non sanno fare mercato e hanno paura della concorrenza. Il segreto c’è, e guarda caso è lo stesso degli antichi Romani e del liberalismo: il coraggio. Attaccare, e attaccare per primi. Solo così si può vincere. Rispettando la concorrenza e le regole liberali del gioco economico, che per noi sono sacre. E onore delle armi alla McDonald sconfitta nell'ormai mitica "Disfida di Altamura tra la "fcazz" (focaccia, nell’orribile dialetto consonantico pugliese) e l’hamburger". Insomma, una nuova Iliade gastrosofica.

17 gennaio, 2006

 

Panebianco: la società libera deve avere al centro il cittadino

ANCONA. Il 19 gennaio, alle 17,30, presso la facoltà di Economia (ex Caserma Villarey) è prevista una conferenza-dibattito del prof. Angelo Panebianco dell'Università di Bologna e editorialista del Corriere della Sera, sul tema: "Come rivendicare la centralità del cittadino nella gracile costituzione della società libera". L'argomento è tratto dal libro di Panebianco "Il potere, lo stato, la libertà", edito da Il Mulino. La conferenza-dibattito fa parte del ciclo di conferenze intitolato "Le origini di un sogno rivoluzionario: lo Stato di diritto", organizzato dal Circolo Culturale Benedetto Croce di Ancona e dal Comitato per le libertà, con la collaborazione dell’assessorato alla Cultura del Comune di Ancona e della Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche.

 

Cattolici "liberali". Liberali con riserva mentale, fin dall'800

"Questi cattolici che accettavano il nuovo regime [degli Stati liberali, nella seconda metà dell'Ottocento, specialmente in Francia e in Italia, NdR] si dicevano cattolici liberali; ma nel senso circoscritto che accettavano la libertà di coscienza, di stampa, di associazione e di riunione, e il regime rappresentativo, subordinatamente ai diritti della Chiesa e della morale cattolica; e cioè, non come dogmi assoluti, sibbene come condizioni contingenti, di fatto; e rigettavano la neutralità statale, la separazione della Chiesa dallo stato e tutto il teleologismo atomistico del liberalismo. Si dicevano liberali, insomma, perché accoglievano gli istituti pubblici che andavano sotto il nome di liberali, ma rifiutando il liberalismo economico e filosofico". Igino Giordani, I Cattolici liberali (La Rivoluzione Liberale, diretta da Piero Gobetti, a.IV, n.14, 1925).

 

Gratta, gratta, riaffiora la solita vecchia Sinistra antisemita e antiebraica

E’ duro, ancora oggi, essere insieme di sinistra ed ebrei. A confermarlo è la scrittrice Clara Sereni, che si è sfogata sull’Unità. Preconcetti, luoghi comuni stupidi e triti, un antisemitismo strisciante e ironico, che si pensava fossero tipici degli strati popolari meno colti, sia a Destra che a Sinistra, la Sereni li ha ritrovati pari pari in una cena tra "coltissimi" (nostre virgolette, ironiche) intellettuali e militanti della Sinistra. Si andava dalla battuta cretina sulla "lobby ebraica" che governerebbe le banche mondiali, la "chiusura" a chi non nasce ebreo perché non si può convertire, la nascita dello Stato d’Israele per "volontà imperialistica" degli Stati Uniti". Il pranzo è finito ovviamente con un’accesa discussione. Ma era solo il primo incidente. Secondo episodio increscioso, al congresso della Cgil (buoni quelli) dove la Sereni è stata presentata non a caso come "ebrea e scrittrice". "Ho parlato delle mie preoccupazioni per lo svuotamento della democrazia in Israele e un sindacalista arabo si è messo ad urlare perché per lui in Israele non c’è democrazia ma il sionismo, che in realtà è stato anche altro". "In tanti - spiega la Sereni - pensano che un tempo c’era uno Stato di Palestina libero che il perfido sionista schiacciò nel sangue. Purtroppo c’è una grande voglia di semplificare anche nella sinistra che in altri tempi aveva scelto il paradigma della complessità come strategia per interpretare la realtà e modificarla". Alla Sereni la più viva solidarietà di Salon Voltaire.

 

Le pezze al sedere: moralisti di professione uno contro l'altro

Al teatro romano Ambra Jovinelli, famoso per l’avanspettacolo o varietà leggero che laureò Totò e tanti altri attori comici, si presenta il libro di Marco Travaglio e Peter Gomez Inciucio - Come la sinistra ha salvato Berlusconi , edito dalla Bur. Nel corso della serata – riferisce Paolo Conti sul Corriere – prende la parola Paolo Flores d’Arcais: "Gramsci diceva che la verità è rivoluzionaria, non che la rivoluzione usa la verità come gli pare. I nostri post-comunisti, invece di rifarsi alla nobile tradizione gramsciana, hanno un riflesso condizionato verso il comunismo francese, il più stalinista d’Europa: non si parla dei propri errori per non fare il gioco del nemico. Ma Consorte ha messo da parte 50 milioni di euro. E ai tempi di Tangentopoli un miliardo di tangenti era uno scandalo... qui sono cento miliardi per una consulenza". E ancora, rigirando il coltello nella piaga dei Ds: "Nell’orizzonte della sinistra non dovrebbero mai comparire insieme "Svizzera" e "conti cifrati". Allora era tutto vero: "Sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al sedere e ne sono usciti ricchi" (diceva Travaglio del governo D’Alema due anni fa). E ora aggiunge: "Se confermo le mie parole del 2004? Tutte. Con l’aggiunta di qualche nome. Adesso si conosce il giro dei soldi e dove sono stoccati". I 50 milioni di euro di Consorte? "Certo. Ma penso anche a Gnutti. La banda è cominciata lì, con Telecom. Non avevano né arte né parte, adesso hanno i soldi che gli escono dalle orecchie".
A noi liberali questi siparietti ci fanno ridere: altro che scontro edificante tra Partito della Corruzione e Partito della Morale. Li vorrei vedere i Travaglio (che mi dicono culturalmente di destra) e i Flores (che mi dicono culturalmente di sinistra) al Governo. Farebbero ancora peggio. Perché senza liberalismo diffuso, la corruzione vera, la mancanza di trasparenza e di alternativa, pervade sia gli uni, sia gli altri. Che diventano solo attori mediocri d'un teatrino illiberale. Divertenti, no?, questi moralisti di professione che si scagliano uno contro l'altro per strappare un applauso, vendere un libro, o guadagnare mille voti in più. Essere "virtuosi" significa anche essere attaccati da chi recita da "più virtuoso" di te. Visto che i ruoli anche nel teatrino della politica si possono imparare a memoria. A questo non avevano pensato i Ds, come anche i Margheritini. Accusa, accusa, e vedrai che qualcuno più furbo di te un giorno accuserà te. Ma si può anche dire come il popolino di Roma un tempo: "Qua er più sano ci ha la rogna".

 

E ora anche Grande Accusatore alla Bellarmino. Ma Candido si chiede...

A noi il Presidente del Consiglio che ritrova grinta e recita da Grande Accusatore, un po' ci fa rabbia. Ma per motivi, come dire, liberali. "Prodi, sui giornali di oggi, dice che presto andrà a incontrare il presidente delle Generali Bernheim - afferma il premier -. Si dimentica di dire che lo ha già incontrato. Guarda caso, nei giorni caldi dell’offerta pubblica di acquisto sulla Banca Nazionale del Lavoro. Proprio come D’Alema che ieri, per gentile suggerimento del presidente degli Industriali del Lazio Valori, si è dovuto ricordare di essere andato, anche lui, a cena con lo stesso presidente delle Generali". Incontri che secondo il capo del governo non potevano non riguardare l’affare Unipol-Bnl: "Improvvisamente l’estate scorsa - continua il premier - tutti i leader dell’Unione sentono il bisogno di incontrare, nel giro di pochi giorni, il numero uno del gruppo che detiene un decisivo 8,7% della Bnl, in quel momento sottoposta all’offerta pubblica d’acquisto di una grande banca spagnola cui si opponeva Unipol. Una coincidenza davvero singolare visto che tutti questi commensali insistono nel dire che con Bernheim di tutto hanno parlato tranne che di Unipol. C’è da giurare che i loro giornali sono pronti a credergli". Avete notato com'è stringente? Implacabile? Sembra il cardinal Bellarmino.
A questo punto il Candido di Voltaire chiederebbe: ma se aveva questa grinta, perché il Presidente del Consiglio non l'ha usata bene e per tempo, e non solo per il teatrino della politica e in vista dei sondaggi e delle elezioni, per imporre ai suoi "alleati" di Governo qualche riformetta liberale?

16 gennaio, 2006

 

Romolo speculatore edilizio: la "controstoria" del liberalismo alla Marx

Ultimissima: l'Istituto superiore di sanità e le Asl hanno denunciato per contravvenzione alle norme igieniche 400 milioni di italiani, tutti quelli che dall’antichità al 1700 hanno gettato ogni giorno il contenuto dei vasi da notte nei chiassetti (vicoli laterali), spesso sulla testa dei passanti. In quanto a Romolo, edificò Roma contro ogni norma edilizia e urbanistica: uno speculatore. Il Colosseo, che mascalzoni, non ha "uscite di sicurezza", va abbattuto. Nella lista nera anche tutta la gentaglia "amerikana", dai Padri Pellegrini agli avventurieri del West: navi e carovane non rispettavano Codice della navigazione e della strada. E il professionista abusivo Leonardo da Vinci? Costruiva macchine e torri – come Eiffel – senza essere laureato. Denunciati dal Nas tutti i fornai e cuochi dell’Antichità: fuori norme europee Eu. Il carcere è stato chiesto per tutti i medici da Ippocrate fino al 1980: arretrati, non seguivano gli attuali Consensus internazionali di medicina. Cristoforo Colombo? Un colonizzatore egoista, sicuramente di destra. E i filosofi greci? Non dissero quasi nulla contro lo schiavismo. Per forza: erano iscritti al Klu-Klux Klan.
Divertente, no? Perciò ci siamo dilungati. Sono esempi grotteschi di quello che può fare il difetto di storicismo, cioè quando per ottusità o settarismo non si inquadrano fatti e personaggi nella loro epoca, ma li si giudica col metro di oggi, e per di più con le screditate tesi di Marx ed Engels. Benedetto Croce ci ha insegnato a storicizzare, ma certi docenti italiani Croce non l'hanno letto e scrivono libri a tesi, come se ci fosse solo una storia, quella dell'oggi, per di più vista con occhiali vetero-marxisti. Così ha fatto il professore della Sinistra comunista "antagonista" Losurdo con una sua discutibile "Controstoria del liberalismo", in cui dà dello schiavista e del liberticida a più d’un filosofo o esponente liberale del tempo, colpevole di gradualismo, moderatismo o di "tempi lunghi", sempre scorrazzando allegramente da un secolo all’altro, e sempre giudicando secondo la sensibilità e il politicamente corretto di oggi.
Certo, John Locke (nella foto) ed altri grandi liberali del passato non dormono sonni tranquilli. Un errore così grave, quello di Losurdo, che molti giornalisti e intellettuali liberali non hanno neanche risposto alla provocazione. Però Raffello Morelli si preoccupa che una "controstoria" possa diventare, in assenza di confutazioni, una "storia" del liberalismo, e sull'ultimo fascicolo (n.43) di Libro Aperto, rivista liberale fondata da Giovanni Malagodi e diretta da Antonio Patuelli, pubblica una lunga e minuziosa critica al libro del Losurdo, confutandone le tesi faziose capitolo per capitolo. Ne riparleremo.

15 gennaio, 2006

 

Due gaffes di papa Ratzinger, come capo di Stato e cittadino europeo

E poi se la prendono con l’Islam. Una giovane donna musulmana aveva scritto un po’ risentita a Salon Voltaire dopo la nostra nota sulle stragi provocate dal fanatismo religioso alla Mecca. "Quando ci sono di mezzo gli islamici – diceva in sostanza – subito si pensa al fanatismo, al fondamentalismo". Cara amica, la Chiesa cattolica non è da meno, per esempio in sadismo e odio verso le donne. Vedi l’episodio della doppia gaffe in Vaticano. I tre amministratori di Sinistra (Veltroni, Marrazzo e Gasbarra) si saranno resi conto dell’errore fatto andando in udienza dal Papa? E’ vero che "Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia", ma non c’è peggior ovino di quello elettorale.
Erano andati a rapporto – pensate un po’ – sulle misure intraprese "in favore della famiglia". E il Papa, da intellettuale semplice, ha capito che su quel terreno, con quei politici "venuti a Canossa", sia pure per propaganda, poteva osare. E ha fatto non una, ma due gaffes enormi. La prima con un’intromissione politica nelle questioni italiane, come capo di Stato straniero, visto che non si trattava di un’omelia religiosa. La seconda con un pensierino quasi sadico che dovrebbe ripugnare a qualsiasi cittadino europeo e occidentale.
Sulla pillola abortiva RU486, che permette di evitare il trauma chirurgico e psicologico dell’aborto – ma non un certo dolore, a quanto pare – ha esortato i politici ad "Evitare di introdurre farmaci che nascondano in qualche modo la gravità dell'aborto, come scelta contro la vita". In altre parole, la donna che vuole abortire, almeno sia terrorizzata psicologicamente dai ferri del chirurgo e dalla degenza in ospedale. E così, le altre donne ci penseranno due volte prima di abortire. Santità, ce lo dica ad un orecchio, ma è proprio sicuro di andare in Paradiso?

14 gennaio, 2006

 

Coppie di fatto secondo i liberali: nuove libertà e nuovi diritti. Per gli altri

"Ti presento Daniela, la mia compagna". Vi ricordate i "compagni che sbagliano"? Ora è la moda dei "compagni che coabitano". Molto meno dannosi, convenitene. Anche perché non è detto che siano compagni in senso politico, anzi. Sono le coppie dei tempi moderni, per lo più borghesi, di chi è rimasto alternativo per una vita, di destra o di sinistra che sia, e non vuole smentirsi neanche con i capelli bianchi, la pancia e il doppio mento. Oppure di chi ha paura che l’unione si sciolga, e non vuole restare stritolato dalle trappole giuridiche, dalla lunga trafila della separazione e dalle spese del divorzio. Colpa del legislatore italiano, che ha scritto una legge punitiva per i cittadini, specialmente maschi.
Non gli piace essere chiamati "marito" e "moglie", guai, ma il loro è matrimonio, altroché. Perché questo nasce dalle più antiche società spontaneamente: non l’ha certo inventato la Chiesa, che è sorta solo 2000 anni fa, e che, anzi, ha praticato e propagandato il celibato, non il matrimonio, come l’unica condizione di purezza e santità. E se qualcuno l’ha regolato e ritualizzato fino a farne il fondamento della nostra società (p.es., nella forma della confarreatio, con il dono a Giove del pane dolce di farro, il libum farreum, che però poi si pappavano sacerdoti e loro domestici), questo semmai è il popolo dell’antica Roma, col diritto, insomma la civiltà etrusco-romana.
E ora? Riconoscendo effetti giuridici civili e amministrativi a questo matrimonio spontaneo, anche uno scemo capirebbe che si estende, non si limita, la forma matrimonio. La Chiesa sbaglia, dunque, anche nel merito, oltre che nella forma, cioè nell'intromissione illegale nella politica italiana. Perché ci saranno più matrimoni, paradossalmente, non meno. E, ripetiamo, che voce ha in capitolo la Chiesa, che ai suoi sacerdoti vieta il matrimonio "base della società" e prescrive il celibato? Pazzie ecclesiastiche. Ed è grave che Destra e Sinistra la stiano a sentire, solo per motivi elettorali.
Quante sono, poi, in Italia queste coppie di fatto? Siamo lontani dai 2 milioni e mezzo di coppie della Francia. Un’indagine Istat del 2002-2003 ne ha stimate 564mila. Magari, come sempre accade nella realtà italiana, saranno 200mila in più. Ma certo un numero limitato. Insomma, un milione e mezzo di cittadini ha scelto di convivere more uxorio – come dicono i preti – praticando la forma naturale, atavica, di matrimonio, senza alcuna registrazione. Ma la tendenza è in crescita: perché all'inizio degli anni '90 queste unioni spontanee erano appena 200mila, soprattutto nel centro-nord e nelle grandi città. E si calcola che non più di 15 o 20mila saranno le richieste di regolarizzazione, quando sarà approvata la legge, attraverso i "patti di convivenza civile" riconosciuti dallo Stato.
Il loro riconoscimento, come eventualmente quello di coppie dello stesso sesso, è un tipico processo liberale. Intanto, come in tutte le istituzioni liberali, non si inventa nulla, ma si riconosce una realtà di fatto, sociale, preesistente. In tal modo si delineano nuove libertà e in conseguenza si riconoscono nuovi diritti soggettivi. E sì, perché in quanto ai vecchi diritti o alle vecchie libertà, li riconoscono – talvolta di malavoglia – anche conservatori, comunisti, fascisti, cattolici (o islamici) integralisti. Per sé, naturalmente. Solo i liberali, invece, cercano, trovano, riconoscono sempre nuove libertà. Inoltre, a differenza dei primi, i liberali questi nuovi diritti non li riconoscono "per sé" o per una classe o corporazione, ma "per tutti gli altri", per chi la pensa in modo diverso, talvolta per gli eccentrici, gli originali.
Non si pensi che un liberale debba per forza essere ateo, nudista, divorzista, abortista, vegetariano, gay o amante del jazz. Ma deve permetterlo a tutti gli altri, liberamente e in modo paritario (non più solo "tollerare", per dirla con i primi liberali del 700). Un liberale deve poter avere la libertà, magari solo virtuale, teorica, tra le mille possibili soluzioni. Come in un supermarket, vogliamo che ci siano tutti i prodotti. Poi, magari, ne compriamo uno solo, o nessuno.
Se no? Altrimenti, vuol dire che non si è liberali, ma conservatori, comunisti, fascisti, islamici (o cattolici) integralisti ecc. A meno che uno pensi stupidamente che solo perché l’alcol è in libera vendita, un liberale debba ubriacarsi fino al delirium tremens. No, lui è astemio, ma l’alcol si "deve" vendere. Tertium non datur, non c’è alcuna scappatoia. O di qua o di là.
Perciò un liberale, che privatamente ha un forte senso del ridicolo, riderà, forse, degli ultimi paradossali romantici, i borghesi fuori tempo massimo che vogliono il "matrimonio gay", loro che un tempo il matrimonio, come tutte le altre regole civili, contestavano. Sparlerà, perfino, di atei, vegetariani e nudisti, combatterà questo o quell’altro. A parole. Nel privato. Ma in pubblico (la Politica) dovrà consentire e perfino difendere attivamente, alla Pannella, ogni nuova libertà, anche la più antipatica, ogni nuovo diritto. Perché proprio le nuove libertà e i nuovi diritti sono l’essenza vitale del liberalismo: senza quelli cade questo. "Ma come, proprio questi stronzissimi "pacs" sarebbero…" E già, chi l’avrebbe detto, una cartina di tornasole per noi liberali: la libertà dei diversi, degli altri, di chi ne ha bisogno. Come per il divorzio. Non solo la propria libertà: questa ce l’hanno anche Mussolini e Bin Laden.
Eh, che volete farci, cari amici infiltrati a migliaia nel liberalismo (basta leggere i giornali e i blog…) solo perché la parola è bella e voi vi vergognate a definirvi conservatori o "di destra". Intanto, sbagliate a vergognarvi, perché la parola "conservatore" è molto dignitosa, ha un senso storico – lo riconosceva anche Gobetti, che oggi definiremmo un "liberale di sinistra" – e non si capisce perché solo in Italia nessuno voglia definirsi, al contrario che nei grandi Paesi anglosassoni, "conservatore", ma solo snobisticamente "liberale" o "progressista". Però, vedete che succede a fare i furbetti snob del quartierino e a comprarvi la "bicicletta liberale" alla moda? Che adesso non sapete usarla e ci fate una meschina figura. Si vede che non è per voi. Ma la migliore vendetta è il ridicolo: l’avete voluta la bicletta "lib"? Ora pedalate davanti a tutti. E senza distruggere manubrio, cambio e freni, per favore… E che vi serva da lezione, per non definirvi più "liberali".

 

Pli: dopo tanto nulla un'azione? Tranquilli, non se n'è fatto niente

Avete presenti certi giovani nati vecchi? Hanno un'aria inutilmente calma, posata, lenta, compassata. Grave, direi. Senza per questo essere granché. Magari quell'aria lì la usano per chiedere al salumiere: "Vorrei due etti di prosciutto, ma che sia magro, m'ha raccomandato la mamma". Ma di loro i papà degli amici hanno un'ottima impressione: "Un ragazzo serio quel tuo amico". Come a dire: tu invece...
Ecco, quando eravamo giovani liberali il PLI era così. Se salivi le scale di via Frattina e mettevi il naso dentro qualche stanza ("Oh, mi scusi tanto...") inseguito da un sospettoso Piccio Crepas - un impiegato così liberalmente snob che considerava tutti gli iscritti al partito dei liberali infiltrati, a cominciare dal Segretario generale - intravvedevi signorili uomini di mezz'età, fronti ampie, capelli sempre troppo corti, cravatte di lana grezza stile inglese, scarpe robuste e ben fatte come si addice a dei farmer che di tanto in tanto, pur elegantemente vestiti (ma d'una eleganza sobria, veh) potrebbero da un momento all'altro far visita al fattore in Scozia o in Valtellina per controllare il silos dell'avena o del saraceno. Eh, sì, come mi piacevano quelle scarpe mai viste, forse comprate in Regent street, a Londra.
Belle facce, parole elevate, si capiva che quella gente non era lì, come i volgari comunisti, socialisti, democristiani e missini, per rubacchiare con l'inganno un voto, se non addirittura dei milioni d'allora. Nei discorsi partivano sempre da Croce, Einaudi, Risorgimento, dicevano cose che - sant'Iddio - avrebbero convinto anche i gatti, tanto gridavano signorilmente vendetta, ma poi, quando erano ormai faticosamente arrivati all'età contemporanea, alla politica in corso, molti degli spettatori se n'erano già andati, distrutti. E così, le cose da fare per il futuro, le proposte, non le ascoltava, né forse le diceva mai nessuno.
Pensavo a quella lentezza antica, a quella nobiltà inutile, a quella grandiosa gravità senza idee, quando si ricostituì lo scorso anno il Partito liberale italiano. Di nuovo belle parole, un bel segretario politico dalla faccia nobile e per bene, un vero liberale insomma. Ma il "fare", il permettere agli altri di fare, l'immagine, le nuove idee, la polemica politica, la propaganda tra la gente, la psicologia politica, l'arte della comunicazione, l'ufficio stampa, l'organizzazione di segreteria politica, il confronto quotidiano con gli altri partiti e i giornali, i programmi da realizzare entro un mese, un semestre, un anno? Nulla. Ma non un nulla vuoto, che sarebbe stato possibile riempire, piuttosto un nulla mobile, gattopardesco, che si rinnovava sempre di nuovi, apparenti, labili, contenuti. E che quindi impediva anche al più volenteroso di intervenire, di dare una mano, in cambio d'un "grazie". Nulla, e neanche il grazie arrivava ai rarissimi che una volta tanto collaboravano.
Fuori, intanto, tutti si definivano "liberali", il 40 per cento degli italiani non si sentiva rappresentato né dalla Destra né dalla Sinistra. E davvero anche un marziano avrebbe capito che i liberali non potevano essere meno del 30 per cento in Italia, Paese europeo, occidentale, sviluppato, dopo la caduta del comunismo, e la diffusione del mercato e delle regole di concorrenza tra la gente. E invece? Dentro il PLI silenzio e immobilismo come vent'anni fa. La finzione snob di essere pochissimi, una "frangia", anche se muta e immobile. La retorica degli "ultimi giapponesi". Il masochismo voluttuoso, eroico ed erotico, dello 0,3 per cento. Comodo, no? Per poter continuare nel non far nulla accidioso e meridionale. Per non dover affrontare la concorrenza di altri leader liberali ben più preparati, giovani, grintosi e vincenti che si affacciavano nel Paese. "Meglio quattro gatti sfigati e provinciali - deve essersi detto qualcuno - così nessuno mi farà le scarpe..."
E sono continuati i bei discorsi. E come sempre, addormentati dalle acute analisi politiche e dall'oratoria avvocatesca di De Luca, un vero liberale del resto, quasi impossibile da criticare per quello che diceva, pochi ascoltatori resistevano fino alla fine. Tanti, dei pochissimi, se ne andavano. Che fare? Nulla. Perché nulla era previsto che si facesse. E che, un partito, specialmente se liberale, tanto più se vuole reincarnarsi nell'ombra del vecchio PLI, Grande e Nobile Partito già defunto prima di scomparire, deve forse "fare qualcosa"? Abbassarsi al servile lavoro politico? Macché, è solo il partito della Memoria. Altro che appelli ai cittadini per una grande rifondazione liberale. Ci si accontentava, tutt'al più, di implorare non una poltrona, ma uno strapuntino, alla Casa delle libertà.
Infatti, un giorno, telefonando a un amico d'un amico, scoprimmo che il Gattopardo "pur non facendo nulla faceva tutto lui". E molto intensamente. Come ci aveva riferito un terzo amico, aveva incontrato alla buvette di Montecitorio il tale politico di Forza Italia, uno di quelli che sanno tutto e hanno sempre le mani in pasta. Anzi no, disse un altro, aveva visto uno del nuovo o vecchio Psi, o meglio, un vecchio amico repubblicano. Macché, tutte voci infondate, disse un quarto, giornalista all'Opinione. In realtà aveva inciuciato con un tale, sedicente segretario della "nuova Dc", tale Rotondi, politico sconosciuto ai più. E lì per lì di fronte alla tazzina di caffè aveva deciso un'allenza strategica o tattica per presentarsi uniti alle elezioni. Ah, bene, cioè male. Ma allora che si fa? Come sempre: nulla. Al massimo si comunica l'Alta decisione, a cose fatte, agli amici del Consiglio nazionale del PLI. Così, per una ratifica ex-post, come si faceva nel 700 nei governi retti dalle costituzioni octroyeés. Figuratevi i liberali di base, incavolatissimi.
Meno male che all'ultimo, sia i neo-neo-neo-socialisti, sia i neo-neo-neo-democristiani (la Prima Repubblica, si sa, ha lasciato molti nei) si sono guardati negli occhi e hanno esclamato all'unisono: "Ma chi sono questi del PLI? Che vogliono, chi li conosce, che hanno fatto finora?". E così, caduto il castello di carte, purtroppo il Segretario-Gattopardo, ancorché vero liberale, se ne è tornato al Consiglio con le pive nel sacco. Minchia, eppure era convinto che per fare politica in stile Prima Repubblica non bisognasse fare proprio nulla, zero propaganda, zero attività politica, sede inattiva tutto il giorno, e bastasse solo incontrare gli altri politici al caffé. Vabbé, sarà per un'altra volta.
Per "fortuna", si consolano ora nella base liberale, l'abbiamo scampata bella. E sì, perché, anche se virtuale, un po' ci sarebbe dispiaciuto che un'etichetta col nome PLI si fosse imbarcata in qualche buffonata. Ora sì, caro Segretario-Gattopardo, che siamo d'accordo con la tua filosofia: meglio che fai tutto tu, senza fare nulla, s'intende. Promesso? Cambiare perché nulla cambi. Come sempre, del resto. Viva Croce, Einaudi e il Risorgimento.

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