29 dicembre, 2014

 

Mellini. In crisi non solo la Giustizia, ma anche il Diritto. E sempre più leggi, di casta e “speciali”.

Oramai non si tratta più di “crisi della giustizia”, né di rovina della giustizia. E’ dell’intero sistema giuridico-giurisdizionale che, in crisi da tempo, si profila una catastrofe. Si dirà che considerazioni simili sono quelle di un vecchio, tale non solo per il peso degli anni, ma per l’appartenenza ad un mondo del passato, incapace di vedere l’avvenire, il futuro, un sistema diverso, imposto dall’esplosione delle novità tecnologiche, dalle trasformazioni sociali, dall’omologazione economico-culturale in atto nel Pianeta. Vorrei tanto che fosse così. Vorrei, in sostanza, essere ceco per non dover prendere atto che è buio pesto e non si vede più luce.

Per decenni ho predicato al vento l’incombere di una “notte della giustizia”, che ho predetta, rilevando l’ineluttabilità della catastrofe di sistemi “provvisori” sempre più inestirpabili e “normali”: il doppio binario di una giustizia “anti”, “di lotta” contro questa o quella forma di criminalità “speciale” (di cui ve ne è sempre una incombente: il terrorismo, la mafia, la droga, la corruzione etc. etc.) convivente in uguale abitualità con la giustizia “ordinaria”, col risultato dell’emergere della regola del bimetallismo monetario di cui si occupano gli illuministi italiani: quella per cui “la moneta cattiva caccia quella buona”.

Le garanzie della giurisdizione sono state condizionate alla “finalità”, la salvaguardia della funzione giurisdizionale è oggi il fine primario (non era già accaduto questo con la giustizia dei “parlamenti” in Francia o altrove?). E la magistratura è divenuta corporazione-partito capace di anteporre “la lotta” alla legge ed al diritto e portata a mettere in atto perfezionate “macchine di persecuzione” del “nemico” del momento (ce n’è sempre uno da debellare) Obiettivo primario, davanti al quale cadono regole, tradizioni, senso della giustizia e delle proporzioni (chi potrebbe negare che la macchina della persecuzione si è scatenata contro Berlusconi, che non solo ne è stato sconfitto ma ne è stato messo in condizioni di non essere più nemmeno capace di denunciare come fatto politico centrale ciò che ha dovuto subire).

La connessione tra sistema di diritto sostanziale ed ordinamento giurisdizionale e la propagazione delle situazioni di crisi dall’uno all’altro è evidente. Ma è ancora più evidente e grave quando l’esercizio delle giurisdizioni diventa “cosa in potere” di una casta e di una casta-partito, capace di determinare col suo peso e con i condizionamenti che impone al sistema politico e alle altre istituzioni, mutamenti di quel sistema di diritto cui dovrebbe obbedire nella funzione di applicarlo.

Così tutto il sistema giuridico processuale ed anche quello sostanziale vengono assoggettati ad una evoluzione in funzione della casta esercente la giurisdizione e delle sue esigenze. In primo luogo quella di “alleggerirne” il lavoro, “smaltirlo”, “semplificarlo” per arrivare ad un “prodotto” maggiore. Il che, poi, alla lunga distanza, produce l’effetto del tutto opposto: il deprezzamento qualitativo della funzione giustizia determina la sua inflazione ed un ulteriore impulso verso il moltiplicarsi dei giudizi ed il loro ulteriore intasamento.

Al deterioramento per incontenibile gigantismo della giurisdizione, corrisponde una patologica elefantiasi del diritto sostanziale, che per la sua stessa mole e per il carattere intricato, approssimativo e disarmonico delle leggi che lo compongono, diventa incontrollabile e insopportabile dalle istituzioni e dai soggetti privati che dovrebbero osservarlo.

L’elefantiasi è una malattia mortale per il diritto. L’accumularsi di norme disarmoniche ed inestricabili, che privati cittadini e pubbliche amministrazioni non sono in grado di osservare e far osservare e di cui l’apparato giudiziario non riesce esso stesso ad assicurare la certezza e l’applicazione, finisce per cancellare ogni criterio di legalità.

La corruzione trova nell’elefantiasi e nell’inapplicabilità delle leggi la ragione primaria del suo diffondersi e radicarsi come “sistema alternativo” che nessuna “campagna” repressiva, nessun aumento spropositato delle pene riesce a reprimere e contenere.

Il sistema penale italiano, che pure è stato considerato uno dei più perfezionati e meglio sistemati nella scienza del diritto da parte di studiosi di diversi paesi, è oramai scardinato per la rottura di alcuni suoi punti essenziali.

Ho avuto anche di recente occasione di riflettere e scrivere sul declino e la soppressione del “principio di legalità” nel diritto penale del nostro Paese. Fatti ulteriori stanno rendendo ancor più evidente tale fenomeno e ne stanno accelerando ed approfondendo il realizzarsi.

La legislazione antimafia, fondata sulla assai labile definizione del reato di associazione mafiosa (che è piuttosto - art. 416 bis c.p. - il tentativo di una rappresentazione sociologico-criminale dei fenomeni esistenti) e sulle fantasie giurisprudenziali, con la lievitazione dei livelli delle pene e la dichiarata “finalità di lotta”, con la creazione di un apparato giudiziario speciale, dalle competenze non troppo ben definite, ha fatto venir meno principi, modelli, proporzioni essenziali del sistema penale oltre che in quello processuale.

Il “modello antimafia” riproposto ogni volta che un fenomeno criminale si presenta all’attenzione della pubblica opinione creando allarme e sdegno, si è esteso alla repressione del traffico di droga, ora si vuole estendere anche alla repressione della corruzione.

Di contro il progetto, che tanto piace agli orecchianti di questioni giudiziario-penali, di introdurre il provvedimento di “non doversi procedere per ritenuta scarsa rilevanza del fatto”, scardina definitivamente il principio di legalità, sostituendo quella dell’aleatorietà della repressione penale, determinata dagli umori dell’opinione pubblica e, soprattutto, dal maggiore o minor carico di lavoro nelle varie sedi giudiziarie (la “scarsa rilevanza” è sempre tale dove c’è maggior carico di lavoro!).

Ma, intanto, la Corte di Cassazione ci mette, ancora una volta, del suo nello scardinamento dell’architettura del sistema giuridico. Pensiamo all’affermarsi del principio dell’”abuso del diritto”. Non è solo la violazione di un antico e collaudato principio della razionalità giuridica (“qui suo iure utitur neminem laedit”). Affermare che si possa al contempo fruire della legittimità assicurata dall’ordinamento ed abusare di essa per un fine che criteri “legali ed extralegali” (così la Cassazione) considerano negativi, è una contraddizione in termini che distrugge ogni concetto di globalità ed armonia del diritto, per affidarne l’apparenza alle contraddizioni di spinte occasionali inevitabilmente arbitrarie.

Si dirà che tutto ciò è semplicemente il prodotto di un diritto che si affanna a correr dietro all’evolversi turbinoso delle tecnologie, della società, della scienza.

C’è qualcosa di vero in tale proposizione, E’ vero che la globalizzazione tende ad introdurre nei sistemi giuridici particolari elementi di altri, diversi sistemi. Ma il passivo ricorrere ad istituti stranieri (in particolare del sistema dei paesi del Common Law), nel nostro sistema “europeo continentale” del diritto codificato, con un sistema giurisdizionale (e con giudici) radicalmente diversi, porta ad incongruenze che sopraffanno il vantaggio delle nuove esperienze e rende negativo l’ingresso in più vasti contesti giuridici culturali di cui tali novità sembrano tener conto.

Il cambiamento è, anche per il diritto, nelle cose, nell’ineluttabilità dello sviluppo della storia. Ma cambiamento non è distruzione. E’ tale solo se con esso si realizza un’armonia diversa.

Ciò che ci induce a parlare di catastrofe non è certo l’affondare di vecchi schemi, ma la totale assenza di prospettive nuove. Non c’è la luce dell’avvenire. La distruzione, la catastrofe, restano tali.

MAURO MELLINI (da Giustizia Giusta)


19 dicembre, 2014

 

Crisi economica e corruzione? Italiani, la colpa è nostra, scopre (meglio tardi che mai) Il Fatto.

Meglio tardi che mai. Che perfino un giornale italiano, e pure uno che si spaccia per anticonformista come Il Fatto Quotidiano, dia del “pirla” al cittadino italiano medio, contravvenendo al Primo Comandamento del giornalismo, l’ottuso “divieto di parlar male dei lettori”, è un segno dei tempi. Ma come, i “cittadini” non erano “la parte sana”, l’unica speranza di rinascita (e di autogestione dal basso di uno Stato minimo e condiviso) sia per Il Fatto, sia per il Movimento di Grillo, di cui il giornale condivide molte tesi? Come interpretare il cambiamento? Con un sillogismo a sua volta squisitamente giornalistico e sociologico. Se ormai molti Italiani, perfino i più distratti, assenti e sottoculturali, i più corrivi, i più ignoranti in tema di Democrazia liberale e di funzionamento delle Istituzioni, i più ingenui in fatto di psico-sociologia del Potere (ma anche della vita quotidiana), cominciano a capire che non è certo dalle alternative politiche, da un nuovo Governo Bianchi o Rossi o Neri, né da un Parlamento – per ipotesi – di tutte casalinghe “a rifiuti zero”, o disoccupati volontari “per il bene comune” o pensionati che praticano la raccolta differenziata, che potrà mai venire la nostra rinascita nazionale, ma solo dalla nostra individuale maturazione civica, etica e culturale, allora anche un giornale deve dirlo. Perfino Il Fatto.

Così è accaduto che il giornale definito dagli avversari di Destra, Centro e Sinistra il più “protestatario” e “dietrologico“, il più “populista” e “arruffa-popolo”, il più “allarmista” e “complottista”, il quotidiano – basta dire – in cui scrivono quegli ironici e superciliosi simpaticoni che sono Travaglio e Scanzi, perfetti bastian contrari da tv, diretto da quel cordialone “cuore in mano” d’un Gomez che per contrasto fa apparire come umana e divertente perfino la Giulia Innocenzi, abbia pubblicato un articoletto nel quale si danno tutte le colpe non banalmente alle solite “Destra e Sinistra unite, che ormai sono la stessa cosa, perché di comune accordo imbrogliano gli Italiani e, altro che Riforme, di nuovo producono solo parole, quando non leggi balorde” (spero di aver sintetizzato bene), ma agli stessi Italiani.

E chi sarebbero questi Italiani, improvvisamente sbucati fuori dalle tenebre giornalistiche della polemica politica, se non quei sacrosanti e intoccabili “cittadini” che il Movimento di Grillo, nato – ricordiamo – dalle spontanee liste civiche? E, continundo il sillogismo, non sono forse i grillini quella base “sana” a cui sembra spesso rivolgersi Il Fatto, sia negli articoli, sia come platea di lettura?

Macché, sembrano dire al giornale, «Contrordine, cittadini. Siete voi, per la vostra ignoranza e pigrizia, per la vostra distanza e indifferenza, e anche – diciamolo – per la vostra corruzione, la causa prima del degrado dell’Italia». Oddio, che sta succedendo? Non saranno diventati all’improvviso liberali al Fatto Quotidiano?

E allora siamo d’accordo. Anzi, cose del genere le abbiamo dette fin dai tempi del liceo sui giornaletti studenteschi, e poi su quelli universitari. Il Fatto arriva un pochino in ritardo. Meglio tardi che mai.

Stupidi e incapaci, sì, ma che cosa fare per migliorare? Questo l’articolista non lo dice. Lo diciamo noi, a costo di far la parte di pedagogisti dell’Ottocento (ma c’è poco da prendere in giro: è l’ultimo secolo in cui come popolo siamo stati dignitosi). E’ chiaro che c’è urgente bisogno di formazione culturale e ideale dei cittadini. Bisogna tornare alle idee, ai ragionamenti, all’intelligenza. “Fare” non serve a nulla, anzi, fa solo danni, se prima non ci sono idee e e cultura. Dice: ma ormai i cittadini sono così dappertutto; hai visto quanti votano in Gran Bretagna o negli Stati Uniti? Ma no, per noi è diverso. La gente in Italia non può copiare le distratte borghesie mature dell’Occidente, già consapevoli dei propri diritti e doveri nel Settecento. Loro, beati loro, “hanno già dato”, cioè già si sono impegnati nelle generazioni passate. Noi no, noi ignoranti a quei tempi “non eravamo ancor popolo, eravamo divisi” (per parafrasare un Inno che appare ancora più veritiero alla luce della nostra storia post-unitaria), e in seguito dimenticando il Risorgimento ci siamo coperti di vergogna con fascismi, clericalismi, uomini qualunque, comunismi, berlusconismi, leghismi e grillismi. Mentre gli alti Paesi costruivano la democrazia, noi sceglievamo sempre e soltanto autoritarismo o conservatorismo o populismo, mai la democrazia liberale.

Gli Italiani hanno tanto lavoro che si è ammucchiato nelle generazioni: devono riprendersi la Democrazia liberale, devono partecipare alla vita dei partiti, devono di nuovo interessarsi della Cosa Pubblica, devono studiare e decidere le alternative possibili, devono imparare a valutare e scegliere i delegati alla Politica, anche a costo di giocare meno con la playstation o a burraco, di non accompagnare la figlia a lezione di danza, di andare meno al ristorante. Ripetiamo: non possiamo imitare gli altri popoli democratici: non abbiamo mai fatto i compiti e dobbiamo studiare tutto il programma. Tanto lavoro arretrato che si porterà via una generazione.

O così o niente. La Democrazia liberale è fondata sulla cultura, sulla passione politica,  sulla visione “di Governo”, sul senso critico, sulla partecipazione e sul controllo assiduo dei rappresentanti, sul senso civico, sociale e sulla solidarietà, se lo mettano in testa gli Italiani. Ogni altra soluzione è illusione. La democrazia liberale non si fa dall’alto o con una leggina, ma dal basso. E’ tempo, insomma, di continuare quel Risorgimento interrotto che avevamo cominciato così bene nell’Ottocento.

E se ormai non fa più scandalo dire che “il re è nudo”, e che questo viziatissimo re è proprio il popolo italiano, così bravo a bofonchiare, borbottare, spettegolare, lamentarsi, piagnucolare, sparlare del prossimo, inveire sul Governo, ribellarsi (a parole: al bar, sotto l’ombrellone, in sala d’aspetto, in treno, nei talk show televisivi, ma anche con cortei in piazza: è la stessa cosa), ma nello stesso tempo ad aggirare o infrangere le regole, a infischiarsene degli altri, anche a un giornalista del Fatto Quotidiano sarà venuto in mente di scriverlo. Lo avranno digerito bene in Redazione? Forse sì, al Fatto c’è tutto e il contrario di tutto: hanno deciso di cavalcare ogni protestantismo. E dunque anche Ferruccio Sansa può dire la sua.

Ma, a proposito, Sansa, chi? E’ il figlio del noto magistrato ed ex sindaco di Genova, Adriano. Ma allora, se non ricordiamo male, qualche anno fa deve aver avuto qualche simpatia grillina, o meglio, il Movimento aveva visto in lui un possibile candidato locale. Il precedente non ci dispiace. E’ ancora più bello che un giornalista a suo tempo non lontano da un Movimento che aveva idealizzato la casalinga e il pensionato come simboli di virtù civiche a prescindere da esperienze e competenze, e che poi aveva fatto eleggere in Parlamento perfetti “signor Nessuno”, cioè cittadini qualunque senza arte né parte, abbia scoperto che le colpe della crisi, del degrado e della corruzione sono (lui scrive “anche”, noi diciamo “soltanto”) dei cittadini Italiani. NICO VALERIO

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CARI ITALIANI, SIAMO DEI PIRLA

«Cari italiani la colpa è anche nostra». Immaginate un politico che esordisse così. Immaginate un Presidente della Repubblica che ce lo dicesse in faccia nel discorso di Capodanno, mentre guardiamo distratti intrippandoci con lo zampone. E poi:

«Basta dare la colpa all’arbitro, agli avversari fallosi e al pallone sgonfio come fanno le squadre piagnucolose. Basta prendersela con l’euro, la Germania, gli immigrati, le mezze stagioni che non ci sono più. Abitiamo forse nel Paese più bello del mondo. Abbiamo una qualità della vita ancora ineguagliabile, che non nasce solo dalla bellezza, dal clima, dal cibo frutto della nostra terra, ma anche da noi; da quella cordialità, quel calore, che rivelano un senso della vita profondo. E invece ecco come ci siamo ridotti.

Pensiamo alla Sicilia dove lo Stato e la Regione sono diventati solo vacche da mungere e non ci si accorge che derubiamo noi stessi. Che ci mettiamo un soldo in una tasca e ne perdiamo uno dall’altra. Prendiamo sussidi perfino per le vendemmie che non facciamo e così le scuole vanno a pezzi.

Pensiamo a Roma, che a camminare tra i palazzi è una gioia per gli occhi, che fa una pippa alle capitali del resto del mondo. E dove invece si vive così faticosamente, intrappolati nel traffico, dove ci sono voluti più di vent’anni per fare mezza metropolitana quando a Londra ne facevano 400 chilometri.

Pensiamo al Veneto, alla sua campagna dove Tiziano e Tintoretto venivano per cercare i colori, e dove in pochi anni abbiamo costruito una muraglia cinese di capannoni rimasti vuoti che messi in fila sarebbero lunghi 1.800 chilometri.

Pensiamo alla Liguria dove un mese fa c’è stata l’alluvione e oggi gli unici cantieri che lavorano sono quelli per aggiungere nuovo cemento. Altri centri commerciali a due passi dai fiumi, altri condomini in una regione che ha il record di case vuote.

Pensiamo alla Lombardia che aveva la sanità migliore del mondo e oggi l’ha offerta ai privati e lottizzata.

Pensiamo a Milano che sapeva unire spirito di impresa e solidarietà, borghesia e socialismo (non quello di Craxi, però) e che oggi si lascia passivamente infiltrare dalla ‘ndrangheta e punta il dito contro gli immigrati.

Lo so, mi date del disfattista, pensate che vi abbia fatto l’elenco dei disastri. È il contrario, invece: queste sono tutte occasioni. Per realizzarle non serve il Tav, non abbiamo bisogno dei soldi dell’Europa, di cacciare gli immigrati. Basterebbe cambiare la nostra testa, smettere di corrompere, evadere, rubare a noi stessi».

Chissà come la prenderemmo se un politico non ci dicesse più che siamo solo un popolo di santi, poeti e navigatori: «Cari italiani siamo stati dei pirla» (per usare il dialetto di Salvini, ma vanno bene anche mona, ciula, belin, minchioni), «ma possiamo cambiare. Questa sarà la nostra rivoluzione». FERRUCCIO SANSA

AGGIORNATO IL 23 DICEMBRE 2014


01 dicembre, 2014

 

La vergogna dell’8 per mille: lo Stato italiano finanzia la Chiesa con i soldi dei non-credenti.

8 per mille alle religioni 1990-2014 Dite la verità: quanti fedeli della religione delle “Assemblee di Dio” avete conosciuto nella vostra vita? Uno, due? Io neanche uno. Stupendi templi ricchi d’arte da mantenere? Nessuno. Migliaia di preti? Neanche. Eppure nel solo 2014 questa “confessione-fantasma”, ha ricevuto dallo Stato un finanziamento di ben 1.457.185 di euro, quasi 3 miliardi di vecchie lire, grazie alla famigerata legge dell’8 per mille che permette ai cittadini di destinare a una confessione religiosa una percentuale delle imposte dovute allo Stato (Stato che non ha un euro per arte-cultura-scienza, il nostro vero patrimonio, e la nostra industria elettiva insieme alla difesa del territorio).

E hanno ricevuto quasi il doppio, 2.273.891 di euro, gli Avventisti del 7.o Giorno, noti negli Usa per il loro vegetarismo, ma in Italia mai visti, almeno da chi scrive. Tutto questo per la dabbenaggine dei cittadini contribuenti (che d’ora in poi non potranno lamentarsi se cultura e territorio sono abbandonati a se stessi...), i secondi dal 1990 a oggi hanno incassato con l’8 per 1000, ben 53 milioni e mezzo di euro, mentre i primi 21 milioni di euro. Ma queste sono solo le briciole dell’8 per mille: il grosso se lo è pappato la Chiesa Cattolica: solo nel 2014 ha ricevuto l’enorme somma di un miliardo di euro, pari a circa 2000 miliardi di lire (e finora, dal 1990 a oggi, la stratosferica somma di 18 miliardi di euro). Lo Stato italiano, invece, solo le briciole: appena 170 milioni quest’anno, non solo per le scelte dei contribuenti, ma anche per la propria insipienza e colpevole passività (tesa a favorire sottobanco la Chiesa).

Ma a poco a poco queste cifre sono diventate troppo alte: i cittadini italiani, ottusamente, stanno destinando alle religioni troppi soldi, complice una legge sbagliata e ancor più delle norme di attuazione truffaldine. Non era meglio, rag. Rossi e sig. Bianchi, se quei soldini andavano allo Stato Italiano, con tutto il suo deficit, per la tutela delle opere d’arte e del territorio in dissesto idrogeologico?

Ora, una delibera della Corte dei Conti addita all’attenzione dei cittadini proprio questa grave stortura nell’applicazione di una legge già di per sé eccentrica rispetto ad altre consimili leggi europee: la Chiesa e le altre confessioni religiose riconosciute dagli accordi, non solo ricevono troppi soldi destinati in origine alle opere dello Stato (che lo Stato non può più permettersi), ma ricevono anche, abusivamente, le quote di IRPEF dei cittadini che non esprimono alcuna scelta, in proporzione con le percentuali delle preferenze espresse. Così chi ha avuto, per ipotesi, il 5% delle preferenze espresse si prende anche il 5% di chi non ha espresso nessuna preferenza, perché ateo o distratto o pessimista sul funzionamento di questa legge, o perché è disinformato ed è convinto che nessuna delle non-preferenze vada ad arricchire una qualsiasi religione, ma che tutte le non-preferenze portino soldi allo Stato. Ma così non è: le religioni sono finanziate anche da chi non crede in loro e anzi le avversa, come scettici, agnostici e atei. Un paradosso che ovviamente nasconde una situazione di illegalità.

Perciò interviene la Corte dei Conti. Che fa notare, con una lunga, interessante e schietta relazione ricca di tabelle, che la Chiesa Cattolica, con appena il 37,9% delle indicazioni espresse dai cittadini, ha ricevuto nel 2011 ben l’82,3% dell’intera somma, e cioè 1.054 milioni su un totale di 1.279 milioni. In sostanza, l’8 per mille di quegli italiani che non vogliono esprimere nessuna indicazione (il 53,9%) viene per la maggior parte dato alla Chiesa Cattolica. Non in base al dato del 37,9% rispetto al totale dei contribuenti, ma perché è l’82% delle dichiarazioni espresse.

Uno scandalo, un enorme finanziamento obliquo e immeritato che discrimina tra cittadini a seconda delle idee religiose-filosofiche, su cui dovrebbe intervenire la Corte Costituzionale, e anche l’Unione Europea

La Chiesa, visto questo Bengodi, si è buttata a pesce in campagne pubblicitarie per a dare ad intendere alla gente, con immagini di buone suorine e preti solerti, che le proprie finanze sono sempre al limite della sopravvivenza, che è insomma con l’acqua alla gola. E invece è straricca. La Corte dei Conti sottolinea in una apposita tabella gli enormi investimenti che la Chiesa Cattolica fa in pubblicità sulle rete RAI. Ma anche altre fantomatiche confessioni religiose (adesso ci sono anche i buddisti: ma non andavano dicendo che la loro era solo una “filosofia”?) hanno trovato il pozzo di San Patrizio del benessere dopo decenni di vita marginale e stentata. Grazie ai cittadini ingenui e soprattutto alla perversa legge dell’8 per mille.

Legge che – lo dice la stessa Corte dei Conti – va assolutamente ripensata con quote molto diminuite. E per dirlo loro, che sono solo giudici della Magistratura contabile... Noi diciamo invece che la legge dell’8 per mille va del tutto eliminata, perché è di per sé una vergogna per qualsiasi Stato di diritto liberale, ma anche perché è un’enorme spreco di risorse, proprio in anni di crisi economica e finanziaria.

Ecco il Comunicato emesso dalla Corte dei Conti a presentazione della Relazione allegata: 

CORTE DEI CONTI
Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato

Comunicato stampa del 28 novembre 2014

Relazione concernente la
“DESTINAZIONE E GESTIONE DELL’8 PER MILLE”

Grazie al meccanismo di attribuzione delle risorse dell’8 per mille, i beneficiari ricevono più dalla quota non espressa che da quella optata, godendo di un notevole fattore moltiplicativo, essendo irrilevante la volontà di chi rifiuta il sistema o se ne disinteressa; infatti l’ammontare è distribuito ripartendo anche le quote di chi non si è espresso, in base alla sola percentuale degli optanti.Su ciò non vi è un’adeguata informazione, benché coloro che non scelgono siano la maggioranza e si possa ragionevolmente essere indotti a ritenere che solo con un’opzione esplicita i fondi vengano assegnati (...).

I contributi alle confessioni risultano ingenti, tali da non avere riscontro in altre realtà europee – avendo superato ampiamente il miliardo di euro per anno – e sono gli unici che, nell’attuale contingenza di fortissima riduzione della spesa pubblica in ogni campo, si sono notevolmente e costantemente incrementati.

Già nel 1996 la parte governativa della Commissione paritetica Italia-Cei incaricata delle verifiche triennali dichiarava che “non si può disconoscere che la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione. (...) detti valori già oggi risultato superiori a quei livelli di contribuzione che alla Chiesa cattolica pervenivano sulla base dell’antico sistema dei supplementi di congrua e dei contributi per l’edilizia di culto. Un loro ulteriore incremento potrebbe comportare in sede della prossima verifica triennale una revisione dell’aliquota dell’8 per mille”. Tuttavia negli anni seguenti il tema non è stato più riproposto dalla parte governativa, nonostante l’ulteriore rilevante aumento delle risorse a disposizione delle confessioni.

La possibilità di accesso all’8 per mille per molte confessioni è oggi esclusa per l’assenza di intese, essendosi affermato un pluralismo confessionale imperfetto, in cui il ricorso alla bilateralità pattizia permette l’affermazione di uno status privilegiato solo per alcune di esse.

Manca trasparenza sulle erogazioni; sul sito web della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nella sezione dedicata, non vengono riportate le attribuzioni annuali alle confessioni, né la destinazione che queste nella loro discrezionalità danno alle somme ricevute. Al contrario, la rilevanza degli importi e il diretto coinvolgimento dei cittadini imporrebbero un’ampia pubblicità e la messa a disposizione dell’archivio completo delle contribuzioni versate negli anni, al fine di favorire forme diffuse di controllo.

Non ci sono verifiche sull’utilizzo dei fondi erogati alle confessioni, nonostante i dubbi sollevati dalla parte governativa della Commissione paritetica Italia-Cei su alcune poste e sulla non ancora soddisfacente quantità di risorse destinate a interventi caritativi, né controlli sulla correttezza delle imputazioni degli optanti, né un monitoraggio sull’agire degli intermediari.  

In violazione dei principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della Pubblica Amministrazione, lo Stato mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando l’impressione che l’istituto sia finalizzato solo a fare da apparente contrappeso al sistema di finanziamento diretto delle confessioni. Risulta pertanto del tutto frustrato l’intento di fornire una valida alternativa ai cittadini che, non volendo finanziare una confessione, aspirino comunque a destinare una parte della propria imposta a finalità sociali ed umanitarie.

A ciò ha contribuito: a) la totale assenza – negli oltre 20 anni di vigenza dell’istituto – di promozione delle iniziative, risultando lo Stato l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica sulle proprie attività con campagne pubblicitarie; non si è proceduto in tal senso nemmeno per il 2014, nonostante la novità consistente nella possibilità di destinare risorse per l’edilizia scolastica, tema particolarmente sentito dai cittadini; b) la drastica riduzione delle somme a disposizione, dirottate su altre finalità, a volte antitetiche alla volontà dei contribuenti; peraltro l’istruttoria sulla richiesta dei contributi è svolta dalla Presidenza del Consiglio anche per gli anni in cui questi non sono assegnati o attribuiti in misura minima, rendendo tale attività priva di utilità, con conseguente ingente spreco di energie e risorse pubbliche; c) il fatto che una parte consistente delle risorse da ritenersi alternativa a quelle in favore delle confessioni, sia stata veicolata verso scopi riconducibili agli interessi di queste ultime; d) l’insufficiente determinatezza delle tipologie degli interventi, della loro straordinarietà e delle modalità sulla concreta destinazione dei fondi, che ha prodotto la scarsa coerenza delle scelte effettuale, attraverso erogazioni a pioggia ad enti spesso privati.

Al fine di garantire la piena esecuzione della volontà di tutti, la decurtazione della quota dell’8 per mille di competenza statale va eliminata; è infatti contrario ai principi di lealtà e di buona fede che il patto con i contribuenti venga violato. Peraltro, sono penalizzati solo coloro che scelgono lo Stato e non gli optanti per le confessioni, le cui determinazioni al contrario non sono toccate, cosa incompatibile con il principio di uguaglianza.

Ufficio Stampa Corte dei Conti

AGGIORNATO IL 18 DICEMBRE 2014


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