27 giugno, 2010

 

Il Belgio, cattolico, non è l’Italia clericale: un vescovo là è trattato come chiunque

Certe facce parlano. E non c'è solo quella del card. Sepe, coinvolto negli scandali economico-politici della Propaganda Fide. L'espressione da "duro", aggressiva, davvero assai poco mite e cristiana, del segretario di stato card. Bertone, almeno come è apparsa in questi giorni sui giornali a proposito dell'ennesimo scandalo della pedofilia cattolica, stavolta in Belgio, ci parla più di cento saggi storici dell'identificazione piena della Chiesa non con la meditazione, la preghiera, l'ammissione dei propri peccati, la rinuncia ai beni del mondo, la povertà e l'altruismo, ma con la forza, la prepotenza, il comando, il Potere. Non è una novità, ma solo una sgradita millennaria conferma.
La Chiesa, cioè i Papi, i cardinali, la Curia romana, i vescovi, ha fatto di tutto nella sua lunga storia, ricorrendo ripetutamente alla mistificazione e alla falsificazione (a cominciare dalla la figura stessa di Gesù e dalla "donazione di Costantino" che doveva giustificare il suo potere terreno), ma anche alla violenza psicologica, alle conversioni forzate, alla tortura e al delitto. Ma guai a chi le fa il minimo sgarbo. Abituata a comandare, ad accusare, a condannare e reprimere senza appello, continua ad avere un insopportabile atteggiamento arrogante, assai poco "cristiano", e non tollera minimamente di essere - una volta tanto - accusata e trattata come tutti. Grida subito alla "mancanza di libertà". Vecchia solfa che ormai non incanta più nessuno. E, allora, la libertà delle migliaia di persone che in 2000 anni la Chiesa ha plagiato, censurato, condannato, imprigionato, torturato, ucciso? Ora, poi, ci sono anche le migliaia di bambini e adolescenti perseguitati dai tanti preti pedofili. In Belgio questi delitti sono stati numerosi e la popolazione è giustamente esasperata. Non si capisce con quale faccia di bronzo, coi tempi che corrono, la Chiesa anziché pentirsi, cospargersi il capo di cenere, ordinare ai suoi dirigenti centrali e locali di dimettersi in massa, osa addirittura fare la voce grossa.
Basta dire: a metà Ottocento comminò la scomunica alla classe politica piemontese per una legge sui conventi, oggi accusa il Belgio di essere "peggio dei Paesi comunisti" solo perché gli inquirenti per il grave reato di pedofilia hanno trattato i vescovi allo stesso modo di come trattano gli altri cittadini sotto indagine e interrogatorio. Come mostra la dura critica del comunicato di Giulio Cesare Vallocchia per No God a commento dell'articolo di America Oggi che riproduciamo, "i giudici belgi smentiscono, e conoscendo la proverbiale capacità di menzogna e mistificazione di cui sono capaci da 2000 anni i gerarchi della S.S. Vaticana, siamo più disposti a credere ai belgi che non ai gerarchi. Fra l'altro non è nemmeno vero che siano stati privati di cibo e bevande durante l'interrogatorio. Ma l'opinione pubblica belga sta con i giudici perché in un paese civile nessuno è al di sopra della legge. E il Belgio non è l'Italia, dove per indagare su un prete pedofilo o su un vescovo ladro bisogna chiedere in ginocchio il permesso ai gerarchi cattolici" (Vallocchia, No God). Ma diamo la parola al giornale in lingua italiana negli Stati Uniti, America Oggi (Nico Valerio).
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BRUXELLES. La procura respinge le accuse lanciate ieri dal segretario di Stato Tarcisio Bertone nei confronti degli inquirenti belgi ["Peggio dei Paesi comunisti", NdR], per il trattamento riservato ai vescovi durante la perquisizione dell'arcivescovado di Mechele-Bruxelles. Ai vescovi è stata data la possibilità di mangiare e bere, ha detto il portavoce, Jean-Marc Meilleur, ai microfoni dell'emittente Rtbf. Lo stesso portavoce ha precisato che le perquisizioni sono state condotte da "professionisti che conoscono molto bene il loro lavoro e che rispettano i diritti delle persone".
Nel corso della giornata, il portavoce della conferenza episcopale belga Eric de Buekelaer ha detto che la Chiesa potrebbe decidere di avviare un'azione legale contro le perquisizioni compiute giovedì dalla polizia. L'arcivescovado ha inoltre chiesto di poter riavere i computer sequestrati nel corso della perquisizione, poiché senza queste attrezzature l'attività del quartier generale della Chiesa cattolica in Belgio è destinata a rimanere paralizzata. Davanti all'ira del Vaticano, ieri non sono intervenuti né il ministero degli Esteri belga né quello della giustizia.
A parlare sono stati i principali editorialisti. La giustizia ha finalmente lanciato un "segnale chiaro: la Chiesa non è al di sopra della legge", ha commentato il quotidiano fiammingo ‘De Morgen', riassumendo bene la posizione espressa dalla maggior parte degli opinionisti belgi intervenuti sullo scontro tra Vaticano e Belgio innescato dalle modalità con cui magistratura e polizia hanno condotto le perquisizioni di giovedì scorso. In un Paese di antica tradizione cattolica, ma dove la laicità dello Stato è sacrosanta e inviolabile e la pedofilia é un incubo, i media - come fa anche l'altra grande testata fiamminga ‘Der Standaard' - riconoscono che in alcuni casi le iniziative prese durante le perquisizioni effettuate nell'arcivescovado di Mechel-Bruxelles e nella cripta della cattedrale di Saint-Rombaut sono state "sproporzionate".
Detto questo, però, nell'editoriale pubblicato sul principale quotidiano francofono, ‘Le Soir', ci si chiede a quale "gioco stia giocando la Chiesa quando sostiene che nel cercare di identificare i preti che hanno abusato di minori, la giustizia si rende colpevole di una doppia violenza". E un altro commento, pubblicato sullo stesso giornale sotto un articolo dal titolo "i religiosi, una casta superiore", osserva: "Il Vaticano preferisce le tombe alle vittime". A essere messo sotto accusa è soprattutto l'accordo raggiunto da poco, sotto l'egida del ministro della giustizia, con la commissione voluta dalla Chiesa e guidata dal professor Peter Andriaenssen che ha il compito di indagare sugli abusi sessuali compiuti dai preti. Un accordo "forse lodevole nelle intenzioni" ma "sbilenco" poiché, si sottolinea su ‘La Libre Belgique', "lascia alla Chiesa un curioso margine di manovra". Esso non tiene conto che la riservatezza delle informazioni raccolte, in caso di gravi reati, passa in secondo piano rispetto alla necessità di accertamenti giudiziari. E bene ha fatto - conclude l'editoriale - il giudice istruttore De Troy (quello che ha ordinato le perquisizioni, ndr), di cui fortunatamente è garantita l'indipendenza, a riprendere in mano le redini dell'inchiesta".

10 giugno, 2010

 

I Mille: Nord e Sud. I siciliani chiamano Garibaldi (e i bergamaschi) contro gli odiati Borboni.

LA STORIA INSEGNA. MA SOLO SE SI E' DISPOSTI AD IMPARARE. La Storia insegna? Certo, ci chiedevamo in un articolo su Salon Voltaire del 5 maggio scorso, data dell’inizio della spedizione dei Mille, ma solo se si ha un minimo di intelligenza e di cultura. Ecco perché la nostra classe dirigente, soprattutto i politici, non hanno imparato niente.

LA SICILIA E GLI ANTENATI DEI "PADANI" CON GARIBALDI. Le ridicole Leghe del Nord e del Sud che oggi sputano falsità da osteria sul Risorgimento, i liberali, i "piemontesi", Cavour e Garibaldi, ignorano la Storia e mostrano di non avere alcuna idealità, visto che la Storia è sempre storia di libertà, come hanno insegnato i grandi "meridionali" Giambattista Vico e Benedetto Croce. Ristretti nel loro cinismo da bottegai di villaggio che non vedono al di là del campanile, non sanno che furono proprio i siciliani – Crispi, La Masa, Rosalino Pilo, La Farina, La Loggia e molti altri – a chiedere a Garibaldi di liberare l’isola dal giogo dell’oppressore Borbone; che i Mille erano attesi a Palermo con ansia febbrile; che i siciliani che partirono da Quarto erano ben 71 (più dei piemontesi); che centinaia di siciliani si aggiunsero ai Mille in terra di Sicilia, tra cui preti e frati; che siciliano era il pilota della nave ammiraglia, il Piemonte – dov’era Garibaldi – Salvatore Castiglia (fu lui a scegliere l’approdo a Marsala); che l’unica donna era Rosalia Montmasson, moglie del siciliano Crispi; che Palermo fu la sola città ad onorare con una medaglia individuale ciascun partecipante alla spedizione; che 800 dei Mille oggi sarebbero definiti "padani", per lo più conterranei di quelli che oggi parlano male di Garibaldi, essendo originari di Milano, Bergamo e Brescia.


Del resto i Siciliani ce l'avevano coi Borboni da sempre, e a ragione. Pochi sanno nel resto d'Italia che furono proprio i Siciliani, a Messina, con i moti anti-borbonici del 1. settembre 1847, veri e propri "nuovi Vespri siciliani", a dare gloriosamente  inizio al Risorgimento 

Italiano, con molti morti e feriti. E l'anno dopo, nel 1848, di nuovo ribellatasi ai Borboni e a Napoli, la città di Messina subì per molti mesi i bombardamenti dai cannoni piazzati sulla stessa roccaforte cittadina occupata dalle truppe borboniche. Una vergogna internazionale: i Borboni cannoneggiavano la loro stessa popolazione, prima dal mare poi addirittura dall'interno della città. Ecco che cos'erano i Borboni! Da allora il crudele e ottuso re Ferdinando II di Borbone fu soprannominato dai Siciliani con l'ignominioso appellativo di "Re Bomba". Ma accorsero valorosi siciliani anche a difendere la Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi nel 1849 e alcuni morirono nelle lunghe battaglie sul Gianicolo (come riporta un cippo eretto a ricordo dell'episodio e di tutti i Siciliani morti nel Risorgimento).


LO "STATO CANAGLIA" BORBONICO E IL REVISIONISMO DEGLI STOLTI. E come "si stava bene sotto i Borboni", re oscurantisti, capricciosi e crudeli come pochi (l’Inghilterra di lord Gladstone considerò il regno delle Due Sicilie un vero "Stato canaglia" – come diremmo oggi – solo considerando le sue famigerate prigioni), ce lo dice in un vivace libro autobiografico "Pensieri e ricordi storici e contemporanei" (ed. Sellerio 1991), un aristocratico siciliano un po’ scapestrato, il Michele Palmieri di Miccichè, probabilmente antenato del politico che – vedi l’articolo precedente – oggi "parla male di Garibaldi". Il Micciché, che ben prima del ’48 sperimentò sulla propria pelle, pur essendo un privilegiato, la crudeltà pazzoide di quello Stato assolutista, clericale, corrotto e poliziesco che lo costrinse ad emigrare in Francia. Perciò chiunque abbia studiato la storia, non solo lo storico Galssso, può opporre infinite e schiaccianti argomentazioni alla stupidità sottoculturale del revisionismo filo-borbonico e alla reazione anti-Risorgimento e anti-Italia unita.

IL CORAGGIO DEGLI INTELLETTUALI. Sull’intera vicenda dei Mille e sul genio Garibaldi, grande prima come uomo e poi come condottiero, dotato di coraggio, rapidità e freddezza nelle decisioni militari, si vedano i capitoli dedicati nel manuale che nel primo Novecento scrissero vari esperti, oggi riedito e in distribuzione gratuita ("Il generale Giuseppe Garibaldi", Ufficio storico dell’Esercito, 2007). Un libro entusiasmante: mai avremmo creduto che un manuale pensato per spiegare agli ufficiali la tecnica militare del Grande Nizzardo nelle singole battaglie potesse piacere anche a chi non si interessa di cose militari, spiegandoci meglio di tanti libri di storia che le sue vittorie erano dovute anche e soprattutto agli ideali forti di libertà degli intellettuali, e che le sconfitte borboniche erano soprattutto sconfitte ideali e morali di chi era contro la libertà, perciò contro la Storia.

E OGGI, ANZICHE' "FARE L'ITALIA" LA SI DISFA. Insomma, Sicilia e Bergamo curiosamente ancora uniti? Oggi nel parlar male di Garibaldi; ieri, 150 anni fa, sotto le sue bandiere. Un’involuzione davvero meschina. Avevano ragione, allora, i risorgimentali: fatta l'Italia, gli Italiani bisogna ancora farli.

REGIONI E PROVINCE, COVI DI PARASSITISMO. Del resto, ci penseranno l’Europa e il mercato internazionale a considerarci nazione, anzi, un piccolissimo Stato che solo l’ottusità provinciale può pensare di suddividere ancora di più. Così piccolo che perfino regioni e province sono un lusso irrazionale, tanto più se autonome. E, a proposito, "autonome" da chi e da che cosa, visto che da sole non saprebbero fare tre passi senza cadere ancor più nel ridicolo, e che già ora si fanno pagare i loro sprechi, le loro follie da megalomani di provincia, dagli altri concittadini? Sono loro i veri prepotenti da cui noi dovremmo liberarci. Ma dove trovarlo un nuovo Garibaldi che anche questa volta li riconquisti per il loro bene?

AGGIORNATO IL 27 LUGLIO 2015

 

Ma la Sicilia era contro Napoli e il Borbone ("re Bomba"), con Garibaldi e il Risorgimento.

Gianfranco Miccichè, a suo tempo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, membro della Camera dei Deputati, autorevole sostenitore del Presidente della Regione Siciliana, il quale non avrebbe potuto reggersi senza il suo appoggio, dichiarava che le "nostre disgrazie" (nostre di Siciliani, intende), "sono iniziate proprio con l'Unità" d'Italia. La frase si leggeva, nero su bianco, nell'intervista rilasciata l'8 giugno 2010 al giornale telematico "Siciliaoggi.net".
Anni fa ebbi l'occasione di studiare un pregevole libro, "Ruggero Settimo nel Risorgimento Siciliano", pubblicato nel 1928 dalla Casa Editrice Laterza di Bari, scritto da un aristocratico siciliano, Carlo Avarna (1885-1964), duca di Gualtieri. Avarna è noto agli storici anche per aver pubblicato, nel maggio del 1925, un libro, titolato "Il fascismo" presso l'Editore Piero Gobetti.
Richiamo, rapidamente, qualche passaggio storico. 11 dicembre 1816: Ferdinando di Borbone, IV come re di Napoli e III come re di Sicilia, dispone con proprio decreto l'unificazione dei due regni e diventa Ferdinando I delle due Sicilie. I Siciliani mal sopportano questa decisione, considerato che il Regno di Sicilia risaliva al 27 settembre dell'anno 1130, quando fu incoronato Ruggero II di Altavilla. Come ha scritto Carlo Avarna, il re Borbone conculcava le "secolari autonomie dell'Isola che trentacinque re avevano, per circa otto secoli, rispettate ed alle quali, per la prima volta, si era voluto attentare nel 1816" (op. cit, p. 269).
12 gennaio 1848: inizia la rivoluzione a Palermo; i palermitani precedono ogni altro popolo europeo, in un anno in cui quasi tutta Europa sarà sconvolta da moti rivoluzionari.
25 marzo 1848: nella Chiesa di San Domenico a Palermo s'inaugura il General Parlamento di Sicilia. Quel Parlamento esprimeva una classe dirigente di straordinaria qualità, quale, purtroppo, la Sicilia non conoscerà mai più. Ne facevano parte, tra gli altri, Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez, Filippo Cordova, Michele Amari, Emerico Amari, Vito D'Ondes Reggio, Matteo Raeli, Francesco Crispi, Giuseppe La Farina. Molti di loro poi sarebbero stati protagonisti della storia nazionale italiana.
13 aprile 1848: il Parlamento siciliano proclama, solennemente, che: "Ferdinando II e la sua dinastia sono decaduti dal trono di Sicilia". La corona viene allora offerta al duca di Genova, figlio secondogenito di Carlo Alberto re di Sardegna. Secondo quanto deliberato, sarebbe dovuto diventare Alberto Amedeo I, re dei Siciliani (cfr. op. cit., p. 146). Le trattative con la Corte di Torino furono travolte dagli eventi: il 25 luglio del 1848 i Piemontesi furono sconfitti a Custoza dagli Austriaci.
Il 3 novembre del 1860: Ruggero Settimo (1778-1863), dei principi di Fitalia, che aveva presieduto l'Esecutivo siciliano durante il glorioso biennio 1848-1849, scrive al Cavour: "Ella ha, con ragione, veduta nella politica seguita dal governo provvisorio del 1848 la tendenza alla nazionalità italiana sotto la dinastia di Savoia, sebbene si manifestasse nella forma che le condizioni politiche di quell'epoca permettevano ... Sono convinto che la libertà non può essere senza l'ordine interno, garanzia della prudente conservazione e del saggio progresso. Tutti questi beni ci può soltanto garantire la costituzione dell'Italia in monarchia costituzionale sotto quel re, che alta, incontaminata ha mantenuta la bandiera dell'indipendenza e della libertà italiana. Tutte le varie regioni d'Italia hanno sentito e compreso questo vero, e quindi la nobile gara a sacrificare sull'altare della Patria i vieti e dannosi pregiudizi del gretto municipalismo. La Sicilia non voleva, né poteva essere meno italiana delle altre regioni: il suo unanime ed entusiasta voto per l'annessione ne fu prova" (cfr. op. cit., p. 259).
C'è sempre la tendenza a riscrivere la storia, secondo quelle che si ritengono le convenienze politiche del momento; ma dalle vicende di tutto il Risorgimento siciliano si coglie un significato che nessuno, documenti alla mano, può contestare: la classe dirigente siciliana non perdonò mai ai Borboni di avere prima giurato, poi tradito, la Costituzione siciliana del 1812. Tutti i moti furono sempre ispirati dalla pressante volontà di essere indipendenti da Napoli. A Messina, Ferdinando II di Borbone continua ad essere ricordato come "re bomba"; nomignolo conquistato per i devastanti cannoneggiamenti dell'artiglieria borbonica, ai quali la città resistette orgogliosamente per mesi e mesi nel 1848. L'adesione alla causa italiana fu avvertita come l'opportunità storica di inserire l'Isola in un contesto di più vasto respiro, dove le più ampie forze di una grande Nazione avrebbero potuto convergere e sostenersi reciprocamente, nell'obiettivo del comune progresso civile ed economico.
Non sto a ripetere i volgari attacchi che Miccichè ha mosso contro la memoria di Garibaldi. Riportarli sarebbe attribuire loro importanza e amplificarli.
Il Regno Borbonico cadde perché era marcio fino al midollo, minato dalla sfiducia, tradito in primo luogo da quanti, per i ruoli ricoperti, avrebbero dovuto sostenerlo e difenderlo.
Consideriamo la battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860. I garibaldini sconfiggono in campo aperto un esercito regolare più numeroso, meglio armato e che combatteva in condizioni di vantaggio, avendo l'artiglieria disposta su alture da cui poteva tirare contro le camicie rosse che venivano avanti. Fu quella vittoria a dimostrare che la spedizione dei Mille era qualcosa di diverso dai falliti tentativi insurrezionali tentati in precedenza nel Meridione, quali quelli dei fratelli Bandiera, o di Carlo Pisacane. La vittoria di Calatafimi fece sì che le classi dirigenti dell'Isola ed il popolo siciliano si schierassero con Garibaldi, il quale, infatti, già dodici giorni dopo, il 27 maggio 1860, conquistava Palermo. Per essere disposti a rischiare la propria vita, per combattere e vincere, ci vuole forza morale; evidentemente, Garibaldi era capace di infondere questa forza in coloro che lo seguivano.
Con la battaglia di Milazzo, del 20 luglio del 1860, Garibaldi ha il pieno controllo della Sicilia. Poi può attraversare lo Stretto, percorrere l'intera Calabria senza che nessuno osi attaccarlo ed entrare a Napoli, il 7 settembre 1860, accolto come un trionfatore.
Intanto, Francesco II di Borbone si è rifugiato a Gaeta, dove ammassa ingenti forze militari. Quando tenta lo scontro in campo aperto con la battaglia del Volturno (1-2 ottobre 1860) dispone, sulla carta, di cinquantamila uomini. Ma il suo esercito è messo in rotta da quello di Garibaldi che, stavolta, vince definitivamente.
E' vero che Garibaldi non ebbe mai grande genio politico; ma era un autentico patriota ed un cuore generoso, sinceramente amante della causa della libertà dei popoli e del progresso umano. Per dimostrarlo, basta ricordare che: accettò di porre fine alle istituzioni della Dittatura (e lui era il dittatore); consentì che il 21 ottobre 1860, nelle province napoletane e in Sicilia si tenesse il plebiscito per chiedere al popolo se voleva "l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II re costituzionale i suoi legittimi discendenti"; si inchinò al risultato elettorale (i SI furono pari al 78,91 % degli aventi diritto al voto nelle Province napoletane e al 75,13 % in Sicilia); il 26 ottobre 1860, nell'incontro di Teano, consegnò idealmente l'Italia meridionale e la Sicilia a Vittorio Emanuele II di Savoia, re legittimato dal voto popolare. In altri termini, Garibaldi antepose il bene dell'Italia alle proprie personali convinzioni politiche; si fece semplicemente da parte, senza contropartite, lui che, per quanto aveva ottenuto, avrebbe potuto chiedere qualunque cosa. Vanno ricordati pure quanti lo consigliarono in questo senso; in particolare, Francesco De Sanctis, oggi ricordato come insigne critico della letteratura italiana, ma che allora rappresentava la linea politica della conciliazione con Cavour, e Francesco Crispi, che allora era repubblicano.
Può darsi che Miccichè ignori chi fosse Adolfo Omodeo, il grande storico, pure lui nato a Palermo, il 18 agosto 1889. In un "Discorso ai conterranei di Sicilia", letto alla Radio di Napoli il 15 dicembre 1943, Omodeo confutava le tesi allora messe in circolazione dai separatisti siciliani. Li accusava di interpretare una "reinvoluzione baronale", di coltivare un sentimento reazionario di isolazionismo, di falsificare la storia. Era falso, ad esempio, che "lo Stato libero fiorito tra il 1860 e il 1922" avesse precorso il fascismo nello stremare l'Isola. Al contrario, sosteneva Omodeo, "a chi non abbia la mente ottenebrata da passioni e non sia ignaro di storia appare evidente che mai, dopo il periodo normanno, l'isola ebbe una fioritura simile a quella del libero Stato italiano, quando il nostro naturale ingegno trovò più vasto campo per affermarsi, e uomini di Sicilia diressero la politica, la magistratura, le grandi assemblee politiche del Regno d'Italia". Bisognava fare l'opposto di quanto voleva il separatismo: riprendere, nella sua purezza, il grande ideale mazziniano: "la Patria unita nel consorzio di tutte le patrie libere; l'unità italiana nella confederazione europea, che consolidi l'equilibrio continentale, consacri nell'armoniosa collaborazione di molti popoli dalle molte lingue la civiltà europea che fin ora è stata la luce del mondo" (cfr. Adolfo Omodeo, "Libertà e storia. Scritti e discorsi politici", Torino, Einaudi, 1960, pp. 129-130).
La Sicilia ha festeggiato recentemente il sessantaquattresimo anniversario dello speciale Statuto di autonomia, approvato con regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455. Le prime elezioni dell'Assemblea regionale siciliana si sono tenute il 20 aprile 1947. Non è colpa di Garibaldi se le istituzioni autonomistiche hanno dato così discutibile prova di sè, in un periodo sufficientemente lungo da poter essere valutato storicamente. Non è colpa di Garibaldi se, quando ancora non esisteva la Corte Costituzionale, l'Alta Corte per la Sicilia, con sentenza del luglio 1948, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una disposizione di quella stessa legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, con cui lo Statuto Siciliano è stato convertito in legge costituzionale. Tale disposizione prevedeva che, nel rispetto della procedura di revisione costituzionale, entro il termine dei successivi due anni, sarebbero state apportate le opportune modifiche allo Statuto per armonizzarlo con le norme della Costituzione della Repubblica, scritta ed entrata in vigore successivamente. Il mancato coordinamento fu un drammatico errore politico, di cui portano piena responsabilità quanti affermano l'assurda tesi che lo Statuto sia frutto di un accordo, su un piano paritario, fra la Sicilia e lo Stato italiano.
Non è colpa di Garibaldi se oggi non si è capaci di gestire correttamente il ciclo dei rifiuti e grandi città, come Palermo, sono sporche, maleodoranti ed esposte al rischio di insorgenze sanitarie.
Sappia Miccichè che gli esseri umani non sono tutti uguali, nei gesti e negli atteggiamenti. Alcuni conservano grata memoria dei loro antenati diretti e, comunque, delle precedenti generazioni. Si sentono legati al passato da saldi vincoli ideali e culturali. Le parole possono offendere e dividere; in particolare, le parole che tendono a negare quanto per altri merita rispetto, affetto, venerazione. Parole siffatte scavano fossati che nessun interesse politico poi potrà colmare. E' una questione d'onore; almeno questo Miccichè dovrebbe essere in grado di capirlo.
Cavalcare il sicilianismo forse farà prendere qualche voto; ma, con certezza, ne alienerà altri in modo irrimediabile.
Come già Ruggero Settimo anch'io mi definisco "italiano, nato in Sicilia" e quando vedo una statua di Giuseppe Garibaldi sorrido, come si sorriderebbe a un vecchio amico.
LIVIO GHERSI

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