31 ottobre, 2008

 

Cara Gelmini, che cosa mi dai se ti dico come risparmiare un miliardo di euro?

Signora ministra Gelmini, diciamo che ho per Lei quasi un debole.
Be’ un debole, forse è una parola grossa: a dirla tutta, non è alta a sufficienza per i miei gusti e non porta abbastanza bene i pantaloni e, oso dedurne – ma per carità absit iniuria verbis, lo dico da gentleman – anche i collant.
Ha anche l’aria di una che, come dicono gli studenti a Roma, "ce prova", e che Manzoni descriverebbe come ingenua furbizia o sana improntitudine, un po’ quella che in Toscana si chiama facciatosta. L’unica virtù che accomuna davvero gli Italiani d’oggi, tanto che ormai la richiedono a figli e nipoti perfino le vecchie zie zitelle e le famigerate "mamme d’Italia".
Passerò sopra, à fin de ne recevoir, a quello che di Lei si dice nel vero Parlamento, convocato perennemente in seduta congiunta a telecamere riunite: i centomila bar d’Italia. Secondo gli avventori delle 7.30, i più informati, lei sarebbe solo una donna come tante, però baciata dalla fortuna, una che sta dove sta non si sa perché. Però, rettificano gli avventori delle 7.40, più riflessivi, lei quello che fa lo fa con la convinta decisione dell’unico personaggio sbrigativo e decisionista che abbiamo nel Mondo Occidentale, che Oltralpe dove abbelliscono tutto chiamano femme menagère (casalinga).
E’ vero, cara Ministra, ammetterà che oggi non solo gli uomini, ma neanche i generali amano più comandare. Ormai ci sono solo i portieri degli stabili (a trovarli, con quello che costano), i caporali, i monsignori e, appunto le casalinghe, ad amare il comando.
Dicevo, dunque, che parto da un pregiudizio favorevole, malgrado tutto, nei suoi confronti, e la voglio aiutare in questo momento per lei difficile. Che cosa mi dà se le suggerisco un modo rapido e indolore per risparmiare ben 1.000.000.000.000 (un miliardo) di euro, pari a circa 2000 miliardi delle vecchie lire, sulla scuola pubblica senza minimamente scalfirne l’efficienza? Anzi, liberando qualche ora di insegnamento che potrebbe benissimo essere utilizzata, che so, per l’inglese, l’educazione civica, la musica, l'informatica, l’educazione ambientale e il risparmio energetico?
Guardi bene nelle pieghe del bilancio. Dovrebbe trovare in una pagina un colonnino da cui risulta che lo Stato italiano, unico tra i Paesi liberali d’Occidente, spende la bellezza di 1 miliardo per insegnare una disciplina opinabile ed evanescente come poche, il cui esoterismo – ne converrà anche lei – è pari solo ad un improbabile "Seminario sui fantasmi nell’Alta Scozia del 600". Ammesso e non concesso, poi, che i fantasmi esistano, e una cosa così, con tutte le materie che ci sono, si possa e si debba insegnare a scuola.
La religione cattolica, voglio dire. Tanto assurdo ne è l'insegnamento nelle scuole statali, che se io fossi un cattolico praticante, un credente puro e integralista, protesterei vivamente per l'umiliazione, la volgarità e banalità di indottrinare con la forza e l’avallo dello Stato, che è sempre stato il contraltare della Chiesa, una credenza strettamente legata alla personale e delicatissima psiche dell’uomo. E che pretenderebbe, semmai, una maturità o immaturità speciale, diversa da bambino a bambino, da uomo a uomo, a seconda degli imprevedibili percorsi emozionali, fantastici e intellettuali. Lo Spirito, nientemeno, che si avvale di rozzi mezzi materiali? Ma, mi creda, se io fossi credente, con questo tipo di "lezioni" dall'alto rischierei di diventare ateo.
Tralascio il fatto dell’odioso privilegio per cui lo Stato italiano paga profumatamente, addirittura più degli altri insegnanti (e siamo sicuri che sia lo Spirito ad essere così esoso?) i docenti di religione. E’ in atto una severa critica da parte dell’Unione Europea su questo punto. Passo sopra alla circostanza liberale del "o tutti o nessuno", cioè dell'uguaglianza dei punti di partenza, per cui avrebbero semmai il medesimo diritto ad essere "insegnate" tutte le altre religioni del mondo, compresa la filosofia anti-religiosa o ateismo.
Ma più pragmaticamente le chiedo: uno Stato deve insegnare a credere nei miracoli, insomma la "fede" si può insegnare? La risposta è un triplo no. Anche perché a scuola ci sono già troppe ore di studio, e la religione può benissimo essere insegnata dalle varie Chiese, come si è sempre fatto in passato.
Intanto ci pensi: risparmierebbe e farebbe risparmiare a tutti noi Italiani, subito, un miliardo tondo tondo, senza nessun effetto collaterale, eliminando solo una lezione davvero inutile e controproducente per tutti (cattolici, protestanti, musulmani, ebrei, atei), un vero spreco di denaro pubblico in questi tempi di crisi.
Grazie, Signora Ministra.

25 ottobre, 2008

 

L’apparenza inganna. Imprese e lavoratori stranieri in Italia sono una ricchezza

Il nazionalismo è sempre stato figlio dell’ottusità e dell’irrazionalismo, tanto più in economia, un ambiente che non ama vincoli, confini di Stati e barriere doganali, e perciò in mano ai nazionalisti deperisce e produce povertà crescente, anziché ricchezza. Tanto più oggi, in tempi di crisi e recessione, quando il populismo e l’inadeguatezza dei governanti di molti Paesi che di fronte ai propri elettori ignoranti vogliono apparire "difensori della Patria", si salda all’eterno luogo comune popolare pre-industriale e pre-liberale secondo cui "lo straniero è sempre all’origine dei nostri guai", compreso il mancato o ritardato sviluppo economico.
Tanto diffuse sono queste leggende metropolitane, che si rischia di essere impopolari, perfino tra i lettori liberali, ad interpretare in chiave positiva, come fa Antonio Martino sul sito dell’Istituto Bruno Leoni, l’arrivo in Italia di manodopera e di capitali stranieri.
"Vorrei tornare su un tema accennato in un precedente articolo: la percezione distorta dei vantaggi e degli svantaggi dei movimenti internazionali di capitali, merci e persone", scrive l’economista liberale sotto il titolo "Stravaganti luoghi comuni". E così prosegue.
"La generalità della pubblica opinione e molti sedicenti esperti danno per scontate le conseguenze di immigrazione ed emigrazione, importazioni ed esportazioni, afflusso e deflusso di capitali, invariabilmente sostenendo tesi che sono l’esatto contrario della verità. Vediamo.
Cominciamo col caso forse più semplice: i movimenti di capitali. Non solo i nazionalisti economici ma anche tante persone sensate sembrano convinte che se un’impresa italiana ne acquista una estera ciò rappresenti un successo per l’Italia, qualcosa che realizza l’interesse di noi tutti. Quando, invece, accade il contrario, quando "gli stranieri" acquistano un’impresa italiana, ciò costituisca uno smacco grave per l’Italia, una perdita netta per il paese, una catastrofe da evitare ad ogni costo.
Queste tesi sono false: quanto l’Italia può produrre dipende anche dalla quantità di risorse produttive di cui dispone. Se un’impresa italiana ne acquista una straniera porta capitali all’estero, lo stock complessivo di capitale in Italia diminuisce, la nostra capacità produttiva si riduce. D’altro canto, l’impresa estera acquistata dagli italiani resta dov’è e continua a produrre a vantaggio del paese in cui si trova. Se, invece, un investitore estero acquista un’azienda italiana, la paga: si tratta di capitali che entrano in Italia, accrescono la nostra dotazione complessiva di capitale e ci consentono di produrre più di prima. L’impresa italiana acquistata dallo straniero resta in Italia e continua a produrre a nostro vantaggio. Dovrebbe essere evidente anche ai più sprovveduti che l’investimento estero in Italia ci rende più ricchi, mentre l’investimento italiano all’estero ci impoverisce.
Veniamo ora ad un caso più difficile, quello del movimento internazionale delle persone. L’Italia è stata per oltre un secolo della sua storia unitaria un paese esportatore netto di mano d’opera: l’emigrazione veniva vista come una piaga sociale per via delle sofferenze degli emigranti costretti a cercare all’estero quel lavoro che non riuscivano a trovare a casa loro. L’aspetto sociale era indubbiamente negativo ed in molti casi tragico, ma non erano meno gravi le conseguenze economiche dell’emigrazione che, riducendo la forza lavoro complessiva, riduceva anche la nostra capacità produttiva. Discorso analogo vale per il caso opposto: lo straniero che viene in Italia per lavorare accresce la nostra forza lavoro e ci mette in condizione di produrre più di quanto altrimenti potremmo. Ciò è particolarmente vero nel caso dell’Italia, paese demograficamente moribondo che ha un disperato bisogno di mano d’opera. Come sosteneva Milton Friedman: ogni lavoratore immigrato ha due braccia ed una bocca sola, contribuisce alla produzione complessiva più di quanto ne sottragga consumando.
La demonizzazione indiscriminata dell’immigrazione non è soltanto socialmente crudele, è anche demenziale dal punto di vista economico. Le preoccupazioni che suscitano quanti vengono in Italia per delinquere anziché per lavorare non dovrebbero farci dimenticare che solo grazie ad un cospicuo aumento del numero di lavoratori immigrati possiamo sperare di evitare un lungo periodo di drammatica decadenza. Chi non ci crede guardi ai nostri indicatori demografici.
Il caso più difficile di tutti riguarda il movimento internazionale delle merci e dei servizi. L’ovvio punto di partenza è questo: se solleviamo il velo monetario e guardiamo ai valori reali, il nostro reddito è costituito dalla quantità complessiva di tutto ciò che possiamo acquistare in un anno. Le importazioni sono beni e servizi che, entrando in Italia, accrescono la quantità di prodotti acquistabili dagli italiani, accrescono cioè il nostro reddito reale. Le esportazioni, invece, sono beni e servizi che escono dall’Italia e vengono resi disponibili per l’acquisto da parte di cittadini di altri Paesi; riducono cioè il reddito reale italiano ed accrescono quello del resto del mondo. Le esportazioni sono il costo del commercio internazionale, sono quanto noi diamo al resto del mondo in cambio di ciò che ne otteniamo; le importazioni sono il guadagno del commercio internazionale, quanto il resto del mondo dà a noi in cambio delle nostre esportazioni.’è poso da aggiungere
Paradossi? Non proprio, si tratta solo di quello che Philip Wicksteed, grande economista inglese, chiamava "il buon senso dell’economia".
Così Antonio Martino. C’è poco da aggiungere ad un’analisi così lucida, espressa nel modo semplice e didatticamente efficace che i professori usano all’Università, almeno alla prima lezione introduttiva. Una visione liberale che coincide assolutamente con la nostra, ovviamente. Ci chiediamo, però, per l’amore di coerenza che contraddistingue noi inguaribili illuministi, come mai Martino non dica queste verità inconfutabili anche alle riunioni del Popolo della Libertà, partito di cui fa parte, anziché rinchiudersi in uno sdegnoso e pessimistico o, a seconda delle interpretazioni, comodo silenzio.

10 ottobre, 2008

 

Seguaci ultrà, amici critici, nemici: ecco come i liberali si dividono su Pannella

Scrive l'amico liberale Adalberto Scarlino, di Firenze: "Leggo la "Lettera di notizie per l'azione liberale" ["Per non mollare", newsletter per l'azione liberale, n.19bis del 4 ottobre 2008, a cura di Veneto Liberale, NdR] tutta dedicata a Marco Pannella. Da liberale a liberali, vorrei dire, cari amici, che il capo e "digiunatore" del gruppo che da lui dipende e che per lauto contratto ha fatto insediare nove deputati alla Camera, da tanti anni ormai si compiace di essere un esibizionista di se stesso, sempre meno liberale nella forma e nella sostanza e, tra l'altro, sempre meno democratico. Scusate, ma qualcuno vi racconta come avvengono le "elezioni" interne dei pannelliani, pressochè identiche a quelle dei veltroniani e dei berlusconiani, nel partito - si fa per dire - di cui Pannella è tuttora proprietario? E qualcuno si ricorda dell'affossamento dell'istituto del referendum causato dall'abuso pannelliano della pratica del referendum? Ed ancora - ma certo non continuerò - quale contributo ha dato il sunnominato in questi ultimi vent'anni alla costruzione di un'area politica e di una politica laica? Lasciate - vi prego - al principe De Curtis la nota, lapidaria e quanto mai appropriata risposta agli "scioperi" e ai "digiuni".
Cordialmente.
Adalberto Scarlino, Firenze
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STANCO DELLE "PANNELLATE"
All'insofferenza di Scarlino ha risposto l’amico Beppi Lamedica di Veneto Liberale, la cui newsletter monografica sulle lotte libertarie di Pannella e dei radicali era stato il casus belli tra liberali amici che si dividono tra loro solo quando si parla di Marco.
Chi l’avrebbe detto? Scopriamo con questa lettera-sfogo che l’amico Adalberto, colto e raffinato liberale fiorentino, non ne può più non dell'ingerenza dello Stato o della Chiesa sulla vita del cittadino, o della mala giustizia, o dell'assenza di selezione per merito e delle raccomandazioni. No. Ma dell'ingerenza di Pannella. Insomma, sono un'emergenza le solite "pannellate", dopo l’ennesimo digiuno, per quello che potrebbe sembrare un mero fatto tecnico, "interna corporis", avrebbero detto i legulei di Giustiniano, cioè l’elezione d’un giudice della Consulta.
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MA IL RISPETTO DELLE REGOLE E’ IL CONTENUTO DEL LIBERALISMO
Lo capiamo, certi sfoghi li abbiamo avuti perfino nei Congressi radicali negli anni 70. Ma eravamo ventenni. Però attenti a non gettar via assieme ai modi, al teatro, al folklore apparente, solo apparente, di quell’onestissimo furbone che è Pannella, anche la difesa delle regole, che è essenziale nel Liberalismo. Scarlino e gli altri amici liberali insofferenti delle mattane di Marco li conosciamo, sono troppo liberali e troppo colti per non sapere che il rispetto delle regole istituzionali è il Liberalismo stesso. Anche nelle istituzioni, non solo nell’arte, la forma è sostanza, avrebbe detto il benedett’uomo di Pescasseroli.
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TEATRO, ANZI RITO NECESSARIO
D’accordo, esistono perfino gli antipatizzanti liberali, che magari, anzi sicuramente, distingueranno tra Pannella (eccessivo) e i Radicali (giusti). Ma sbagliano a distinguere, perché ormai non esistono più altre anime nel partito.
Questo sfogo, comunque, rappresenta bene quella fascia dell’opinione pubblica, anche tra i liberali, che non sopporta proprio più il narcisismo e il gigionismo autoreferenziale di Marco.
Chiedo loro: e l’esibizionismo degli altri politici, anzi, il teatrino della politica all’italiana, fatta ormai solo di annunci, interviste, pettegolezzi e "sparate" ai comizi e in tv (cfr. Berlusconi, Veltroni, Di Pietro ecc)? Lo sopportate? E’ forse meno fastidioso, perché più discreto? E che sia diretto a secondi fini, oltretutto, non vi secca un po’ di più, da liberali?
Almeno quello messo in scena ogni giorno da Marco è un teatro "pedagogico", quasi un’operina morale come certi drammi religiosi del 600, una rappresentazione sacra…. Un mistero gaudioso dove si contempla il Santo rompicoglioni e antipatico che sferza i simpaticoni ridenti sì, ma con la faccia da figli-di-puttana alla Bogart. Per questo – ci mancherebbe altro che non l’avessi fatto – ho messo Pannella tra i grandi personaggi (vedi colonnino nel mio blog personale), nei quali per qualche aspetto mi riconosco. Eppure l’ho criticato spesso, e continuo a farlo. Anzi, lo critico più io che sono un suo fan che i suoi nemici.
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MORALISTA INTRANSIGENTE
Ma abbiamo molto in comune. Sì, l’ho sempre detto che Pannella è un grande, inimitabile moralista, e in questo senso, con il suo bisogno d’urgenza (qui e ora, di doman non c’è certezza) è rimasto l’unico vero religioso laico dei nostri tempi. Perché laico? Perché la libertà è giustizia, ecco quello che certi liberali aristocratici – un ossimoro – non capiscono. O la libertà ce l’hanno tutti o non esiste. La libertà di pochi si chiama società autoritaria.
Pannella ha ragione, quindi, nel pretendere la libertà (e i relativi doveri, spero) per tutti, non solo per i borghesi, i redditieri, gli ereditieri e figli di papà, ma anche per gli emarginati (cfr. Einaudi). E giustamente la pretende in questo mondo, non nell’altro. Del resto, lo ripete sempre a chiare lettere (una delle tante cose belle e commoventi dei Radicali è che dicono tutto), come un vecchio clown triste, ormai stanco del suo ruolo, che però per vivere deve continuare ad andare ogni giorno in scena, con i suoi 70 anni suonati. Possibile che gli amici liberali anti-pannelliani non ne sono toccati? E lo scopo è sempre annunciato chiaramente, scoperto, onesto, per niente mistificatorio: è l’unico sistema per costringere giornali e tv ad affrontare certi temi che altrimenti censurerebbero.
Che esistano anche i liberali visceralmente anti-pannelliani, non ci scandalizza. Noi liberali ci siamo dovuti confrontare subito, da quando Pannella lasciò da giovane il PLI, con questo ingombrante guru della non-violenza politica, questo genio della "commedia dell’arte" politica, unico nel panorama europeo, che con modi così singolari ha assicurato all’Italia importanti conquiste di civiltà.
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LIBERALI RISARCITI DELLA MANCATA RIFORMA
Certo, il pannellismo ha cambiato il radicalismo, cioè l’ala intransigente e movimentista del liberalismo. Ma ha avuto quasi una funzione mimetica e risarcitoria per noi laicisti. Mimetica, perché per curioso paradosso, pur ricorrendo all’emotività, ai ricatti morali, alla seduzione delle anime, al carattere – tutti elementi effettivamente non liberali in politica, semmai cristiani e socialisti – il pannellismo si è dimostrato lucido e razionale nei fini ultimi autenticamente liberali e illuministici. Risarcitoria, perché il preteso clown, imbavagliandosi e bevendo urina, ha di fatto compensato i nostri famigerati deficit liberali, bilanciando in 30 anni, con leggera fantasia italiana e duri metodi gandhiani, i 3 secoli di riforma illuministica e protestante che sono mancati all’Italia.
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O IDENTIFICAZIONE O DISTINZIONE
Naturale, perciò, che proprio i liberali, più ancora di clericali, conservatori, socialisti, fascisti e comunisti, siano paradossalmente i più toccati nel vivo da un "concorrente" che con la sua lucidità, con la sua petulante "insistenza per la verità" (Satyagraha), con la sua visibilità pubblica non concessagli dal sistema mediatico ma duramente conquistata, insomma col suo stesso successo, dimostra a tutti che proprio i liberali hanno sempre sbagliato, che forse hanno saputo "essere" ma non "fare" i liberali.
Ogni volta che Pannella parla o agisce, insomma, rappresenta obiettivamente – che lo voglia o no - il personaggio "che sa fare il liberale mille volte meglio dei liberali". Naturale, perciò, che questo possa piacere (si sentono finalmente vincenti, rappresentati da un personaggio positivo, che fa parlare di sé, invece che dai soliti uomini grigi del proprio apparato), ma anche dispiacere (l’invidia verso chi sta rubando lo spazio politico ai liberali, il disappunto verso chi interpreta il liberalismo in modo eccentrico, ecc). In entrambi i casi, i liberali hanno sempre prestato attenzione al fenomeno Pannella, un caso irrisolto o addirittura una ferita aperta per molti di loro. Quasi tutti i liberali, perciò, sono portati o a identificarsi o a distinguersi da lui.
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I TRE ATTEGGIAMENTI
Su Pannella, gli atteggiamenti dei liberali sono raggruppabili in almeno tre posizioni.
1. Liberali emotivamente convertiti e ultrà. Liberali sedotti sulla via di Torre Argentina che abbandonano il PLI definendolo conservatore, immobilista, gerontocratico e passatista, per entrare tra i Radicali, dove in genere i più tenaci arrivano alla dirigenza: Teodori, Mellini, Ercolessi, Strik Lievers. Ma ci sono stati anche molti peones liberali che non hanno fatto carriera, e che non ricordo. Alcuni di loro, ex-dirigenti compresi, però, attenzione, in tarda età possono pentirsi e passare alla casella n.3 o addirittura 2 (vedi), o per il carattere di Marco (Mellini) o - sintetizzo rozzamente - per l'ostinato rifiuto da parte di Pannella di creare un partito vero e fare politica vera (Teodori).
2. Liberali cordialmente antipatizzanti. Liberali che, certo, per carità, riconoscono il valore liberale e libertario delle battaglie di Marco e dei Radicali, o per lo meno di alcune. Ma che non amano i modi, i metodi, la sguaiataggine, le parolacce, i digiuni, le bevute d’urina, i referendum ("Qualcuno sì, ma cento…!"), i bavagli, i ricatti, gli aut-aut, le occupazioni, i cortei, le raccolte di firme, le votazioni con maggioranze bulgare, il fatto che Pannella-Kronos uccide i suoi figli troppo bravi e indipendenti, e perfino che è proprietario – dicono – del partito e di Radio Radicale. Però lasciano capire che se i Radicali fossero educati e perbenisti come un Partito Liberale o un Partito repubblicano, appena più attivo e fantasioso, se Pannella mettesse la testa a posto e assomigliasse a Costa o a Biondi o a La Malfa junior, be’, allora potrebbero anche valutare l’idea di aderire.
3. Liberali aderenti e simpatizzanti, ma critici. E’ la posizione più razionale, laica e lucida, lontana dalle contrapposte emotività. Molti sono giornalisti genericamente laici-liberali, categoria che ammira molto l’ex-collega Marco, l’unico politico dopo Mussolini a creare le azioni politiche "già pronte per la stampa", oggi diremmo "già in formato giornalistico". Una pacchia per fotografi, reporter e commentatori. I maligni sospettano che lo facciano per gratitudine verso il primo "creatore di notizia" d’Europa. Notizie che hanno dato a molti di loro il pane quotidiano. Ma non è vero: ammirano l’intelligenza, provocatoria, goliardica, spesso crudele, diabolica, ma che contrasta con la generale stupidità del mondo politico italiano, che i giornalisti italiani – chi l’avrebbe detto, visto che sono tutti raccomandati? - disprezzano. Sono estasiati dalla sfrontatezza ingenua, dalla capacità acrobatica di Marco di essere nello stesso tempo politicamente onesto e machiavellico, moralista e immoralista, chiaro nelle opzioni ma oscuro nel linguaggio, ingenuo, disarmato, ma furbo di tre cotte, vecchio e giovane, saggio e avventato, non-violento e violentissimo, democraticissimo e liberalissimo (con qualche spruzzatina di socialismo umanitario) all’esterno, ma autoritarissimo e intollerante all’interno.
E, sempre tra gli amici critici, che dire dei liberali non giornalisti? Molti restano nel PLI o nel PRI, e si rendono visibili perché nei Congressi portano sempre ad esempio i Radicali, ma non si iscrivono mai. Dicono che è per il caratteraccio autoritario di Pannella, per la sua abilità levantina di politico politicien della I Repubblica. "Bravissimo – dicono – altro che Andreotti: ormai l’unico vero politico puro è lui. Anche mentre dorme, ammesso che dorma, pensa a trucchi e machiavelli politici. Basta vedere come ha conquistato i nove deputati, rubandoli al PD: un capolavoro tecnico. Però, che cinismo. Se solo fosse più democratico all’interno…")
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ALL’INFERNO CON SGARBI, LA CICCIOLINA E IL MAGO OTELMA
D’accordo, mi son lasciato prendere troppo la mano dal personaggio, ho voluto divertirmi. Ma certo, gli amici liberali antipatizzanti di Pannella si iscrivono d’autorità nel primo cerchio: gli avversari psicologici senza se e senza ma, e visto che spesso calcano la mano sul fastidioso esibizionismo di Marco devono appartenere al girone dantesco dei liberali discreti, raffinati e perbenisti, quelli che Dante oggi condannerebbe per contrappasso a soggiornare in un Inferno tappezzato di rifiuti napoletani, con l’invadente presenza di esibizionisti, primedonne e narcisisti di professione come Sgarbi, Pannella, la Cicciolina nei suoi anni migliori, Mughini, Odifreddi e il Mago Otelma. Un vero inferno per l’amico Adalberto e gli altri antipannelliani. Come non capirli?
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RADICALI D’UN TEMPO
Per quanto mi riguarda personalmente, sono stato tra tutti noi liberali doc quello che – dopo Strik Lievers – ha sicuramente curiosato o soggiornato più a lungo tra i Radicali (dai primi 70 ad oggi, con alti e bassi, anni di nausea e ritorni), senza però essere mai interessato alla dirigenza. Tanto che fino a 15 anni fa ero bollato come "radicale" nelle polemiche degli avversari, mai come "liberale".
Per me il periodo d’oro dei Radicali risale agli anni 70. Allora in via di Torre Argentina c'era più libertà e c'era un vero dibattito, c’erano gruppi con diverse idee su tutto. Io, anche se distratto dalla mia battaglia ecologista della prima ora (fondai dentro il PR il primo club ecologista in Italia, la Lega Naturista, nel 1975, 10 anni prima dei Verdi), in politica appoggiavo Mellini e Teodori, due liberali doc, il primo conosciuto addirittura nella sede PLI di via Frattina. E anzi, da questa circostanza rassicurato, visto che come giovane liberale ero un po’ diffidente verso i Radicali, lo seguii al PR senza eccessivi timori. Così, io sofisticato liberalino in giacca e cravatta, imparai a fare cose che non avrei mai immaginato di fare: arringare passanti, tenere un tavolo, volantinare, scandire slogan al megafono. Non sono timido, sono sempre stato fantasioso, e anche per questo i Radicali facevano per me.
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"CHI PROPONE, FACCIA"
Già nel 1967, come direttore del giornale degli Universitari della Sapienza "Roma Università" (rettore il severissimo e freddissimo, anche verso i liberali, Gaetano Martino), feci una intervista a Pannella sul "Clericalismo oggi". Gli detti la copertina. Eppure, quando subito dopo entrai in via di Torre Argentina, sbalordii nel vedere l'autoritarismo carismatico e da guru di Marco. Allora era un ragazzone sempre in maglione (mai visto con la giacca e la cravatta), ma – immaginate – dieci volte più pressante, veloce, intuitivo di oggi. Era dura stargli attorno: si era sottoposti ad un controllo, ad una guida continua. Da lui ho imparato molte cose. La prima? Bellissima e molto liberale: "Proponi una cosa? Falla". Altro che i soliti liberali PLI o PRI, tutti bravi nel "dare consigli" agli altri senza fare mai nulla. Responsabilità e fiducia personale: chi propone, faccia. Un esame continuo per noi giovani. E il bello di Marco era che ti controllava, colloquiava, dava consigli, ti prendeva in considerazione, si metteva sullo stesso piano. Era un giovane tra i giovani. Non come gli altezzosi e vecchi anzitempo dirigenti liberali. Insomma, i giovani si sentivano spinti, motivati. Di qui l’attivismo estremo, incontrollabile, della galassia radicale negli anni 70. Una fucina, un laboratorio perenne. E attenti a non sbagliare porta: in ogni stanza trovavi un gruppo diverso, espertissimo, motivatissimo, bravissimo, che col suo entusiasmo contagioso ti fagocitava.
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UN ALTRO PADRE AUTORITARIO? NO!
Ma dopo qualche anno, pur riconoscendone il genio cominciai a contestare il paternalismo soffocante e autoritario di Pannella. Allora, poi, combattevo già in casa una dura battaglia contro l’autoritarismo di mio padre. Non volevo un secondo padre come il primo. Memorabile un mio intervento notturno al Congresso di Napoli (avevo imparato da lui l'arte oratoria). Non a caso notturno: anche loro usavano questi mezzucci da presidenti di assemblea, abili nel far parlare i meno allineati nelle ore impossibili. Purtroppo per loro tra le 5 persone in platea c'era un perfido giornalista politico della Repubblica, che sulle mie accuse scrisse un articolo a tutta pagina.
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ANTIPATIA, UNICA VERA DROGA
Tradimento? Ecco un termine poco liberale: i partiti non sono chiese, sette, come spesso si crede in casa radicale. No, è che giudicavo così ingiusto il mio isolamento da dover assolutamente ristabilire il giusto equilibrio, cioè replicare attaccando. Tanti erano i nemici interni (l'antipatia verso gli altri, soprattutto "compagni", è la segreta molla cinetica che manda avanti ma distrugge anche la baracca radicale, forse perché produce adrenalina!), che tanto valeva parlare chiaramente. I molli non sono considerati, bisogna esser duri in casa radicale.
Contestavo Marco e alcuni suoi colonnelli, perché non volevano fare un partito vero, propositivo, che facesse alleanze come gli altri, che si sporcasse le mani col "fare", ma solo un movimento agitatorio, contestativo e moralistico da strada. Anche Teodori la pensava così. Ma di mio aggiungevo la critica al teatro della politica – che non ho mai sopportato e non sopporto tuttora – il gigionismo sfrenato, l'esibizionismo patologico, anche rispetto al solito esibizionismo dei politici italici, la furbizia elevata a sistema, e all’interno l’abitudine di far crescere i giovani fino a farli diventare bravissimi politici, per poi stroncargli le gambe se pensano con la propria testa, e cominciano a fare ombra al leader carismatico.
Solo ora, dopo aver fondato il Comitato per l'unificazione dei Liberali Italiani, ora che sto toccando con mano l'ottusità di tanti liberali - gente comune, partiti, club, intellettuali, politici - mi rendo conto che quel che pretendevo allora, nientedimeno, era che il Partito Radicale di Pannella si trasformasse in un grande, moderno, efficiente, razionalista, ma duro (movimentista e contestativo, quando fosse il caso), Partito Liberale. Un'utopia, una generosa ingenuità.
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IL RISCHIO DELLA SETTA
Il rischio era già allora che i Radicali da circolo chiuso autoreferenziale si trasformassero, proprio a causa dell’emarginazione di cui erano e sono vittime, in una vera e propria setta, per l'abuso stesso di carisma del capo, la vita in comune, il fanatismo inevitabile negli allievi potenziali "primi della classe", i metodi di cooptazione casuali o irrazionali della classe dirigente, la grande emotività interna (i congressi allora erano degli psicodrammi), senza contare i ricatti morali insiti nel metodo stesso della non-violenza (sciopero della fame e della sete, catene, bavagli, occupazioni ecc), oltretutto rivolti proprio al pubblico più vicino, ai più sensibili, ed anche per l'abuso paranoico dei referendum, come se avessero perso ogni speranza di dialogo col sistema. Sul quindicinale l’Astrolabio e sul settimanale Aut scrissi articoli contro le sventagliate di 13 referendum.
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UN POSSIBILE RALPH NADER ITALIANO
Che altro potevo rimproverargli? Be', sì, Pannella col semplice non promuoverla stroncò la prima associazione ecologista in Italia, da me fondata dentro il PR nel 1975, la Lega Naturista, che poneva già interconnessi tra loro tutti i nodi che ora sono arrivati al pettine: l’ambiente, lo stato della Natura, l’agricoltura, la tutela di piante e animali, l’autosufficienza, il rispamrio energetico e le energie rinnovabili, la tutela del cittadino consumatore come parafrasi della libertà liberale del cittadino. Ora, però, tra i Radicali gira da anni una vulgata secondo cui nel loro DNA c'è anche l'ambiente... Sarà, ma da chi l'avrebbero imparato? Non capì che avrebbe potuto fare il Ralph Nader italiano, il difensore dei consumatori: troppo poco per lui. Lui voleva, vuole essere addirittura l’ago della bilancia politica in Italia. Però, bisogna riconoscerlo, appoggiò il I Referendum anti-caccia, anch'esso inventato da me, e portato avanti con l'amico Carlo Consiglio, socio della mia Lega, e l'apporto dei Radicali. Qualcuno fece notare che ciò accadeva solo perché era un nuovo referendum.
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LIBERALI DILETTANTI, RADICALI PROFESSIONISTI
Ma neanche i liberal-radicali, cioè gli amici del "sì, ma", ci vanno leggeri con le critiche all’amico Pannella. Che a ben vedere esprimono solo l’insofferenza che i liberali hanno, come aderenti ad un tipico "movimento d’opinione" in cui non si fa nulla ma si parla (quando si parla), verso chi al contrario "fa", organizza, lavora ogni giorno dell’anno, comprese le festività. In questo senso c’è un abisso logistico ed esistenziale tra Liberali e Radicali. I primi sono dilettanti allo sbaraglio, i secondi professionisti esperti dal piglio sicuro. Un qualunque ragazzino radicale (quando ancora esistevano e non erano stati soppiantati dai pensionati) è molto più bravo nel fare politica d’un sessantenne avvocato liberale, con tutta la sua prosopopea.
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LIBERALI CHE CRITICANO PANNELLA? SENTI CHI PARLA
Guardino, perciò, in casa propria, alla propria storia recente, i liberali e i repubblicani classici, anziché criticare gli unici bravi ed efficienti della galassia liberale, gli amici radicali. Facciamo un passo indietro, anche per dimostrare che le cose non sono cambiate.
Io scappai dal PLI alla fine degli anni d’università, per l'autoritarismo severo, non fantasioso, né goliardico come quello di Pannella, ma freddo, austero e distante, di Malagodi e di tutta la dirigenza liberale. Ed era un autoritarismo di gran lunga peggiore di quello di Pannella. Perché Marco almeno si sfogava con te, ti contestava a sua volta, discuteva, parlava, in fondo ti dava importanza. Malagodi, invece, chiuso nella sua stanza inaccessibile (bisognava prima parlare con un dirigente e una segretaria, per sentirsi quasi sempre dire di no), prendeva provvedimenti, vietava, stroncava, sopiva, allontanava. Senza apparire mai, senza una parola. Perfino gli impiegati e gli usceri al PLI erano così snobisticamente altezzosi e severi da essere fuori posto. Ricordo con simpatia il supercilioso Piccio Crepas, un brav’uomo che mi guardò sempre con sospetto (sarà stata la barba o la strana voglia di fare?), che si considerava più liberale del Segretario politico, quasi la vestale che doveva conservare il Sacro Fuoco del Liberalismo...
No, non poteva essere una setta, per la distanza borghese che divideva tra loro i dirigenti (tutti si davano del lei) e gli iscritti, ma certo era un salotto snob conservatore. Tutto ciò che non era espressamente consentito era vietato. Nel senso che era prudente non proporlo neanche, mi faceva capire a bassa voce lo zelante Crepas. Volevo fare un giornale "per i giovani"? Ohibò. Una saletta per riunirsi? Riunirsi per fare cosa?. E così via. Dovette arrivare la campagna del divorzio (Baslini) per ribaltare tutto e far ritrovare al PLI la sua vera natura riformatrice
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PICCOLI LIBERALI IN CRAVATTA
Le assemblee e i convegni della Gioventù liberale erano la copia esatta, grottesca, delle analoghe iniziative dei parlamentari professionisti. Ragazzi in giacca e cravatta, giocavano a fare i politici di professione, come avevano visto fare in tv. Si illudevano di fare la fronda ai grandi, ma ne ripetevano tutti i difetti, tutti i tic. Ricordo un impetuoso Strik Lievers, un più compassato Sforza Fogliani, un flemmatico MacDonald, un tesissimo Marzo, un invasato Ercolessi, un pignolo Morelli. Tutti insieme a sbracciarsi e urlare mozioni d’ordine, emendamenti, a eccepire cavilli regolamentari, a fare scenate teatrali pour épater la platea, a scannarsi per ore sulle virgole di un comunicato. Decisi che, no, non avrei voluto diventare così "da grande"...
Insomma, ero già un anti-politico o anti-partitico, pur essendo imbevuto di cultura politica, di ideologia e filosofia politica liberale (entro i 25 anni lessi tutto il Croce umanamente leggibile: politica, testimonianze biografiche, storia, estetica). Le assemblee non facevano per me. Le trovavo ridicole, Delle finzioni rituali. E invece alcuni di quei ragazzi liberali me li ritrovai dai Radicali, sempre ad agitarsi e a urlare per un emendamento, sempre in camicia (però, senza più la cravatta). Con le stesse, stessissime scene ai Congressi. Dopotutto, gli psicologi sanno che il rituale delle assemble è un vero e proprio "gioco sociale", cioè una parafrasi razionalizzata della vita, che sublima gli scontri, altrimenti troppo sanguinosi, e incanala le aggressività naturali riportandole in un alveo compatibile con la società, purché regolato. Evidentemente, io non sono aggressivo, o forse - suggerisce con onestà il Nico-2 - sublimo le mie aggressività in altri campi...
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GENTE E PROPAGANDA, QUESTE SCONOSCIUTE
Ma almeno loro, i Radicali lavorano, sanno impostare gli obiettivi e lavorare per raggiungerli, dopo il lavacro del "rito democratico" dell’assemblea, di cui addirittura abusano. Perciò sbaglia Scarlino ad avanzare sospetti sulla democraticità delle riunioni: si scannano come ai bei tempi per una virgola. Certo, poi sulla mozione finale c’è unanimità o maggioranza bulgara. Ma a causa dell’omologazione culturale e della cooptazione dei dirigenti che ormai appiattisce i Radicali di oggi, non per problemi di democrazia formale. E’ semmai un problema di psicologia e sociologia.
Invece, nessuno degli adulti o dei giovani liberali era-è capace di andare sulle strade a fare propaganda. Una parola estranea al verbo aristocratico del PLI. Gli elettori, secondo i liberali, devono già conoscere i programmi del PLI, se no, peggio per loro. Non sanno fare neanche un comunicato, un poster, uno slogan. Negati per la psicologia politica? Sì, negati. Perché il loro campo non è la politica, ma la cultura, le idee, l’ideologia. Gli altri, la gente, i votanti? Non esistono per i liberali. E il viziaccio pseudo aristocratico dura tuttora. Bisognerebbe, prima di eleggere un segretario PLI o PRI, vedere come sa volantinare nei mercati rionali, come scrive un comunicato stampa, come inizierebbe un articolo, come disegnerebbe un manifesto, quali fotografie ha da distribuire alla stampa.
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LE CONTRADDIZIONI DELL’EPOCA
E i liberali della oggi troppo osannata "Era Malagodi", e di quella immediatamente successiva, fecero errori grossolani. L’amico Lamedica ha ricordato un particolare che avevo dimenticato: l’atteggiamento morbido verso Pinochet. Non era bastato l’errore con Mussolini?
E poi, a parole eravamo contro il partitismo, ma loro piazzavano i giornalisti liberali alla Rai-TV, e altri rappresentanti in altri Enti e posti di sottopotere, come tutti. E, sia chiaro, non è che ci fossero geni, tutta gente normale, direi mediocre. Solo, presentata dal Partito. Chiunque abbia competenza giornalistica può assicurare che mai i giornalisti liberali, cioè presentati dal PLI o dal PRI, si sono distinti per alte qualità, tali da giustificare una segnalazione straordinaria, diciamo "di merito".
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NATURALE CHE UN VENTENNE ANDASSE VERSO LA VITA
E poi l’atmosfera polverosa, il conservatorismo, il pessimismo esistenziale, il provincialismo meschino, la scarsa cultura generale (non basta leggere Croce e Einaudi), lo snobismo retrò, che aleggiavano nei corridoi di via Frattina erano quanto di meno stimolante potesse esserci per chiunque avesse personalità, giovane o vecchio che fosse. E per un giovane di 20 anni, dai molti interessi, emigrare dai cupi, silenziosi, autoritari, ottusi e snob liberali verso i pazzi, estroversi, fantasiosi, crudeli, ma intelligentissimi radicali, anche se ugualmente autoritari, fu quasi un istinto biologico, un viaggio della salvezza. Si trattava soltanto di respirare. Se non altro era gente intelligente. Che sapeva comunicare. Almeno conoscevano, come me, non l'abc, ma addirittura l’azw della psicologia. Per avere persone così, centinaia di ragazzotti malvestiti e senza nome, in casa liberali avresti dovuto risalire fino a nomi noti di intellettuali, pubblicitari, giornalisti, filosofi e cattedratici.
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SCARSA DEMOCRAZIA? PERFINO TROPPE LE ASSEMBLEE RADICALI
Non capisco quindi di che cosa si lamentino ancor oggi, con tutti i propri errori, gli amici liberali a proposito di Pannella. Imputare ai soli Radicali la scarsa democrazia interna dei Partiti? Non abbiamo visto nel frattempo come si comportano i grandi, quelli che hanno responsabilità di Governo, cioè le liste personali di Berlusconi e Veltroni? Abbiamo contato quanti Congressi veri hanno tenuto FI e PD dalla loro fondazione? Certo, Pannella ha avuto l’idea di personalizzare il suo partito prima degli altri. Ci sarà cooptazione, è vero, come nell’attuale triade di donne al comando, ma almeno i radicali fanno fare al povero iscritto indigestione di assemblee, convegni, congressi, e di esercitazioni pratiche di democrazia, dove le regole sono certissime e minuziose. Sono perfino troppo precisi e pignoli. E sempre sotto gli occhi e le orecchie di tutti con Radio radicale e i video disponibili per chiunque. Certo, ora i Radicali non hanno opposizione interna, perché anche lì, la cooptazione dall'alto ha lavorato bene negli anni. E in più il carattere eroico, un po’ masochistico, del loro attivismo impaurisce gli aderenti. Ed hanno altissime quote associative. E chiamano a raccogliere firme o a visitare le carceri anche a ferragosto, a Natale e a Capodanno. E’ duro essere Radicali.
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UNA GALASSIA CHE VANTA MOLTI SUCCESSI
Ma, almeno, a parità di malcostume democratico interno, i radicali offrono soluzioni politiche e inventiva a non finire. Hanno inventato associazioni nazionali e internazionali che stanno cambiando la storia d’Italia e hanno addirittura indirizzato la diplomazia mondiale, come la "Ass. Coscioni per la libertà di ricerca scientifica", o "Nessuno tocchi Caino" (e proprio oggi, Giornata mondiale contro la pena di morte, sono loro i festeggiati in un Convegno di grande prestigio alla Camera).
E hanno antenne sensibilissime: non si imbarcano mai su una nave che farà acqua. Sono gli unici crudelmente intelligenti e geniali dell'intera galassia liberale, fatta di mezze figure, di personaggi scialbi e mediocri, di gente provinciale (parlo di ristrettezza di idee non di ubicazione dell'indirizzo), insomma di personaggi che non brillano per intelligenza e creatività.
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L’ INADEGUATEZZA DEI LIBERALI
I liberali, perciò, perdono non per il "destino cinico e baro" di Saragat, o per colpa di fantomatici anti-liberali, ma per la loro inadeguatezza culturale, psicologica, politica, pratica. Ci sono fondati sospetti perfino sull'intelligenza stessa del loro ceto politico e sociologico. Un mediocre, infatti, dove andrebbe mai a nascondersi, secondo voi: in un partito estremista, comunista o fascista, dove ti controllano ed esaminano ai raggi X, oppure dove con la scusa della libertà dell'individuo non si chiede agli iscritti nessuna "prova del fuoco" o testimonianza ideologica, e dove spesso non si parla neanche di politica?.
E infatti tutti i suggerimenti, tutte le mozioni, tutte le modernizzazioni - a cominciare dai loghi, le intestazioni, gli slogan - tutte le esortazioni per una svolta, tutti i programmi per una Grande Rifondazione con Stati Generali di tutti i liberali italiani d'ogni tendenza, cadono nel vuoto, anzi generano ironie. I liberali ormai, dopo una lunga selezione al contrario, sono vecchi dentro anche quando giovani fuori, all'opposto dei Radicali, giovani dentro anche quando, come oggi, sono vecchi, come il giovane vecchio Pannella.
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CON TUTTI I SUOI DIFETTI, NON C'E' UN LIBERALE MODERNO CHE ABBIA FATTO PIU' DI LUI
Pannella, è vero, come i liberali PLI e PRI che con grande faccia tosta lo criticano, non ha fatto nulla per unire tutti i liberali, in quanto il suo personalismo narcisista ha prevalso. Ma spetta proprio a lui riunire i liberali? Lui si mise in salvo, e dal PLI se ne andò da giovane, come molti di noi (io, però, sono tornato alla doppia tessera ideale). E oggi, come non capirlo: in una ipotetica troika a capo di tutti i liberali unificati, con tutti i moderati o conservatori sedicenti liberali che ci sono in giro, pensate voi che uno come Pannella avrebbe qualche possibilità di esserci? Parliamoci chiaramente, andando di questo passo nella deriva reazionaria e clericale, chi pensate che ci troveremmo un giorno come portavoce unico dei Liberali Uniti? Meglio non scriverlo neanche.
Quindi, per favore, non spariamo proprio sull’unico di noi che ha fatto qualcosa per la libertà delle idee e per la giustizia liberale in 40 anni di vita politica italiana. Critichiamolo, punzecchiamolo amichevolmente, certo, ma nelle grandi scelte appoggiamolo senza se e senza ma. Perché con tutti i suoi difetti caratteriali e i suoi piccoli errori politici, era, è e resta il migliore di tutti noi.

09 ottobre, 2008

 

La Corte sul caso Englaro: no allo Stato etico che tutto prevede, sì alle libertà

Anche sui vecchi manuali Bignami per i licei c’era scritto che se uno Stato si preoccupa di indicare in una serie lunghissima e minuziosa tutti gli atti che si possono o non si possono compiere lecitamente, perfino nel campo morale individuale, delineando di fatto un vero e proprio paradigma di comportamenti ammessi, cioè i valori assoluti da rispettare coattivamente, vuol dire che nell’ordinamento non esiste libertà. E' lo Stato che si autodefinisce "etico", perché l'etica è di Stato, cioè imposta a tutti con la forza delle leggi da una ristretta élite. Insomma, saremmo, ahinoi, in presenza di uno Stato totalitario e onnipresente, autoritario e oppressivo, che con la scusa di esserci paternalisticamente d’aiuto tenterebbe di prevedere tutto il possibile. Nulla di nuovo potrebbe inventare il cittadino. Non ci sarebbero nuovi diritti, insomma la libertà.
Al contrario, nel sistema liberale è il cittadino stesso a determinare per sé gli obiettivi e i valori della propria esistenza. E’ l’individuo che nell’ambito delle generali norme penali e civili, disegna un suo proprio percorso individuale, fatto di scelte continue lungo i decenni della propria vita, che rende la vita di ognuno di noi diversissima da quella degli altri. E, per analogia con l’ecologia, dove è bello e fruttifero l’ambiente in cui regna la varietà biologica, perché specie e individui competono tra loro, lottano magari, ma si completano anche, e interagiscono, così nella società risulta altamente positiva e tende al maggior tasso di benessere e felicità complessiva la diversità di usi, valori, comportamenti, atteggiamenti e credenze tra i singoli individui o gruppi.
Queste considerazioni, risapute per ogni liberale, rischiano però di sembrane eterodosse ai conservatori nostalgici dello Stato Etico che tutto prescrive, dirige, vieta, o appositamente consente. Con l'aggravante tutta italiana, che nel Bel Paese l'etica di Stato finisce per essere, in tempi di clericalismo strisciante della nostra classe dirigente, l'etica dello Stato della Città del Vaticano, cioè della Chiesa cattolica. Una posizione ben rappresentati dal sen.Quagliariello a nome della maggioranza, sull'inquietante vicenda di Eliana Englaro, la donna ormai morta (encefalogramma piatto) ma tenuta artificialmente in vita - una non-vita puramente vegetativa - che secondo l'etica interpretata dalla Chiesa bisognerebbe continuare a lasciare prigioniera di una macchina che pompa il sangue.
Il caso Englaro, come se non bastasse, ha provocato un attrito bizantino tra poteri e organi dello Stato, che ha visto la curiosa contrapposizione tra i giudici e il Parlamento italiano, per decidere chi dovesse decidere sul caso. L'ennesimo sintomo di una decadenza inarrestabile dell'ordinamento e della politica in Italia. La Corte Costituzionale, che si è pronunciata ieri [si veda l’articolo sul Corriere], era stata chiamata a dirimere un conflitto di attribuzioni che ha del surreale. Sui risvolti politici e ideologici della vicenda, ecco il commento di Raffaello Morelli della Federazione dei Liberali:
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"Nemmeno di fronte alla decisione della Corte Costituzionale di dichiarare inammissibile il conflitto di poteri sollevato dalle Camere nei confronti della Magistratura sul caso Englaro il sen.Quagliariello, vice capogruppo del Popolo della Libertà al Senato, riesce a ricuperare una concezione liberale dei rapporti tra il cittadino e la legge. Per lui la Corte Costituzionale sarebbe pilatesca perché non impedisce alla Magistratura di giudicare ogni specifico caso nel quadro delle leggi esistenti: dovrebbe poter giudicare solo sui casi espressamente regolati dalle leggi. Questo è il principio dello Stato etico non dello stato liberale. Nello stato liberale la Magistratura può sentenziare legittimamente alla luce dei valori e dell’organizzazione generale del sistema costituzionale anche in mancanza di leggi espressamente regolatrici della materia specifica.
"Lo scorso luglio i liberali [la Fed-Lib, NdR] avevano scritto ai singoli parlamentari per invitarli ad esprimere un voto negativo sulla proposta del Popolo della Libertà di sollevare questo conflitto. Non fummo ascoltati, ma avevamo costituzionalmente ragione. Solo in uno Stato Etico un cittadino può fare solo quello che una norma di legge gli consente in modo esplicito. Così la comunità può fissare i comportamenti "giusti" di ogni cittadino, imponendo all’individuo di conformarsi all’identità collettiva. La convivenza è ridotta ad una sorta di habitat computerizzato in cui ognuno può fare solo quello che è previsto faccia nel programma di avvio. Per fortuna , la vita non funziona così, essendo aperta alle più strepitose evoluzioni. Perciò, in occidente, le leggi non partono da una simile pretesa comunitaria. Le leggi (modificabili attraverso dibattito e partecipazione ) imperniano i rapporti di convivenza sulla libertà di ognuno e, scontando la conseguente variabilità e imprevedibilità, stabiliscono che un cittadino possa fare tutto ciò che non è vietato. Di più, per rafforzare questa impostazione ed evitare chiusure politico ideologiche, separano il governare e il fare le leggi dal valutare l’applicazione delle leggi vigenti , in modo appunto che sia un altro organo dello Stato a valutare se il modo di vivere la propria libertà violi in qualche modo la libertà altrui o altre leggi.
"Con questo istruttivo precedente, anche quando i parlamentari esamineranno la legge sul testamento biologico, dovrebbero tener presenti i principi di una concezione liberale della convivenza. All'individuo cittadino occorre lasciare la possibilità di autodeterminarsi e di dare le direttive anticipate ai medici per il caso di gravi danni che impedirebbero di esprimere al momento la propria volontà sui trattamenti di sostegno estremi. Insomma, l'autodeterminazione deve valere sempre, a meno che un imprevedibile progresso scientifico abbia nel frattempo mutato i termini del problema. Invece vi sono troppi politici che, volendo contentare una certa gerarchia, vorrebbero una legge sul testamento biologico che affidi al medico un ruolo centrale di vaglio e di decisione, al di là della volontà dell'interessato, dando all'esecutore testamentario la possibilità di agire come gli pare e non secondo le volontà del testatore.
"E' indispensabile – conclude il Comunicato della Fed-Lib – applicare sempre il principio costituzionale della libertà del cittadino. Chi non vuol farlo non è liberale e deve essere avversato senza tregua dai liberali".

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