30 aprile, 2017

 

Gramsci. Grande uomo col limite d’una ottusa ideologia, colpito da fascisti, Pci e gramsciani.


GRAMSCI E LA VULGATA “GRAMSCIANA” 
Pochi, a ottant'anni dalla sua scomparsa, ricordano che il pensatore cercò anche di contrastare lo stalinismo di Togliatti. Ma dopo la sua morte, alcuni suoi estimatori e apologeti, specialmente torinesi, con l’intento di costruirne il Mito, a forza di retorica, conformismo culturale e intolleranza, hanno finito per danneggiarlo. 
di Pier Franco Quaglieni *

Sono passati ottanta anni dalla morte di Antonio Gramsci in una clinica romana dopo lunghi e terribili anni di prigione nel carcere di Turi che ne avevano minato il fisico. Chiunque abbia vissuto quell’esperienza drammatica, scontando la coerenza delle sue idee, merita rispetto, anzi ammirazione. Sandro Pertini che fu suo compagno di carcere, ha testimoniato della  sua altissima dignità e delle sofferenze  vissute da Gramsci. Sicuramente Gramsci è stato una “figura dell’Italia civile ” che ricorderò nel secondo volume del mio libro che uscirà il prossimo anno.
      Un conto è Gramsci e un conto sono i gramsciani, in particolare quelli torinesi. Torino è profondamente legata al nome di Gramsci che nella nostra città ha lasciato il segno della sua opera come giovane socialista, direttore dell’”Ordine Nuovo”, animatore dei Consigli operai alla Fiat nel 1920 e fondatore dell’”Unità”. Ci fu addirittura chi non voleva che nell’edificio in cui abitò in piazza Carlina fosse creato un albergo, che era visto come una dissacrazione di quel luogo. Esagerazioni  assurde, sia perché a Roma nella casa che Gramsci abitò da parlamentare, era da tempo operante un albergo, sia perché la proprietà dell’edificio, per calmare le acque, vi ospitò anche l’Istituto Gramsci che ha una succursale, in effetti assai poco frequentata, in Via Maria Vittoria, angolo via San Massimo. Torino si è distinta più di ogni altra città nelle commemorazioni, in particolare presso il Polo del ‘900,vera e propria cittadella della cultura a senso unico, in cui l’egemonia dell’Istituto “Gramsci” è colta persino dagli stessi ospiti del Polo.

Il valore dell’eredità gramsciana sotto e oltre la Mole

Benedetto Croce, leggendo le sue “Lettere dal carcere “nel 1945, disse alle figlie che Gramsci “era uno dei nostri” proprio per l’afflato umano che le lettere dimostravano e che restano il suo capolavoro, mentre i “Quaderni” rivelano vistosamente i limiti del tempo e l’angustia ideologica  dell’analisi gramsciana.
      A 80 anni dalla sua morte, abbiamo assistito nella nostra città  all’organizzazione di solenni messe cantate in suo onore e al lancio di biografie che sono delle vere e proprie agiografie scritte da vecchie  zie del gramscismo nostrano con conseguenti  recensioni acriticamente osannanti da parte di nipoti, se possibile ancora più  faziosi dei maestri.
      Le parole forse possono sembrare troppo aspre e persino ingiuste, ma chi conosce da vicino la situazione sa che non sono esagerate. La solita vulgata gramsciana torinese è diventata davvero un po’ insopportabile perché le vecchie zie e qualche nipote prediletto non vogliono capire che il pensiero politico di Gramsci è morto da decenni e che ,a voler essere generosi, egli  è un pensatore inattuale, datato, superato. C’è chi pretende di imporre la sua “verità”, invocando un “ipse dixit“ abbastanza arbitrario. Non sono riuscito a leggere di un incontro criticamente e fondatamente storico che poi sarebbe anche il modo migliore per ricordare un uomo come Gramsci. Gramsci amava la storia e di questo amore scriveva dal carcere al figlio Delio, esortandolo a studiarla.

Il caso Orsini, Andrea Viglongo, il “gramsciazionismo” torinese

Nicola Matteucci che conseguì la seconda laurea con una tesi su Gramsci  riteneva il suo pensiero appiattito sull’ideologia marxista. Matteucci mi disse che Gramsci era un agitatore politico  piuttosto  fanatico che incitava alla contrapposizione violenta e intollerante :l’esatto opposto di Filippo Turati che ,non a caso, venne considerato un traditore della causa del socialismo. Alessandro Orsini pubblicò nel 2012 il bel saggio, molto documentato, ”Gramsci e Turati. Le due sinistre” edito da Rubettino. Non fu possibile presentarlo a Torino perché il linciaggio subito dall’autore da parte di alcuni studiosi torinesi, creò un clima che impedì ad altri studiosi di accettare di presentare il libro.
      Lo stesso autore si rese conto della situazione che si era determinata e che ancora oggi appare quasi surreale, se non fosse assolutamente vera. Orsini a Torino venne letteralmente messo all’Indice. Bobbio sottolineava come Gramsci fosse perfettamente allineato col marxismo-leninismo, una prospettiva politica violenta, giacobina, anche sanguinaria  che la dura lezione della storia ha travolto. Dopo la caduta del Muro di Berlino non si può più ragionare come prima. Pochi ricordano invece che Gramsci cercò anche di contrastare lo stalinismo di Togliatti, pagando tragicamente il proprio dissenso: incarcerato dai fascisti e perseguitato dai comunisti. Come ha ricordato e documentato Giancarlo Lenher ,in un bel libro sulla famiglia Gramsci in Russia, i suoi figli non fruirono neppure dei diritti d’autore delle sue opere che vennero incamerati dal Pci.
      Andrebbe invece ricordato il redattore capo dell’”Ordine Nuovo”, Andrea Viglongo, il futuro straordinario editore  di grandi  autori piemontesi fino ad allora assai  poco valorizzati. Viglongo capì dove portava il gramscismo e scelse altre strade con coraggio. Gobetti morì e non possiamo sapere quale sarebbe stata la sua scelta definitiva e come avrebbe risolto l’ossimoro del suo liberalismo rivoluzionario e del suo rapporto con Gramsci che sembrava aver prevalso rispetto ai maestri della sua giovinezza. Giustamente il gobettiano Carlo Dionisotti sottolineò l’ossimoro gobettiano, dicendo che i liberali di norma  non sono rivoluzionari ma riformisti e i rivoluzionari sono invece, di norma, profondamente illiberali, se non proprio nemici della libertà. Sappiamo invece dove portò in termini di faziosità quello che Dino Cofrancesco, attirandosi l’odio ideologico di tanti intellettuali torinesi, Bobbio escluso, definì il gramsciazionismo.
      La miscela di intolleranza e di sudditanza ideologica, di servilismo al Pci e di ottusità nel non denunciare le aberrazioni del comunismo russo e di quello internazionale ebbe su Torino effetti che resero l’aria irrespirabile nelle case editrici ,nell’ateneo, nei giornali, in molte realtà culturali. Augusto Monti scrisse addirittura che il nuovo partito liberale era il Pci. La vedova di Gobetti, affettuosamente protetta da Croce durante gli anni della dittatura fascista, divenne vicesindaco di Torino in una Giunta egemonizzata dai comunisti ed essa stessa finì per ruotare attorno al Pci, come fece il “liberale” Franco Antonicelli diventato senatore della “Sinistra indipendente” eletto con i voti del Pci. Solo lo storico Raimondo Luraghi, medaglia d’Argento al V.M. durante la Resistenza, ebbe il coraggio di abbandonare quella compagnia e non poté mai insegnare a Torino, lui massimo storico militare, erede di diritto alla cattedra di Piero Pieri. Con un certo orgoglio ricordo che nella motivazione di un piccolo premio a me conferito a Palermo nel 2000 si parlava di “feroce egemonia gramsciana torinese”, riferendosi  non a Gramsci, ma ai suoi eredi.
      Quella egemonia è ancora feroce, anche se “Le ceneri di Gramsci”, per dirla con un titolo di Pasolini del 1957, sono diventate polvere.
*Direttore del Centro Pannunzio

Grazie a C.Bussola, direttore del sito “Il Torinese” su cui l’articolo originario è apparso il 30 aprile 2017, per aver consentito la pubblicazione.

IMMAGINI. 1. Ritratto murale di Gramsci con un suo celebre motto (pittore Solo, borgata del Trullo, Roma). 2. Il settimanale L'Ordine Nuovo, diretto da Gramsci.

09 aprile, 2017

 

Sartori, il fiorentino. Portò la scienza politica all'Università; ma lo tradì la troppa vis polemica.

Poteva non piacere al largo pubblico, anzi, piacere troppo, soprattutto in vecchiaia, quando tutti i vizi si amplificano, per i giudizi caustici da grande polemista, che poi era la sua vera, unica tendenza naturale. Ma piaceva molto ai giornalisti, che pur subendo vistosamente il “timor reverentialis” verso le tre famose corporazioni di clerici (docenti, magistrati e medici: le uniche corporazioni di fronte a cui quella dei giornalisti ammutolisce), non sopportano i docenti universitari, cavillosi divisori di ogni capello in quattro e incapaci di prendere posizione e decisioni pratiche. Per loro, anzi, era l’esperto ideale, capace da solo e in modo ineccepibile di vivacizzare un articolo di fondo o un’intervista, grazie alla ostentata carica aggressiva toscana.       Ecco perché era sempre in tv o sui giornali, trasformato ormai da studioso in brillante commentatore politico, insieme arbitro e giocatore, sempre chiaramente di parte.
      Si sa, è il vizio segreto di tutti gli Universitari: essere conosciuti e popolari al di fuori dell’Università, perfino a costo di perdere un po’ del proprio prestigio di studiosi. Furono proprio l’ironia e il sarcasmo, di cui si nutriva a fiotti come  a fargli coniare neologismi giornalistici dissacranti come “mattarellum” e “porcellum” (due diversi metodi elettorali).
      Liberale classico, laicista e anticlericale, laureatosi curiosamente con una tesi su “Croce politico”, perfino più di Croce convinto che lo studioso della Polis e del Logos dovesse avere passione ed esprimere idee e fare scelte pratiche da indicare al pubblico. 
      Fautore, però, a differenza di Croce di una irrealizzabile “razionalità” della Politica e di un illuminismo dell’agire sociale che non teneva conto né della particolare storia italiana, né del carattere inevitabilmente regressivo e irrazionale delle masse, Sartori si trovò necessariamente in disaccordo profondo sia con la cosiddetta Sinistra (ovviamente non poteva che essere anticomunista, quando esisteva ancora il Comunismo), sia con la cosiddetta Destra, anche e soprattutto quella di Berlusconi, padre padrone inesperto di politica e per di più in flagrante conflitto di interessi. Era inevitabile che assumesse ben presto il ruolo del “maestro” di fronte agli allievi discoli e ignoranti, tanto più che accusava la società moderna di aver favorito una decadenza culturale disastrosa, tanto più quanto più diminuiva il ruolo della parola scritta in favore delle tecniche della visione.
      Insegnò tutta la vita in Italia e negli Stati Uniti. Preside della famosa Facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri, a Firenze, fondò la Rivista italiana di scienza politica,  e pubblicò numerosi saggi e manuali tradotti in numerose lingue, scrisse di continuo sui giornali (soprattutto sul Corriere della Sera).
      Negli anni della maturità arricchì i propri interessi occupandosi anche di ambientalismo, fustigando la Destra che non capiva la limitatezza della Terra e la drammatica attualità dell’inquinamento, come anche della sovrappopolazione in Asia e in altre aree, cause non ultime di quella invasione di immigrati, per lo più islamici, che avrebbe finito – era la sua preoccupazione costante – per snaturale la società europea («Ci stanno invadendo: integrare l’Islam è un’illusione»). E questo lo poneva in conflitto deciso anche con i cattolici e la Sinistra.
      Una posizione culturale, insomma, quella di Sartori politico, che non possiamo non condividere in pieno.
Che resterà di lui nella storia della cultura “politologica”? Intanto il nome stesso della disciplina. Nell'Italia delle grandi Istituzioni giuridiche pubbliche (è il lascito degli antichi Romani al Mondo intero) e poi di Gucciardini e Machiavelli, ma anche patria della teoria delle élites politiche (“scienza italiana”, grazie a Mosca, Pareto e Michels), Sartori ha avuto almeno il merito di riportare al centro della cultura istituzionale e sociale la "scienza della politica", di averne fatta una specializzazione accademica, e anzi di averne diffuso – per primo – il nome.
      Avrebbe dovuto esercitare vita natural durante il ruolo dello scienziato “politologo”, avendo posto le basi teoriche della disciplina in Italia, ed essendo considerato da tutti un “maestro” sia pure carismatico. Peccato, però, che troppo sicuro di sé, volesse strafare, e amasse cadere – era più forte di lui, tanto era fiorentino – nei giudizi di valore e nel tono “tranchant”, come pure è capitato a tanti liberali, moderati in gioventù e iconoclasti in vecchiaia. 
      Si poteva pensare in quelle occasioni che gli difettasse la terzietà, quello spirito della avalutatività che il grande Max Weber riteneva essenziale al rigore dell’intellettuale studioso di scienze sociali.
      Così, troppo a lungo sopravvissuto a se stesso (è scomparso a 92 anni), ha finito dalla tarda maturità, soprattutto nelle interviste e nei suoi articoli di giornale, per essere visto suo malgrado più come un commentatore anticonformista dell’attualità che criticava tutti - Destra, Centro e Sinistra - una sorta di burbero libero pensatore della politica, spesso fantasioso e visionario, piuttosto che come uno studioso neutrale.

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