15 settembre, 2016

 

Longanesi maestro di idee editoriali ed esteta, conservatore e anarchico, italiano anti-italiano.

Dopo sessant’anni dalla sua scomparsa, che cosa resta di Leo Longanesi? Quali critiche, quali apprezzamenti noi Liberali possiamo fare sulla sua personalità versatile, mobile, contraddittoria, raffinata, anzi estetizzante, elitaria con punte di narcisismo fastidioso, troppo individualistica, critica, certo, ma capricciosa, eppure talvolta corriva, complice, anche se a suo modo moralistica? Perfino al suo carattere “volubile e umorale” accennava Pannunzio nel necrologio sul Mondo, per spiegare come mai il settimanale che parecchio doveva al maestro Longanesi per nove anni non lo avesse mai citato (cfr. articolo di Nello Ajello). E’ forse proprio per questa congerie di pregi e difetti che Longanesi è stato un personaggio molto, troppo italiano? Resta un personaggio sfuggente e lontano da noi, ma quanto intrigante!
      La verità è che Longanesi non è paragonabile a nessun altro italiano famoso. Anche se ci inventiamo raffronti con altri conservatori brillanti e ugualmente “capaci di tutto” nel campo del giornalismo, dell’editoria e della politica. A meno che non vogliamo prendere in considerazioni singolari analogie – compresi i titoli di alcuni libri – con la figura di un altro critico versatile e brillante, il francese contemporaneo Boris Vian. Ma ogni accostamento a intellettuali o giornalisti odierni, finisce per nobilitare immeritatamente questi ultimi e per banalizzare troppo il fondatore dell’omonima casa editrice e di giornali che hanno fatto epoca e rappresentato l’evoluzione del costume in Italia: Omnibus, L’Italiano, Il Borghese.
      Perché Longanesi è stato unico nel panorama culturale ed editoriale del Novecento. Insieme editore, giornalista, corsivista, polemista implacabile, critico di costume (specie della piccola borghesia, alla quale del resto apparteneva), creatore di aforismi pungenti e veritieri, inventore di neologismi, intervistatore e intervistato, raffinatissimo ed elegante cultore della lingua, disegnatore, art director, impaginatore. Insomma, da solo avrebbe potuto riempire un’intero fascicolo di settimanale, e non è escluso che con vari pseudonimi lo abbia fatto. Al confronto, gli editori e i collaboratori di giornali politici e culturali precedenti e successivi – tranne i grandi Gobetti, Einaudi e Prezzolini, che al contrario di lui avevano anche grande capacità di astrarre e teorizzare seriamente, specie i primi due, non per caso liberali – ci appaiono delle formiche ottuse dedite esclusivamente al cibo (lo stipendio). Mentre perfino i pochi grafici e disegnatori capaci di ragionamento non alzano mai il capo dal foglio per osservare la realtà e trarne idee generali, tanto meno per insegnare. Un luogo comune malevolo che girava nelle Redazioni agli inizi dell’informatizzazione dei giornali (anni Novanta) diceva che i grafici, come i fotografi, erano i “parenti scemi” dei giornalisti. La successiva decadenza del giornalismo e dell’editoria ha dimostrato invece quanto la crisi di idee e professionalità abbia raggiunto tutte le categorie addette alla parola scritta, nessuna esclusa. 


      In apparenza e anche nella sostanza Longanesi non c’entra nulla con la cultura liberale, anzi, spesso è agli antipodi. Con la sua perfida lingua ha stroncato impietosamente, da par suo, non pochi liberaloni. E alcuni se lo meritavano. Eppure, ora a sessant’anni dalla scomparsa tutti lo esaltano, perfino La Repubblica (dove, anzi, secondo una intervista al sopravvalutato Buttafuoco, il noto “giornalista di Destra che piace alla Sinistra” – contenti loro... – si anniderebbe addirittura “il più longanesiano dei giornalisti di oggi”, tale Merlo). Come hanno fatto con Montanelli e Pannunzio, non per caso suoi allievi, tutti ora si dicono “longanesiani”. 
      Perfino noi Liberali ipercritici perennemente con la puzza sotto al naso siamo stimolati da tutta una serie di collegamenti e memorie di scritti (articoli e libri) letti su Longanesi negli ultimi anni. Questo Longanesi, insomma, non era liberale, ma si trovava – com’è, come non è – sempre in mezzo a liberali. Ma era in mezzo a tutto, si può obiettare, preso dalla furia del vivere intensamente. Fatto sta che in più di 50 anni, qualunque cosa si leggesse sugli anni 40-50 del Novecento, anche di autenticamente “liberale”, “laico”, “fascista” o “antifascista”, ce lo trovavamo sempre davanti, citato, criticato, fatto a pezzi, rivalutato, esaltato, santificato dai più insospettabili: Pannunzio e Savinio, Prezzolini e Montanelli, Benedetti e Moravia, Ansaldo e Cajumi ecc.
      Eppure scrisse poco. Come i veri maitres à penser, sostiene qualcuno. Più di Pannunzio, comunque. Ma in compenso fece scrivere gli altri, "levatrice" di molti geni, maestro maieuta non solo di giornalismo, ma anche di grafica editoriale, anzi di “buon gusto” (oh, che virtù reazionaria!), e dunque di critica, e perciò, se tanto mi dà tanto, di “pensiero” per moltissimi intellettuali. Così, molti ne salvò, altrettanti ne traviò; parecchi lo ringraziarono, ma altrettanti lo tradirono. Come forse si meritava, del resto. Ma in tutti inoculò il dannosissimo virus della critica e del dubbio, dannosissimo per la loro carriera, s’intende. Al punto che parecchi sotto il Fascismo da fascisti li fece diventare antifascisti (p.es. Arrigo Benedetti); altri in tempi di democrazia tentò, spesso invano per fortuna, di farli diventare da antifascisti fascisti.
      Sì, ma non chiamiamolo opinion maker, per favore. Era molto di meno e molto di più d’un suggeritore per le folle, categoria sociologica che da buon ultra-conservatore disprezzava. Se proprio dobbiamo usare un termine inglese, che lui avrebbe odiato, fu un intellettuale “indoor”, d’interni, cioè al chiuso delle Redazioni. Perciò noto solo agli addetti ai lavori: coloro che a vario titolo scrivevano. Sono stati loro a farne un mito, e che mito! Addirittura l'inventore del primo settimanale popolare o “rotocalco”, come si diceva allora per via del nuovo metodo delle rotative, a cui genialmente impresse un metodo comunicativo, uno stile, un’estetica, dei caratteri, dei grafismi nuovi, stringati, essenziali, molto novecenteschi, rimasti nell’immaginario collettivo degli esteti, di Destra e di Sinistra, come il meglio dell’editoria, soprattutto nel Borghese.
      In chi come me, poi, e mi scuso per l’aneddotica personale, fin dall’adolescenza aveva la passione per il disegno, i caratteri tipografici, la grafica e l’estetica di giornali e libri, fin da quando al liceo classico Tasso di Roma da giovane liberalino presuntuoso credevo che il grande Leo fosse solo un “volgare fascista” chissà perché sopravvalutato, la sua figura mi appariva comunque grande per motivi non culturali né politici, ma puramente “tecnici”, come un innovatore, il maestro indiscusso dell’arte di mettere insieme i contenuti (le idee degli articoli) e la loro cornice formale più adatta. Quella nuova arte grafica e impaginatoria applicata al giornalismo e all'editoria che era cosa così tipicamente novecentesca.
      La stessa arte che si era già insinuata perfino nell’austero pensatore e topo di biblioteca Croce, quanto di meno longanesiano sia esistito sulla Terra, e però un antesignano unico e inarrivabile sia come “titolista” che sforna titoli di per sé stessi capolavori acrobatici (La Storia ridotta sotto il concetto generale dell’Arte, Contributo alla Critica di me stesso, Teoria e Storia della Storiografia, La Storia come Pensiero e come Azione, Perché non possiamo non dirci Cristiani ecc.), sia come dosatore bilanciatissimo ed esteta perfezionista di caratteri, carte e colori di copertina. Un genio premonitore non solo di stile e lingua italiana, ma perfino di estetica grafica. Pochi lo dicono.
      Ecco, Longanesi portava a maturità l’estetica del giornalismo e dell’editoria del Novecento. Fatto sta che quando a diciott’anni ebbi l'incarico di disegnare la testata gobettiana "Energie Nuove" della Gioventù Liberale, lo feci completamente a mano creando un carattere tutto mio e un po' imperfetto, appunto "alla Longanesi", visto che le lettere a ricalco Letraset, allora il meglio, costavano un occhio della testa, e il Partito Liberale non mi dava una lira di rimborso.
      Ma Longanesi era talmente versatile che si occupava di tutto, e in primo luogo sapeva scegliere al volo i bravi scrittori e giornalisti, a cui elargiva famosi consigli e battute fulminanti che poi per decenni avrebbero costituito un corpus apologetico-denigratorio – a seconda dell’ideologia acquisita dai suoi allievi – d'immensa mole, passato ormai nel proverbiale.
      Certo, cinico era cinico, critico era critico, geniale era geniale, creativo anche; insieme ingenuo, visionario e iperrealista, perfino eternamente giovane, provocatorio, ludico e goliardico (fosse stato mondano alto e bello, sarebbe stato il perfetto Boris Vian italiano), sempre a suo modo onestissimo e “coerente” alla propria incoerente ideologia del momento, sempre però liberamente scelta e in coraggiosa, masochistica controtendenza rispetto alla società. Perché era lui, l’umorale, l’incoerente, non il severo Prezzolini, l’italiano medio: un “uomo contro”. Contro il Potente del momento secondo il ritratto che Montanelli andava facendo dell’italiano tipico, buono a incensare chi sembra prevalere, per poi non buttarlo giù dal palco ai primi insuccessi, ma vigliaccamente schiacciarlo col piede quando già è caduto a terra.
      Italiano, addirittura troppo italiano per piacere oggi, anche a chi come me ha sempre rifiutato la “fronda” e la critica individualista e “anarcoide” come prezzo non detto e non nobile da pagare al sostanziale conformismo dell'Homo italicus, quello famigerato del “Franza o Spagna”, della Destra e Sinistra che si equivalgono, degli accomodamenti retorici, del “qui lo dico e qui lo nego”, dei Fascisti e Antifascisti che sotto-sotto sono uguali, delle furberie e delle acrobazie intellettuali che dovrebbero dimostrare che comunque vada si ha sempre ragione, senza mai chiedere scusa (cfr. su giochi di parole e fascismo-antifascismo Pannella, molto longanesiano, e non solo perché citava sempre la famosa invettiva “Buoni a nulla, ma capaci di tutto”). Quindi italiano tipico mentre si definiva “anti-italiano” (un vizio classico dell’italianità perversa).
      Mentre, “anti-italiano” per eccellenza, se permettete, me lo dico da solo, ma non alla Prezzolini o alla Longanesi. All’opposto, per misurare la distanza dal famigerato cinico conservatorismo, lo “stare a guardare” degli Italiani di qualsiasi idea, compresa quella della fronda o della perenne critica distruttiva e anarcoide del Potere, qualunque Potere. Come scriveva il Poeta, è facile, comodo, rimirare cinicamente, sereni ed esteti perché al sicuro sulla placida sponda, il mare procelloso e la barca all’orizzonte che sta per essere sommersa dai flutti. Più difficile per l’italiano medio, Longanesi compreso, è la fermezza delle idee, la costanza dell’impegno etico e politico. E invece, ci vantiamo tutti dell'italianità – e guai a chi la tocca, ed è un bene – su Arte, Natura e Storia (laddove dignitosa), insomma sulla Cultura, sia culturalista sia antropologica (p.es. il cibo).
      Perciò confesso anch'io perfino sul tema Longanesi, quella tipica duplicità, doppiezza, ambivalenza, sfaccettatura (chiamatela come volete) che pare essere un vizio-virtù tipicamente liberale, come concordavamo in uno scambio di lettere con Livio Ghersi tempo fa. E questa duplicità può riguardare non solo la personalità (cioè idee e cultura) ma anche il carattere (le tendenze immodificabili). Perciò, abituati ad avere di ogni cosa almeno due visuali diverse, noi liberali siamo forse i più adatti per metodo razionale e temperamento a interpretare i personaggi incoerenti e doppi, insomma difficili. E dunque, quanto lo capisco, pur criticandolo, questo maledetto-benedetto, fascista-antifascista Longanesi! E non sono il solo: anche il grande liberale Pannunzio, come si è visto, dava questo doppio giudizio. «Genio e cialtroneria» ha sintetizzato troppo severamente un altro provocatore, Paolo Isotta, mentre sarebbe bastato il ludico e il goliardico come per Vian. Ma così ha crudelmente impersonato la terribile Nemesi contro chi, a parole, si era sempre speso contro la cialtronaggine degli Italiani.
NICO VALERIO


MEGLIO LUI DI MALAPARTE; MA NON ENTRA NEL PANTHEON DEI MIEI PREFERITI.
di Livio Ghersi


Proprio quest'estate sono stato indotto ad occuparmi di Leo Longanesi leggendo il libro a cura di Pietrangelo Buttafuoco (Longanesi, 2016). Nella copertina si annunciava la ricorrenza dei primi 60 anni dalla morte, ma, in realtà, questa si verificherà l'anno prossimo, dal momento che Longanesi è morto il 27 settembre 1957.
      Il libro non mi ha soddisfatto, perché Buttafuoco si è limitato a scrivere una trentina di pagine introduttive e poi tutto il resto è una raccolta antologica di brani di Longanesi. Ho letto, quindi, con molto più gusto il libro scritto da Montanelli e Staglieno "Leo Longanesi" (Rizzoli, 1984), che ricostruisce, penso abbastanza bene, la vita e le opere di Longanesi medesimo. Molti anni prima avevo letto: "In piedi e seduti (1919 - 1943)", "Parliamo dell'elefante. Frammenti di un diario" e "Ci salveranno le vecchie zie?". Quest'ultima lettura era stata preceduta da una lunga ricerca del libro, che inizialmente non riuscivo a trovare, ma che tenevo a leggere, per stabilire un confronto con "Vecchie zie ed altri mostri" di Giovanni Ansaldo, che mi era molto piaciuto.
      Longanesi era onesto ed onestamente ricostruisce come un giovane italiano del 1905 sia diventato fascista. Dico meglio, fascista convinto ed arrabbiato, teorico delle virtù educative del manganello. Era la prima fase, quando si è giovani ed il sangue ribolle. Resta però nel lettore una sensazione di sgradevolezza; ad esempio, nei giudizi espressi dal fascista Longanesi nei confronti di Piero Gobetti.
      Poi la ricostruzione del lungo rapporto di amore-odio nei confronti di Benito Mussolini, anche lui romagnolo. Longanesi era troppo intelligente per non diventare progressivamente insofferente nei confronti della retorica del regime; non poteva fare a meno di farsi beffe della stupidità di tanti gerarchi. Divenne quindi frondista e, poiché, seguendo la propria indole, era portato a creare periodici e riviste, dovette sempre lottare per riuscire a pubblicare, aggirando la censura del regime. Dopo la caduta del fascismo e la morte di Mussolini, Longanesi scoprì che, a differenza di quanto faceva tranquillamente la stragrande maggioranza degli Italiani del tempo, non riusciva a diventare "antifascista". Per un'esigenza di rispetto nei confronti di ciò che lui stesso era stato, ossia per onestà intellettuale; ovvero, per un naturale ed insopprimibile anticonformismo.
      Nell'esperienza della rivista "Il Borghese", alla quale collaborarono attivamente anche Giovanni Ansaldo ed Indro Montanelli, convivevano un onesto punto di vista conservatore che, in quanto tale, ha pieno diritto di cittadinanza in una democrazia liberale, ed uno scetticismo di fondo nei confronti delle magnifiche sorti e progressive della repubblica democratica. C'era, oggettivamente, un'ambiguità nel rapporto con le istituzioni democratiche.
      Ciò spiega perché "Il borghese" divenne un punto di riferimento culturale per tutto l'ambiente italiano che non voleva rinnegare il fascismo e che oggi diremmo post-fascista. Spiega anche l'ostracismo dei liberali come Mario Pannunzio, il quale pure tanto doveva a Longanesi.
      In conclusione. Scrittori brillanti come Longanesi, ma anche Ansaldo (il quale, invece, nella prima metà degli anni Venti era antifascista e grande amico di Gobetti) e Montanelli, vanno letti, in primo luogo perché maestri della lingua italiana. C'è sempre da imparare da persone intelligenti e di genio. Umanamente, preferisco di gran lunga un uomo integro, con tutti i suoi difetti, quale fu Longanesi, a personalità come Curzio Malaparte, tanto cinico e disinvolto da poter aderire al PCI di Togliatti. Per il resto, dal punto di vista della costruzione di un pensiero politico-ideale animato dall'esigenza di libertà, io non metto Longanesi nel Pantheon dei miei Autori preferiti.
LIVIO GHERSI


IMMAGINI. 1. Leo Longanesi. 2. Al tavolo di lavoro mentre disegna. 3. Longanesi in via del Corso a Roma con Moravia (al centro) e Albonetti nel 1940.

AGGIORNATO IL 16 SETTEMBRE 2016

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