20 dicembre, 2008

 

E se abolissimo le Regioni, anziché le Province? È lì che si nasconde il marcio.

L’Italia è densa di Storia, d’arte e di bellezze naturali, certo, ma come estensione è un piccolo Stato. Con i suoi 301 mila chilometri quadrati è simile, anzi un poco più piccola, allo staterello del New Mexico (capitale Santa Fe’), uno degli Stati Uniti.

E l’Italia ha una capitale che è situata al centro esatto del suo territorio, oltretutto molto stretto, perciò ogni città o provincia è facilmente raggiungibile da Roma o da altri punti  della Penisola in poche ore con qualunque mezzo, dall’aereo alla carrozza a cavalli. E oggi siamo in tempi di messaggi rapidi in email…

Che bisogno c’era di spezzettarla in tanti sotto-Stati, le cosiddette "Regioni", inventate dalla Costituzione del 1946, che mai sono stati davvero nel cuore e nella Storia degli Italiani, semmai più municipalisti e campanilisti che regionalisti? Senza contare che le nostre Regioni non corrispondono neanche a precise realtà geografiche o storiche. Infatti non coincidono mai con i vecchi Stati preunitari spazzati via dal Risorgimento.

E allora, perché? A che servono? Questo è stato uno dei pochi errori di quei galantuomini intelligenti ed efficientissimi che sono stati i nostri Padri Costituenti. Bisogna capirli, dopo l’accentramento paranoico voluto dal Fascismo, non volevano rischiare l’unicità del comando e hanno fatto di tutto per estendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni della Repubblica. Ma non avevano fatto i conti con la voglia di sprechi e ruberie degli Italiani, che prendono ogni posto pubblico come un’occasione per spendere soldi non propri senza limiti, quando addirittura non una comoda mangiatoia.

I liberali, ricordo benissimo da Giovane Liberale a 16-18 anni, erano contrarissimi all’attuazione degli articoli della Costituzione sulle Regioni. L’Italia è piccolissima, dicevano, che bisogno c’è? Sarebbe assurdo spezzettarla ancora di più in tanti quasi-Stati (parole sante oggi, quando l’Italia non è troppo grande ma troppo piccola rispetto al mercato europeo e mondiale…). Non possiamo – continuavano – fare la scimmiottatura degli "States" in un territorio che equivale ad un loro piccolo Stato. “Daranno luogo sicuramente a una pletorica burocrazia dispendiosa e parassitaria”, incalzavano nel PLI. E ai tanti che giustificavano almeno con la possibilità di risparmi: “Saranno una occasione di spreco, non di risparmio”. E conoscendo il carattere e la storia degli Italiani, fin dal Medio Evo settari e l’uno contro l’altro perfino nella stessa città (il Palio di Siena ne è un esempio), dando tutti i poteri alle Regioni – dicevamo – si  rischierebbe l’anarchia: ognuna spenderebbe senza limiti come se fosse uno Stato sovrano. Le tendenze naturali di un popolo anarchico vanno temperate, non favorite. Macché, parole al vento: la Carta Costituzionale aveva previsto le Regioni e le loro enormi competenze? Ebbene, bisognava attuarla. [Ma come mai molti altri articoli, ben più importanti, non sono mai stati davvero attuati?].

E avevamo ragione da vendere. Poi, con l’avvento della Lega Nord, con l’emergere sulla ribalta politica di molti cialtroni provinciali e sottoculturali che blateravano di ritornare al pre-Risorgimento, di dare tutto il potere ai municipi senza alcuna selezione di merito e capacità, infischiandosene dell’unità di un piccolo Stato come l’Italia, troppo recentemente riunito dopo secoli, si è cominciato a straparlare di “secessione” e poi di “federalismo”. Ma il federalismo, nel suo significato migliore, fu una opzione dignitosissima, valutata e discussa nel Risorgimento, quando si temeva che i vari Stati preunitari non avrebbero mai potuto unirsi. Fu scartata, si preferì unificare gli Italiani pensando giustamente che staterelli così diversi (alcuni arretrati, altri avanzati) avrebbero potuto prosperare solo se uniti, mentre il federalismo avrebbe potuto cristallizzare le differenze secolari, impedendo o ritardando lo scambio reciproco e la maturazione delle idee.

Oggi proprio attraverso la "statizzazione" delle Regioni il neo-federalismo potrebbe fare gravi danni separando ancora di più gli Italiani tra loro e distruggendo l'Italia, già piccolissima di per sé, come Stato, e ancora troppo differenziata per reddito, cultura, idee.

Senza contare che le scelte della piccola e poco rilevante Italia in politica o commercio internazionale potrebbero essere ancor più ridotte, o addirittura contraddette o vanificate dalle scelte particolari delle singole Regioni. Tutte cose che puntualmente si sono verificate, ha commentato Paolo D’Arpini nel suo blog.

E non parliamo degli sprechi enormi (pensiamo solo ai deficit regionali nella sanità e nell’ambiente, o alle assurde rappresentanze a Roma o addirittura all’estero). Insomma, spese pazze, clientele, inefficienza per tutte le regioni italiane, e ancor più per quelle privilegiate come "Regioni a statuto speciale" (Sicilia, Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige). E ormai il virus parassitario della Lega si è diffuso: le sciocchezze di quegli ignorantoni e paesani vengono ripetute e prese sul serio.

Ma così prosegue D’Arpini: "Dal punto di vista della comunità i cittadini si riconoscono più facilmente nella identità provinciale e raramente nell'ambito regionale. Il motivo è ovvio, la storia e la cultura in Italia hanno sempre privilegiato le comunità ristrette a partire dai Comuni sino all'ambito in cui un Comune solitamente si irradia ovvero la Provincia. Al contrario le Regioni sono state create a tavolino subito appresso l'unità d'Italia e molto spesso non rispecchiano gli ambiti di appartenenza culturale e geografica che questi territori ebbero in passato, ed il passato è presente... non è qualcosa che sparisce.
"Prendiamo l'esempio della Regione Lazio, riaggiustata durante il fascismo, togliendo all'Umbria (Rieti), togliendo alla Tuscia (alta Tuscia passata all'Umbria, Orvieto), togliendo al Regno delle Due Sicilie (Formia, etc.), riaggiustando il Frusinate ed altro ancora... Inoltre la Regione Lazio, come ogni altra Regione, nel suo governo è partigiana, ovvero cura gli interessi "democratici" degli abitanti della sola Roma, le scelte sono sempre a favore degli interessi della città. Ad esempio Roma raggruppa in sé i 4/5 degli abitanti del Lazio, il che significa che tutte le scelte amministrative regionali tendono a soddisfare gli interessi di Roma. In conseguenza di ciò il territorio delle Province storiche del Lazio è negletto ed utilizzato esclusivamente per ubicarvi gli scomodi servizi della città, il territorio delle Province è come una colonia rispetto alla madrepatria. In tal modo la grande Roma non riuscirà mai ad adattarsi al territorio osmoticamente ma continuerà a gettarvi i suoi rifiuti, a creare strutture inquinanti, a mantenere sottosviluppate e mal collegate le componenti territoriali circostanti. Quanto detto per il Lazio vale, ovviamente anche per tutte le altre Regioni: Lombardia, Campania, etc. ove risiedono grandi agglomerati urbani.

"Visto che l'Europa sta diventando sempre più una realtà politica oltre che amministrativa è sicuramente più logico studiare degli ambiti territoriali che rispecchino un'identità "bioregionale" e questi ambiti possono essere rappresentati esclusivamente dalle Province (al massimo da agglomerati uniformi come ad esempio la Tuscia con Viterbo, Civitavecchia ed Orvieto). Quindi andrebbero ristrutturate in termini bioregionali le Province, come base aggregativa ed amministrativa del territorio ed eliminate invece le Regioni, carrozzoni inutili e fuorvianti dal punto di vista dell'integrità ecologica, geografica e storica".

AGGIORNATO IL 24 NOVEMBRE 2014

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09 dicembre, 2008

 

Ma il Liberalismo non ha "perso". Sono stati i mancati controlli a far vincere i soliti furbi

Le guerre, si sa, come le grandi catastrofi, sembrano a molti mettere finalmente "le cose a posto". Era un'idea ricorrente del fascismo. Così, anche questa grave crisi economica sembra a molti in qualche modo catartica. Ma se ne uscirà davvero purificati, migliorati? Ne dubitiamo.
Per ora sembra positiva almeno in una cosa: sta mettendo in luce tutte le contraddizioni, le riserve mentali, le ambiguità, i falsi luoghi comuni sottoculturali della Destra e della Sinistra. Non solo sull'economia, ma soprattutto sulla politica, sui "valori".
Ideuzze e approssimazioni che, appunto, ci aiutano a spiegare perché il Liberalismo, che c'entra come i cavoli a merenda con questa crisi, non sarebbe riuscito a prevenirla e ora a curarla. Di qui la soddisfazione intima ma non apertamente dichiarata (sanno che il Liberalismo è insostituibile) degli anti-liberali di Destra e Sinistra, sotto l'ipocrita velo nero di circostanza. Ma sbagliano entrambi.
"Maestri liberali, battete un colpo", è l'appello fintamente sconsolato di Vittorio Macioce sintetizzato in un titolo del Giornale. E il sommario spiega (e snocciola qualche luogo comune sbagliato che ci mette sull'avviso): "Si parla solo di crisi, aiuti statali, fine del capitalismo. Ma Antiseri, Martino, Pera [sarebbero loro i "Maestri del Liberalismo"? NdR] e tutti gli altri scelgono il silenzio. Dopo il crollo del muro tutti saltarono sul carro del mercato, dell'economia senza lacci e lacciuoli. Ora voltano rapidamente gabbana".
L'inizio è coinvolgente e molto giornalistico. In quanto a stile. Ma prende fischi per fiaschi. Intanto, il lettore medio capisce che un'economia liberale sarebbe quella "senza lacci e lacciuoli", dove ognuno in sostanza fa quel che vuole, senza regole. Nulla di più sbagliato: questa sarebbe l'anarchia dei pochi prepotenti, non la libertà di tutti. Il Liberalismo è proprio l'ideologia delle regole: poche ma severe.
"Cari maestri, dove vi siete nascosti?" continua il pezzo. "Questo Paese ha nostalgia del Novecento [cioè di Giolitti, Croce, Einaudi, Malagodi? NdR] e c’è una gran voglia di "impiccare" i liberali. È la vendetta di tutti gli orfani delle ideologie. Un amico qualche giorno fa raccontava lo strano destino di Von Hayek. È stato indicato come monatto della crisi da vivo e da morto. Nel 1929 fu Rostow a dire: tutta colpa di Hayek e di Mises. Quest’anno Samuelson ha puntato l’indice su Friedman e, tanto per non sbagliare, e ancora su di lui, il viennese maledetto. Quando le cose vanno male certa gente sa sempre dove bussare. Ma non è solo colpa loro. Un po’ i liberali se la cercano. Quando c’è da fare muro, da sostenere la forza di un’idea, loro si rifugiano in ordine sparso, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi, come direbbe Vasco Rossi. Allora, dite, in quale convento siete finiti?" (si può leggere tutto l'articolo qui).
Ci piace l'appello, l'idea in sé d'un amarcord nostalgico del liberalismo. Ma è sbagliata nella sostanza: il Liberalismo non è un'epoca storica, ma una costante della Storia delle idee. E perciò l'intero articolo è un po' sconclusionato e superficiale. A cominciare dal titolo. "Maestri"? Quali maestri?
Capisco che il Giornale non è stato mai un campione di vero liberalismo, piuttosto di conservatorismo, ma qui si fa indigestione di luoghi comuni sbagliati nella peggiore routine giornalistica delle frasi ad effetto, buttate giù di corsa.
Calma, calma, l'articolista deve riempire in fretta le sue cartelline, e va subito per la tangente. Una scrittura autoreferenziale. Letteratura. Ma non c'entra molto col Liberalismo questa crisi. C'entra, solo un poco: nei mancati controlli e nelle regole non fatte rispettare (entrambe basi del Liberalismo pratico, perché altrimenti, senza limiti, il L. equivarrebbe alla prepotenza di pochi, visto che anche i dittatori e i prepotenti vogliono la "propria" libertà).
Faccio un esempio: gli Stati Uniti, tradizionalmente considerati una delle massime espressioni del liberalismo reale, sono però - come tutti i Paesi - pieni di criminalità, omicidi, alcolismo, tasse non pagate, ingressi illegali di messicani ecc. E questo, forse, è la prova che il Liberalismo negli Usa non funziona?
No, neanche il Liberalismo può prevenire la criminalità della gente, specialmente il Liberalismo di oggi, che è impotente e solo analitico, spesso un mezzo per farsi gli affari propri (e qui grosse responsabilità ce le ha proprio la destra economica liberale la sua tendenza cripto-anarchica, che ora protesta), anziché insegnare, fare pedagogia sociale in stile Risorgimento, infiammare con idee forza etiche come si faceva nel Liberalismo tra 800 e 900.
Vedete l'errore (lo dico da liberista) di aver ridotto il liberalismo a puro liberismo? Manca l'etica, che è altissima nel Liberalismo vero (Cavour, Mazzini, Croce, Nathan, Einaudi, Calogero ecc). Il Liberalismo è "anche" liberismo, ma per il resto vuole gente infiammata e coraggiosa, direi altruista e generosa, non cinici egoisti e aridi analisti, che contano indifferenti i cadaveri che passano nel fiume. Se non c'è una rivolta morale da liberali risorgimentali, e capeggiata non certo da persone come quelle nell'articolo elencate [l'anarchico Martino che ritiene "illiberare" la legge che gli proibisce di fare violenza agli altri, cioè di inquinarli con il suo fumo? L'ex marxista Pera che scriveva sul Manifesto? ah, ah, ah], la criminalità e il "particulare" avranno sempre la meglio.
Il Liberalismo non ha perso: il fatto è che non si è proprio confrontato nella faccenda. Non ha proprio partecipato alla partita.
La partita era tra mascalzoni finanziari (e politici che li proteggevano) e i pochi che volevano far rispettare le regole. E non sarebbe bastata l’utopia del mercato libero che si autoregola virtuosamente senza controlli di sorta, anche tra fior di delinquenti e con le connivenze dei politici, a far vincere i pochi che capiscono che il Liberalismo vuol dire soprattutto regole.
A meno che il Liberalismo, quello vero, non si fosse preoccupato (ma con ben altri esponenti che quelli sopra citati) di radicarsi tra la gente, di farsi coscienza etica, costume, modo di vita dei popoli. Non due regolette di Borsa, peraltro inapplicate o aggirate. O il Liberalismo è seminato e coltivato nella società, e diventa "comune sentire", oppure non esiste. E non solo non può vincere, ma neanche partecipare alla partita. Quindi, neanche perdere.
E detto così è anche peggio.

08 dicembre, 2008

 

Keynes vince, perché Adam Smith è più bravo ma ha un pessimo ufficio stampa

Che cosa dovrebbe o avrebbe dovuto fare in questi mesi un vero liberale ministro dell'economia? La crisi finanziaria ed economica rischia di diventare un test di reattività. La corsa ai rimedi socialdemocratici, più che frutto di panico, è un riflesso condizionato, rapido e intuitivo, di classi dirigenti nate e cresciute all'ombra degli Stati, o degli enti sovrannazionali che hanno però negli Stati nazionali il riferimento obbligato.
E' il momento magico per i cosiddetti "gran commis d'Etat", quegli strani alti funzionari che in barba ai contratti che prevedono - ma in forme lessicalmente soft - il licenziamento ad nutum, cioè immediato, in caso d'insuccesso o di perdita della fiducia dei politici, in realtà hanno acquisito una inamovibilità da politici.
Ma ora c'è chi attribuisce la curiosa espansione a macchia d'olio delle scelte neo-keynesiane non tanto alla mediocrità degli apparati e dei Ministeri, si sa, statalisti e conservatori per antonomasia, ma proprio ad una insufficienza tecnico-culturale, come sostiene su il francese Jacques Garello in un interessante articolo controcorrente su Libres.org, dal titolo Epidémie, tradotto e ripreso dal sito dell'Istituto Bruno Leoni ("Il trionfo keynesiano è dovuto all'ignoranza delle virtù del mercato").
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"I sintomi sono chiari" scrive Garello."Prendete un buon liberale, perfino un ultrà del liberalismo, che ha sempre professato la propria preferenza per la libera impresa e il libero scambio. Parlate con lui della “crisi”. Converrà perfettamente sull’idea che essa è dovuta agli errori, o meglio alle malversazioni, operati dai responsabili della politica monetaria e finanziaria. Vi seguirà quando ricorderete che i subprime hanno avuto origine da organismi pubblici che distribuivano, su ordine del governo americano, crediti ipotecari immobiliari a persone che non erano nelle condizioni di rimborsarli.
Ammetterà che il lassismo monetario della Federal Reserve ha diluito la responsabilità di quanti operano nella finanza. Se ha qualche conoscenza tecnica, sarà d’accordo sul fatto che la finanza è sovraregolamentata, con regole stupide come quelle di Basilea 2. Enfatizzerà forse il suo scetticismo dinanzi ai “fondi sovrani” e altri marchingegni dirigisti immaginati dagli uomini politici. Ma alla fine vi sorprenderà affermando, con un qualche turbamento nella voce, che nel momento in cui la crisi c’è bisogna pur ricorrere ad un intervento delle finanze pubbliche. Bisogna salvare le banche dal fallimento, iniettando a tale scopo le liquidità monetarie necessarie, e per fare questo le banche centrali devono abbassare i tassi di interesse e gonfiare la massa monetaria.
Ecco l’ictus, ecco i bulloni saltati. Persone fino a quel momento sane di spirito, che hanno sempre aderito ai principi dell’economia dell’offerta, vengono ad ingrandire il campo dei keynesiani che professano i principi avversi dell’economia della domanda. Fautori della libertà economica e nemici dello Stato in tempi ordinari, nel momento della crisi diventano sostenitori dell’intervento statale e di una sorta di “libertà vigilata”.
Il mondo occidentale è stato colpito da una tale epidemia negli anni Trenta. La tesi di Keynes arrivava al momento giusto, per spiegare come da una parte la crisi era quella del capitalismo creatore di disoccupazione (quando invece era stata una crisi di dirigismo) e dall’altra parte che si poteva preservare qualche principio del capitalismo (come la proprietà privata del capitale) a condizione di condurre una politica di pieno impiego e di rilancio della domanda globale. Agli spiriti deboli il keynesismo appariva come il modo per salvare il capitalismo riducendo la libertà economica e puntando sull’intervento pubblico.
Eccoci nella stessa situazione. Per evitare una “crisi di sistema” (e cioè per evitare che il sistema capitalista sia distrutto da personaggi come Hugo Chavez e Olivier Besancenot) i malati contaminati applaudono ai piani di rilancio la cui immaginazione è senza fine, poiché si tratta di annunciare miliardi di aiuti, proprio mentre gli Stati sono in condizioni fallimentari.
La malattia riguarda tutte le fasce della popolazione. Ho apprezzato questo titolo apparso sui giornali [francesi, NdR]: “I liberali dell’UMP si rallegrano dell’intervento crescente dello Stato”. Anche tra alcune persone che pure in precedenza passavano per intellettuali liberali ci si orienta, con la morte nel cuore, ad augurare l’inondazione monetaria al fine di evitare il fallimento delle banche. Dal momento che la crisi minaccia pure migliaia di imprese, si dà il proprio sostegno alla concessione di prestiti ingiustificati per salvare l’occupazione. Al momento, la sola preoccupazione keynesiana che non è stata ancora riproposta è il protezionismo puro e duro: fino ad ora la globalizzazione è stata salvata, nonostante i fondi sovrani abbiano un enorme successo.
Credo che il trionfo keynesiano sia dovuto all’ignoranza delle virtù del mercato: poiché nel mercato c’è il vero ed unico modo di uscire dalla crisi senza ricorrere allo Stato.
Si vogliono salvare i posti di lavoro? Gli impieghi non esistono e non durano se non sono al servizio della popolazione, adattandosi quantitativamente e qualitativamente a ciò che vogliono i clienti. Sopprimere impieghi non è un dramma quando altri e nuovi posti di lavoro vedono la luce. L’economia dell’offerta ci ricorda che il livello dell’occupazione dipende dalla libertà economica riconosciuta agli imprenditori, ai lavoratori e ai risparmiatori. Rilanciare l’economia significa mettere fine ai privilegi di cui beneficiano i parassiti.
Un grande piano di rilancio consiste dunque nel liberare la creatività e restituire ai francesi il denaro che è stato loro ingiustamente confiscato da uno Stato rapace e una previdenza pubblica vicina al collasso. Ma chi ne ha il coraggio?
È più facile invocare l’alibi dei fallimenti bancari e delle imprese quotate. Ancora una volta, il mercato è la soluzione: quando i prezzi degli asset calano, o addirittura si fanno negativi, vi sono occasioni di acquisto da parte di altri, o possibilità di aumenti di capitale, così che gli investitori valutino la differenza tra costi e benefici. Ci saranno sicuramente dei terremoti, ma inferiori a quelli conseguenti a un finanziamento pubblico.
Bisogna tornare a Bastiat: ciò che si vede è “il salvataggio” delle banche, e ciò che non si vede è il costo dell’operazione. Il costo è l’inflazione, che a sua volta produce disoccupazione; il costo è il debito pubblico, che a sua volta genera ulteriori prelievi obbligatori (e fin da oggi, a causa degli interessi sul debito).
Ciò che i malati del keynesismo dimenticano, o ignorano, è che l’economia è distrutta da interventi che privano il mercato della sua virtù essenziale: ripartire le risorse rare in funzione dei bisogni reali della comunità, grazie a un sistema di prezzi sorti all’interno di un contesto concorrenziale. Dopo aver fatto pulizia del mercato, si chiama Keynes quale salvatore! È giunto il momento - conclude Garello - di comprendere in profondità il funzionamento dei mercati. È la migliore prevenzione contro questa terribile epidemia".

05 dicembre, 2008

 

La Chiesa e i politici in Italia contro la ricerca scientifica. L’appello su "Nature"

L’emergenza economica sta facendo passare sotto silenzio altri problemi che, in tempi di vacche magre, l’opinione pubblica a torto non considera urgenti, ma che, invece, se risolti sarebbero un ideale punto di partenza per la modernizzazione dell’Italia, presupposto indispensabile per un vero rilancio sociale ed economico.
Intendiamo riferirci alla ricerca scientifica, cardine e simbolo della "libertà dei moderni", senza la quale ogni altra libertà, compresa quella economica, decade.
Pochi giornali hanno dato il risalto che meritava al coraggioso e circostanziato appello che Elena Cattaneo, ricercatrice responsabile del Laboratorio cellule staminali dell'Università di Milano e docente universitaria, ha pubblicato su Nature ("Science, dogmas and the state"), in occasione della recensione del libro di Armando Massarenti, giornalista scientifico del Sole-24 Ore (Staminalia: Le cellule etiche e i nemici della ricerca, Guanda, pp 205).
Partendo dalla questione della sperimentazione sulle staminali, da come è stata presentata in modo distorto e "politico" sui giornali e circoli conservatori di Destra e Sinistra più legati alla Chiesa, dalla debolezza con cui è stata difesa (se non addirittura osteggiata) dal mondo politico in Italia e perfino negli Stati Uniti, finora retti dalla Destra repubblicana (ma con Obama le cose dovrebbero cambiare, almeno su questo punto), Massarenti e la Cattaneo traggono la conclusione sconfortante che si sia voluto scientemente creare un clima reazionario contro la stessa ricerca scientifica e la libertà della scienza.
Certo, come diceva Eduardo, "add’a passa’ a nuttata", questi tempi bui finiranno prima o poi, e domani sarà un altro giorno. Paradossalmente, la crisi economica dovrebbe penalizzare chi vuole ulteriormente impoverire il Paese e l’Occidente. Per il futuro, quindi non siamo privi di speranza.
E’ provato, però, che l’uso furbesco delle deformazioni dell’informazione sulle ricerche attorno alle cellule staminali – approfittando della ben nota ignoranza popolare italiana in materia di scienza – è stato finora utilizzato per gettare un velo di discredito sull’intero settore degli studi sulle staminali, penalizzando in particolare quelli sugli embrioni.
Così – lamentano Massarenti e Cattaneo – accade che i finanziamenti siano assegnati non certo con criteri di rispetto per il merito e la libertà, che dovrebbero essere gli unici requisiti validi nella ricerca fin dai tempi di Galileo. Anzi, la mancanza di trasparenza nell'assegnazione dei fondi, col prevalere del concetto dell’asservimento filosofico e politico alle "idee" della maggioranza governativa del momento, estende e istituzionalizza il germe della corruzione nella ricerca, oltre a causare un danno enorme all’evoluzione scientifica e intellettuale dell’Italia. E perciò non è esagerato sostenere che anche questa ottusa posizione reazionaria, come già è accaduto nei secoli bui o sotto il Fascismo, metta a rischio la crescita civile e morale del Paese e rappresenti una minaccia per la stessa democrazia.
Il testo della recensione-appello su Nature è leggibile qui.
A Elena Cattaneo e a tutti i ricercatori italiani va la solidarietà piena del Salon Voltaire.

 

Ma quale "mercato libero": è un oligopolio di offerte ai danni della domanda

"E' il mercato, bellezza"? Ormai lo dici a tua sorella.
Totò e Peppino avevano visto giusto: perché svaligiare una banca, col rischio di beccarsi una pallottola in fronte, quando si può vivere felici senza lavorare stampando cartamoneta? Non essendo ragionieri non presero in considerazione la terza ipotesi, la più efficace: diventare direttori della banca stessa.
Avete presente certi ceffi di banchieri dei film western, con la pistola anche quando sono dietro lo sportello, e con la faccia più cattiva del povero rapinatore? Bene, i conservatori al potere nei vari Stati d’Occidente (di Destra o Sinistra, non importa) sostenevano che quello era il modello giusto di liberismo. Ma sì, basta – dicevano – con tutti quei lacci e lacciuoli delle regole liberali. Quasi quasi, spropositavano, il liberalismo sembra socialismo.
Ma la loro "libertà", si è visto, era quella che si intende tra un whisky e un doppio gin con ghiaccio nei bar di tutto il mondo: farsi gli affari propri, strafottersene del prossimo. Comprarsi un grosso e inutile Suv, e arrotare negli stretti vicoli della città vecchia i poveri ciclisti. Perché io posso, loro no. Altro che "limiti ai propri diritti perché tutti possano avere gli stessi diritti": queste sono considerate effeminatezze sociali alla Einaudi. Ecco i risultati.
Il "paradosso del Far West" è arcinoto. Se il mercato è "buono" anche quando è costituito, al limite, da soli criminali, purché trovino un gentlemen agreement da rispettare se non vogliono morire tutti negli scontri a fuoco, allora dobbiamo dedurre che a Wall Street sono mancati non i criminali ma i controllori, e soprattutto i controllori dei controllori. E che un mercato di avventurieri senza regole e senza controllori severi, non è un mercato libero, ma un oligopolio di offerenti. Basta vedere il prezzo della benzina in Italia, rimasto quasi lo stesso col petrolio diminuito alla fonte di tre volte. Che quello dei petrolieri è un monopolio, con la connivenza dei Governi, ormai è chiaro.
Ma tanto nessuno punirà i colpevoli dei disastri finanziari e i furbi degli oligopoli "di Stato". Tranne rari arresti (Usa) e qualche calvinistica autoriduzione dello stipendio a 0 dollari (Usa), sono ancora tutti a casa propria, con lauti stipendi e senza neanche gli arresti domiciliari, direbbe Di Pietro.
Quel che è certo, con la crisi finanziaria in atto, che a sentir loro "non doveva, non poteva accadere", i professori di economia di mezzo mondo – quello "libero" of course – hanno avuto una fastidiosa ricaduta del loro cronico colon irritabile. Ben gli sta. Del resto, meglio un leggero disturbo psicosomatico che l’evirazione, giusto contrappasso se avessero così grossolanamente sbagliato previsione in una Stato "non libero", diciamo pure islamico all’antica.
Eh, non ci sono più i liberali-liberisti e libertari d’una volta.
Beati noi che ancora crediamo alle differenze tra Stati Canaglia, con despoti medievali sopravvissuti nel Sud-Est del Mondo, e Stati Virtuosi, retti da illuminati ed equanimi reggitori della res publica che hanno scelto per puro masochismo il più freddo Nord-Ovest.
Ma qui ci sembra che i più grossi mascalzoni stiano al Nord. Come insegnava Totò, nel delitto ci vuole organizzazione. Uno non si può improvvisare falsario, come fanno quei cialtroni del Sud. Ci vuole specializzazione. Diciamo che il crimine, finanziario o no, viene meglio nei Paesi sviluppati. Altro che i più coloriti ma inefficienti, perfino nel male, Saddam o Ahmadinejad. Indovinate chi ha battuto il primato mondiale di invio di email spam in un giorno. Un figlio di puttana cinese, direte. No, un simpatico canadese dalla faccia da ragazzo sorridente, sempre in maglietta e birretta in mano.
Ma a nessuno è venuto in mente che il patatrac è accaduto non per "eccesso di mercato libero", ma per "difetto di mercato libero". Un finto mercato in cui la parte più importante, la domanda, i consumatori, era tenuta all’oscuro del contenuto della merce venduta. Un mercato così non verrebbe tollerato neanche alla fiera settimanale di dromedari di Islamabad, tra mercanti puzzolenti di assafetida e fieno greco. C’era bisogno di vestirsi di blu e andare profumati in ufficio a Wall Street o alla City?
L’insegnamento che ne viene, dunque, è classico per noi liberali. E tocca le responsabilità e il riequilibrio dei poteri.
Primo, com’è che la polizia finanziaria dell’FBI non ha operato arresti a migliaia, svuotando Guantanamo dei finti terroristi islamici e riempiendola di veri terroristi infiltrati a Wall Street per carenza di controlli e connivenze politiche?
Secondo, ora che la bilancia si è rotta, occorre rimettere i piatti allo stesso livello. E si deve soprattutto rafforzare il piatto della domanda, nel senso di innalzarla finalmente al medesimo livello di poteri e di informazione che leggi troppo addomesticate dalle lobbies hanno finora assegnato all’offerta, cioè ai produttori. A tutti i livelli: dall’etichetta dei dadi per brodo al contenuto delle bibite da bar, dal peso e volume reale delle confezioni di ogni merce fino al vero contenuto dei servizi bancari e finanziari. Con facoltà di recesso contrattuale generalizzato da parte dell’acquirente quando il venditore ha una posizione dominante. Cioè quasi sempre.
Il produttore, che è il vero offerente, non certo il venditore, è l’unico a conoscere bene il bene venduto. Nessuno dei vari acquirenti (grossista, dettagliante, acquirente finale) può davvero sapere che cosa si nasconde nella scatola. Questo è il marcio del finto mercato, per niente libero.
Del resto, quando parlano tra loro finanzieri e industriali per "mercato" intendono una cosa sola: il pubblico, i potenziali acquirenti. E dunque, perché gli Stati finto-liberali dell’Occidente non danno ampi poteri agli acquirenti che compensino la loro inferiorità contrattuale? Anche i codici civili andrebbero riscritti: sono sempre dalla parte del produttore, non del mercato.
Perché sono talmente tanti come categoria che coincidono con i cittadini tout court. E dunque gli Stati dovrebbero diventare davvero liberali in tutto, visto che beni e servizi toccano tutti gli aspetti della società. E perciò dovrebbero auto-ridursi, dopo aver trovato e codificato le nuove regole.
D’altra parte, se la finanza faceva acqua allontanandosi dal mercato liberale, anche la politica che doveva controllarla e ora dovrebbe - figuriamoci - guarirla, ha perso le idee per strada. Liberale chi? Socialista cosa?
Ora che siamo nella fase della finte terapia aumentano i dolori. Chi sono i medici? Che le carte politiche si stessero rimescolando ce ne eravamo accorti anche noi, in Europa. Tanti, troppi "socialisti", in realtà finti socialisti, da troppi anni, parlavano come liberali doc. Ci voleva questa catartica crisi per vedere tanti, troppi "liberali", in realtà finti liberali, comportarsi come socialisti, sia in America, sia in Europa. Perché i segni della mancata "rivoluzione liberale" in tempi moderni, la sola che possa affrancare il cittadino dal prepotere assoluto degli Stati potentissimi di oggi, e dalle lobbies economiche da loro protette, si fa sentire ormai anche in Occidente, non solo in Oriente.
E c'è chi la notte ha gli incubi. Meno male che siamo noi i più forti, pensa, se no la Birmania o il Burundi si sentirebbero in dovere di inviare truppe per conto dell'ONU a New York, Berlino, Parigi, Londra e Roma "per ingerenza umanitaria" al fine di ristabilire lo Stato Liberale.
Una cosa, però, è chiara: i conservatori finto-liberali hanno combinato il disastro. I socialisti finto-liberali stanno cercando di ripararlo. Ma è gente della medesima pasta. Alcuni saranno pure bravi, ma hanno tutti un vizio di fondo: non hanno la mentalità dei diritti di libertà. Gli è sconosciuto il concetto che per soddisfare tutti i diritti bisogna ridurre un poco l’ampiezza dei propri. Stanno sempre, fateci caso, dalla parte di un solo piatto della bilancia del finto-mercato: i produttori, lo Stato. Mai dalla parte dei consumatori, dei cittadini.
Ma con "liberali" come questi nei Governi, che bisogno abbiamo dei socialisti?

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