24 marzo, 2009

 

Ancora Paese dei balocchi. L’assenteista non lo licenzia nessuno. Solo Dio

Pirandello si rigira inquieto nella tomba. Nella sua Sicilia si trascina per 20 anni una vicenda minore, ma così ingiusta, esagerata, paradossale, e con un prefinale pirandelliano, e nessuno ne approfitta per ricavarne almeno un racconto? "Bah, che discendenti strani!", deve essersi detto il commediografo di Agrigento.
Però, appena lo sapranno, anche quelli del Consiglio Superiore della Magistratura qualche risolino o mugugno di disappunto per l’immagine del Giudice Italiano, sono sicuro che se lo faranno. D’accordo, le leggi italiane in materia di lavoro erano e sono quelle, ma sono sicuro che importando giudici dal Regno Unito l’interpretazione della norma e la sentenza finale sarebbero state diverse. Fatto sta che la Magistratura e la Giustizia in questo ennesimo episodio non ci fanno una bella figura. E i britannici continueranno a prenderci in giro.
E’ la stessa vittima, l’avv. De Luca, condannato a sei mesi per fatti accaduti in una società di trasporti di sicurezza siciliana, quando non era ancora responsabile della ditta, a raccontare per sommi capi la vicenda che lo ha coinvolto in un comunicato firmato con l’amministratore delegato:
"La vicenda che si è conclusa con la condanna degli Amministratori della
Sicurtransport S.p.A. ha origini lontane, che risalgono ad oltre un ventennio, quando gli stessi non erano ancora in carica. Si tratta di una guardia particolare giurata che aveva svolto regolarmente per circa 10 anni il proprio lavoro ed era stato rappresentante di una sigla sindacale autonoma. Lo stesso veniva indicato
da un pentito quale basista di una grave e clamorosa rapina in città. Questa circostanza avrebbe impedito il rinnovo, da parte del Prefetto, del decreto di guardia particolare giurata, che impone la buona condotta.
"Da quel momento questi diventava un dipendente "superassenteista" per
evitare di sottoscrivere la richiesta di rinnovo dei titoli di polizia necessari a proseguire la propria attività. Dopo un’assenza continuativa durata 572 giorni, di cui 335 nel solo anno 1989, la società procedeva con il licenziamento, che tuttavia veniva annullato dal giudice del lavoro, secondo cui per un giorno non era stato
superato il massimo previsto dalla legge.
"La società era così costretta a pagare per intero le retribuzioni relative al periodo di durata del giudizio e riassumere il dipendente. Dopo un breve periodo di attività presso una società partecipata, a causa della cessazione dell’attività di tale ultima azienda, il dipendente veniva licenziato. Nuovo giudizio del lavoro, nuovo ordine di riassunzione, nuovo pagamento di tutte le mensilità trascorse, anche senza un giorno di lavoro.
"A questo punto la società decideva, conformemente a quanto previsto in sentenza, di riassumere il Campione [ il nome del dipendente, NdR] con le originarie mansioni di guardia giurata. In circa un anno e mezzo, quest’ultimo, si è assentato per un periodo complessivo di giorni 235 di malattia, oltre a giorni 45 tra ferie e permessi, per un totale di soli 75 giorni di presenza. Dopo il formale rifiuto di sottoscrivere la relativa istanza al Prefetto, sapendo di non avere i requisiti per ottenere il decreto di g.p.g ed il porto d’armi, veniva definitivamente licenziato.
"A questo punto il Campione denunciava i datori di lavoro per mobbing, che sarebbe consistito nel non avergli affidato alcuna mansione specifica nei pochi
giorni in cui ha prestato servizio. Tra le malattie che ne sarebbero derivate, anche l’impotenza, mentre proprio in quel periodo ha riconosciuto un figlio naturale, nato fuori dal matrimonio. Il Pubblico Ministero, dopo avere istruito il processo, chiedeva l’archiviazione, il GIP disponeva invece il rinvio a giudizio.
"Il sig. Campione, durante il processo penale, è deceduto perché, forse colto da malore, è caduto dalle scale di casa propria. Quindi per cause assolutamente indipendenti dal suo eventuale turbamento per le vicende relative al rapporto di lavoro.
"Gli amministratori della Sicurtransport, società di riconosciuta professionalità e serietà, che opera da quasi 40 anni, intendono precisare che hanno compiuto le loro scelte responsabilmente nell’interesse della sicurezza dei propri clienti e del personale addetto, nonchè della propria immagine. Dichiarano che, pur rispettando, com’è doveroso, la decisione del giudice monocratico, la ritengono sbagliata, e come tale, la impugneranno. Soprattutto si comporterebbero nell’identico modo, se un fatto analogo si ripetesse, poiché innanzi tutto intendono privilegiare, sempre, la professionalità e la responsabilità, come il rispetto delle rigorose norme di pubblica sicurezza, cui gli istituti di vigilanza sono soggetti.
Il Presidente, Avv. Stefano de Luca. L’Amministratore Delegato, Dott. Luciano Basile".
Ero convinto che buchi del genere nella nostra legislazione fossero stati tappati, ma evidentemente non è così. Una vicenda che ci riporta al Paese dei Balocchi di Pinocchio, dove viene promosso chi non va mai a scuola, a patto però che abbia mangiato molti gianduiotti, marzapane e frittelle dolci.
Che commento posso fare? Il più strano che mi viene in mente. Non credo in Dio, ma mi piace immaginare che questo simbolo inutile abbia voluto smentirmi rendendosi una buona volta utile, almeno per "punire" – visto che non lo facevano i giudici – il lavoratore pluriassenteista di Palermo, per poi tornare nel nulla dal quale era venuto.

16 marzo, 2009

 

Matamoros liberale dalla parola di fuoco, la spada di legno, il sangue di pomodoro

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"La diarrea di Martino" era il titolo della satira apparsa in forma provvisoria su Facebook. Ma la satira è un genere difficile, tutto fondato sulla scrittura, e quindi sulla possibilità di correggersi: cosa impossibile su Facebook, rete pensata per banali chat e condivisioni di dischi e filmati, che né la bravura tecnica né l'intelligenza dei suoi utenti riuscirà mai a trasformare in una cosa seria. Come l'umorismo, la satira è un'arte troppo seria per lasciarla ai futili, ai quali basta il linguaggio serioso della vita quotidiana. Perciò la riscrivo del tutto, qui:
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L'ex ministro della Difesa e attualmente deputato di FI, il liberale Antonio Martino, non passa per essere un uomo coraggioso. Eppure quando prende la parola entusiasma i liberali giovani o ingenui: ha la voce roboante, la frase efficace, il concetto tagliente e ironico, l'humour suadente, il modo sicuro di sé e deciso. Deciso a che? Non si sa. Mi ricorda un vecchio pescatore dell'isola di Kos che guardava la gente e il Mondo con l'aria sempre sicura di sé, altezzosa e ironica, come di chi aveva visto, detto, letto, saputo e fatto tutto, e tutto avrebbe potuto e saputo fare in futuro. Poi, dopo aver dominato e zittito ogni interlocutore, intimorendo anche professori, giornalisti, commercianti e turisti, si rimetteva a sedere sulla sua sedia impagliata, all'angolo del porto, con lo sguardo perso all'orizzonte. E così viveva.
Come molti docenti universitari, anche il buon Martino a parole metterebbe a posto Belzebù in persona, tanto gliele conta chiare, ma poi di fronte al potente di turno - in questo caso Berlusconi - che critica ma appoggia, a cui è fedele e infedele al tempo stesso, ripiega su discorsi vaghi, teorici. Come? Parlando d’altro. Il mondo, dopotutto è pieno di cose, di argomenti, hai voglia a parlare, se sei bravo a parlare. Oppure non parlando affatto. Stavolta, l'ex-ministro Martino, pur di non spiegare all’uditorio del convegno di “Libertiamo” (organizzato sabato scorso dal deputato Della Vedova) che riuniva gli ultimi, pochi, liberali rimasti nel PDL, come mai continua ad essere accanto ai Quagliariello, Tremonti, Carfagna, Roccella, Sacconi e Brunetta, lui che si definisce liberale-liberista-libertario, anzi addirittura quasi anarchico, e vede giustamente autoritarismo e statalismo dappertutto, ha calciato il pallone in corner, rifugiandosi nella filosofia del 900 e prendendosela nientedimeno che con… Benedetto Croce. A suo dire colpevole di tutto. Tanto, conveniamone, che cosa avrebbe potuto fargli il filosofo di Pescasseroli: è morto!
Mentre perfino il tecnico dei microfoni e la donna delle pulizie ridevano, al risoluto e coraggioso Martino (che vedremmo bene come “Rolando in campo” nell'Opera dei Pupi), tutto preso dalla foga oratoria di siciliano sanguigno che, dietro le quinte brandeggia la spada di legno e fa un mare di sangue con la salsa di pomodoro, è scappato detto che ora il PDL «somiglia al colbertismo, al fascismo, al socialismo, ma non è liberalismo» (come ha riferito il Corriere.it). Bum!
Sùbito pentitosi, colto da leggero malore già mentre pronunciava la “o” finale di liberalismo, è stato prontamente soccorso dall’elettricista e dalla donna delle pulizie, che tra ospedale e toilette hanno saggiamente scelto quest’ultima. Il prof era affetto da una semplice, ma ricorrente, diarrea da paura.
La stessa che prendeva il nobilissimo antenato, l’austero, coltissimo, cattolicissimo, severissimo, implacabile, perfino crudele, principe Rolando "Matamoros" Martino Fonseca y Davila y Gutierrez, vice-sostituto “intendiente” di Sicilia per lo Rey d’Espana, ogni volta che arrivato per un madornale ritardo della sveglia a battaglia contro i Mori già conclusa, in alternativa veniva comandato dall'irato vicere-re di sorvegliare i braccianti scansafatiche e arroganti del feudo di Gibellina.

09 marzo, 2009

 

L’esempio della solita Gran Bretagna: ha i vescovi in Parlamento, ma non parlano

Le Costituzioni servono, certo, a stabilire la separazione tra Stato e Chiese che è fondamento di uno Stato Liberale. Il diritto, la giurisprudenza e le leggi anche. Ma quello che conta di più, è la cultura antropologica, la tradizione di un popolo, la sua sensibilità, la sua educazione. E' per questo che i popoli non sono tutti uguali, anche quando le Costituzioni e le leggi si rassomigliano.
Il grado di osservanza di un principio costituzione, perfino di una sentenza della Cassazione (si è visto di recente sul caso Englaro), e di una legge, dipende dall'educazione civile, morale e sociale di un popolo. E la laicità dello Stato oggi è messa a repentaglio non solo da alcuni organi dello Stato stesso, ma anche da gruppi organizzati. Gli Italiani non sono più laicisti, sia pure moderati, come erano fino ai tempi del divorzio e dell'aborto?
Noi Italiani saremo pure, tecnicamente e storicamente "maestri" di diritto, avremo pure costruito una delle più belle Costituzioni del Mondo (tranne che per quel sovietico "lavoro", anziché "libertà", al primo articolo), ma resta sempre vero, come causa delle cause, quello che i giovanissimi fratelli Bandiera e il Novaro scrissero nei versi del nostro Inno nazionale: "Perché non siam popolo, perché siam divisi". E perché, come dicevano amaramente i liberali dell'Ottocento: "Ora che l'Italia è fatta, bisogna fare gli Italiani".
E il primo elemento di questo carente liberalismo diffuso riguarda la laicità della Nazione, prima ancora di quella dello Stato. Come abbiamo sempre fatto, perciò, prendiamo esempio dalla Gran Bretagna, amatissima da tutti i Liberali - Cavour ed Einaudi in testa - che non per caso è il grande Paese che ci aiutò e finanziò nel Risorgimento. (Nico Valerio).
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LA FORZA LAICA DI LONDRA "TEOCRATICA"
di Pietro Ichino
La Stampa, editoriale 8 marzo 2009
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La regina o il re, in Gran Bretagna, oltre che capo dello Stato è anche capo della Chiesa anglicana; la quale è a tutti gli effetti qualificabile a sua volta come «Chiesa di Stato». Della House of Lords, la Camera alta di Londra, fanno parte di diritto gli arcivescovi di Canterbury e di York, i vescovi di Londra, Durham e Winchester, nonché altri ventuno vescovi diocesani. Parrebbero, queste, le caratteristiche tipiche di uno Stato teocratico: potremmo, cioè, pensare che queste siano le premesse per lo sviluppo di un ordinamento civile fortemente permeato dal principio di conformità della legge a una volontà divina. Altrimenti, perché tanti interpreti autorizzati di quella verità siederebbero di diritto in Parlamento? Accade invece che nessuno, in quel Parlamento, abbia mai la pretesa di possedere una verità direttamente desumibile dalle Sacre Scritture circa le misure legislative migliori da adottare. Neppure sulle materie eticamente più sensibili, come il matrimonio, l’aborto, la ricerca sulle cellule embrionali, il trattamento medico al confine tra la vita e la morte. In quelle splendide aule i vescovi, pur legittimati a interloquire direttamente, di fatto se ne astengono, così rendendo quotidianamente «a Cesare quel che è di Cesare»; né pretendono che altri si faccia portatore di verità rivelate per loro conto. Ciò consente di sperimentare la laicità come metodo di incontro e cooperazione per il bene comune tra persone di fede diversa, assai più di quanto si faccia nel nostro Parlamento, dove i vescovi formalmente non mettono mai piede. Donde una conclusione: la laicità di uno Stato è frutto più della cultura della nazione che delle sue istituzioni.

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