31 maggio, 2006

 

Nathan non ha fatto scuola. Quando i laici erano idealisti, amministratori efficienti e riformatori.


Un mio articolo giovanile sull'Astrolabio (v. sotto) circa un Convegno sul grande Ernesto Nathan, il miglior amministratore che Roma abbia avuto, torna di attualità ora che sul Comune della Capitale si addensano le nubi del malaffare e della corruzione tra funzionari, enti e cooperative. Non è questione naturalmente di Sindaci in sé, visto che di Sindaci personalmente onesti a Roma ne abbiamo avuti almeno quattro (sia pure diversamente efficienti), ma di ceto politico-amministrativo nel suo insieme.
      E' bello, però, ricordare che c'è stato un tempo, dopo l'Unità d'Italia, in cui Roma ha avuto non solo un Sindaco ma anche amministratori e funzionari attorno a lui che intendevano il loro ufficio come dovere civico, impegno pubblico, non come occasione di spoliazione e arricchimento personale, di tangenti e truffe. 
      Si dividevano, non per caso, tra liberali storici, per lo più progressisti, o repubblicani mazziniani. Pratici e idealisti, insieme: una combinazione che non si verificherà mai più nella storia d'Italia, se non per pochi anni durante e dopo la Liberazione, nel primissimo Dopoguerra. Basta dire che Ernesto Nathan fondò nel 1919 la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo (Lidu), la prima organizzazione italiana per i diritti umani e una fra le più antiche del mondo.
      Nessuno, di quella bella classe politica, era clericale o legato al Vaticano o ai costruttori; nessuno era di Destra o anti-sistema.  Erano intrisi di "fede" in un ideale, che come teorizzava Benedetto Croce, è una bella "religione" laica. «Muoio come ho vissuto, nella fede di Giuseppe Mazzini, serenamente soddisfatto se attraverso la vita, sino agli ultimi giorni, ho potuto darne testimonianza», si legge sulla lapide della tomba di Nathan al Verano.
      A quel tempo, nessun corrotto diceva “tutti sono uguali, tutti sono corrotti”. Nessun Vigile urbano scioperava se un collega nullafacente o disonesto era punito. E chi in Comune sbagliava, chi non lavorava bene, chi rubava, era subito licenziato, e se ricorreva al Giudice aveva pure il sovrappiù di pena. E i Sindacati non erano così ottusi e corporativi (cioè eversivi) da anteporre gli interessi della propria categoria protetta alla collettività. 
      E anche i Magistrati collaboravano al Bene Comune, non erano così stupidamente formalistici e neutrali come accade oggi, quasi che l’avvenire dello Stato non li riguardi, accampando come scusa l’idiozia che “le leggi sono quelle che sono”. Insomma, sapevano interpretare con buonsenso, erano più anglosassoni. E Sindaci, assessori, consiglieri e dirigenti amministrativi avevano, certo, delle idee politiche-sociali-economiche forti. Altra fondamentale differenza con l'oggi, quando i potenziali mascalzoni dicono tutti – fateci caso – che "le ideologie sono superate" (comodo per mettere tutti sullo stesso piano, anche i più squallidi, visto che idee e cultura sono un discriminante di personalità e perfino di onestà, e perfino un antidoto psicologico alle ruberie. 
      E i Sindaci non si piegavano ai corrotti interessi "di ventre" della gente, ma anzi avevano la pretesa laica di indirizzarla ed "educarla". Perciò proponevano strutture utili al progresso della collettività, magari non richieste dalla gente, come scuole (tante scuole: quasi tutte quelle che oggi vediamo a Roma furono costruite in quegli anni) e farmacie comunali, giardini, quartieri accoglienti e dalla bella architettura, vie ampie e alberate, palazzi di esposizione e mercati coperti. Non muovi stadi di calcio per comperare il voto del popolino dei tifosi, o nuovi inutili centri commerciali per favorire le “mazzette” di aziende commerciali e imprese costruttrici.
      Si veda, sempre qui su Salon Voltaire, un altro mio articolo su Nathan che introduce una monografia di M. Mantello.
      Infine, qui di seguito, sull'Astrolabioun mio articolo giovanile sul miglior Sindaco romano e forse italiano di sempre, l'esempio migliore di quella stupenda classe politica e amministrativa liberale e illuminata che purtroppo solo per pochi decenni poté governare in Italia -NICO VALERIO


La politica a Roma 80 anni fa
NATHAN NON HA FATTO SCUOLA?
In periodo di mutamento e di alternative possibili, la cultura laica e di sinistra riscopre la piccola “età di Pericle » portata a Roma 77 anni fa da un coraggioso sindaco, ebreo e mezzo inglese, alla testa di un «blocco popolare».

di NICO VALERIO, L’Astrolabio, 22 aprile 1984


Quanti capi di Governo vale un buon sindaco? Un amministra­tore pragmatico ed efficiente - ha detto qualcuno che certo doveva es­sere anglosassone - è più utile alla città di due o tre Presidenti del Con­siglio che promettono e non man­tengono. E se poi il sindaco, come Ernesto Nathan, oltre all'onestà e all'indipendenza ha una coraggiosa visione politica e sociale dei biso­gni della città, allora basta da so­lo a caratterizzare uno stile di amministrazione, anzi un'epoca. Tanto sono rari, in ogni tempo, uomini del genere.
      Ecco perché, in periodo di crisi e di mutamento, quando si speri­mentano le alternative possibili al mimetico « gattopardismo » dc e la nazione - come si diceva ai tem­pi di Nathan - è scossa da un fre­mito di rinnovamento morale, il pensiero di intellettuali e politici lai­ci e progressisti va alla breve e in­tensa stagione del sindaco illumina­to e severo che governò in modo e­semplare la capitale dal 1907 al 1913, lottando a viso aperto, senza oblique mediazioni né calcoli dema­gogici, contro la rendita parassita­ria, i privilegi delle corporazioni, l'oscurantismo e l'ignoranza.
      Di Nathan si parlò - e lo men­zionò anche il neo-sindaco Argan nel suo primo discorso alla giunta - nel 1976, quando la sinistra ri­conquistò, 69 anni dopo Nathan, il Campidoglio. Se ne riparla ora in seguito ad un convegno tenuto al Centro culturale Mondoperaio (pre­senti Pio Marconi, Antonello Trom­badori, Oscar Mammì, Alberto Benzoni) e alla contemporanea presen­tazione della prima biografia politi­ca di Nathan amministratore («Er­nesto Nathan: un sindaco che non ha fatto scuola », ed. Ianua) a cura di Maria I. Macioti, della scuola di Fer­rarotti.
      Eppure, anche l'avvento della si­nistra al governo di molte città non ha portato ad illuminare degnamente la figura di questo singolare proto­tipo di sindaco laico. Ancora oggi Nathan è un « celebre sconosciuto ». Come mai? Non è solo perché, come ricorda la Macioti, il suo prezioso archivio fu fatto sparire durante il fascismo, per deprecabile eccesso di prudenza; o perché ancor oggi i do­cumenti dell'Archivio Capitolino sono inaccessibili, per colpa del Co­mune, come ha lamentato il prof. Giuseppe Talamo. C'è ben altro.
      E' proprio il sobrio realismo, l' atteggiamento antiretorico e « po­sitivista » del riformatore autentico, più attento - come dice Ferrarot­ti - alle tecniche operative delle riforme che alla loro astratta predi­cazione, a fare di Nathan un anima­le raro nello zoo politico italiano. Isolato culturalmente, cosmopolita, anglofono, più conosciuto a Londra e a Los Angeles che a Torino o a Milano, incapace di promettere al collegio elettorale la ferrovia o l'officina pur di essere eletto, Nathan non rientra nelle abituali categorie del pensiero politico di casa nostra. Nella penisola delle parole al vento, anche a sinistra, il sindaco ebreo e mezzo inglese in un solo quinquen­nio costruisce scuole, organizza cor­si per adulti, bonifica l'Agro roma­no, crea il primo piano regolatore. urbanistico (firmato da Sanjust di Teulada), istituisce il referendum popolare cittadino, si batte per il divorzio, colpisce con tasse ed espropri gli speculatori delle aree, crea una rete moderna di illuminazione e di trasporti, spezza l'in­termediazione annonaria e il lavoro « nero ».
      Il « blocco del popolo » che lo sostiene è quanto mai variegato: ra­dicali, repubblicani, socialisti, la Ca­mera del lavoro, le unioni dei mae­stri e degli impiegati. Quasi priva di una classe operaia, Roma produ­ce inaspettatamente una piccola e media borghesia del lavoro che è individualista e progressista, crede nei bilanci in pareggio ma soprat­tutto nella giustizia sociale. Artigia­ni, professionisti, operai celebra­no nell'Esposizione universale del 1911, cui Nathan dà un determi­nante contributo, il giubileo laico dell'operosità illuminista, contrap­posto alle medioevali paure e agli anatemi antimodernisti del papato e dei clericali. Ma poi Giolitti si metterà d'accordo con i neocattoli­ci, col patto Gentiloni, abolendo in pratica il non expedit. Assediato dai proprietari terrieri e dagli spe­culatori edilizi facenti capo al bloc­co nazional-clericale, privo ormai dell'appoggio di Giolitti, Nathan ca­de alle elezioni del 1914 per soli 1500 voti. Gli succede il principe Prospero Colonna, il maggior espo­nente della «nobiltà nera» vicina al Vaticano, che - guarda caso - aveva in corso una causa per espro­prio con l'amministrazione Nathan.
      Tutto inutile, allora? Non lo cre­diamo, anche se Franco Ferrarotti e la Macioti, col pessimismo della ra­gione, negano che Nathan, odiato dalle destre, abbia fatto proseliti nella sinistra e tra i laici di oggi, ci rifiutiamo di credere al paradosso che il « sindaco saggio » - che aveva l'idea fissa dell'educazione po­polare e aveva costruito quasi tutte le scuole di Roma - non abbia «fatto scuola» tra gli amministra­tori locali dei giorni nostri. Ma dobbiamo ammettere che i severi fer­menti nathaniani, così vivi in Giu­stizia e Libertà e nel Partito d'Azio­ne sul piano della politica naziona­le, non hanno avuto quasi riscon­tro nei municipi. E questo deve far riflettere. - NICO VALERIO


IMMAGINE. Giacomo Balla, Ritratto di Ernesto Nathan (1910). Balla fu un grande esponente della corrente futurista e della pittura del primo Novecento.

AGGIORNATO IL 2 NOVEMBRE 2016

30 maggio, 2006

 

Era ora! L'Italia fuori dal Medioevo: riapre alla ricerca sulle staminali

Fabio Mussi non è il politico ideale per noi liberali, di qualunque tendenza si possa essere. Ma ha iniziato la sua carriera di ministro della Ricerca e dell'Università in modo pragmatico e liberale, dobbiamo ammetterlo. Ha compiuto un gesto semplice e di buon senso. Chapeau. A differenze degli ottusi suoi predecessori, i ministri della Ricerca e della Sanità della cosiddetta "Casa delle Libertà", che non facevano che vietare di tutto e di più (all'anima della libertà), e che sul tema della sperimentazione sulle cellule embrionali staminali avevano remore degne dei papi del Medioevo, al puro scopo di ingraziarsi le alte sfere del Vaticano. Che poi, come ringraziamento, ha mandato la Binetti, presidentessa di "Scienza e Vita" a candidarsi nella Sinistra. Anche ingrati 'sti preti, dopo tutti i danni che hanno fatto, sia al Centro-destra, costringendo i suoi elettori più liberali e laici ad abbandonarlo per votare i Radicali della Rosa nel Pugno (il che ha determinato matematicamente la sconfitta di Berlusconi), e sia all'Italia, in termini di blocco alla ricerca scientifica e d'immagine internazionale. (Nico Valerio)
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Il neoministro della Ricerca e dell'Università, Fabio Mussi, ha ritirato la firma dell'Italia alla 'Dichiarazione etica' con cui cinque Stati membri avevano espresso una pregiudiziale contraria alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. "Mi sono permesso di ritirare la firma dell'Italia alla 'Dichiarazione etica', che era stata proposta lo scorso 29 novembre", ha reso noto il ministro, durante un incontro con la stampa a margine del Consiglio Competitività dell'Ue oggi a Bruxelles.
In calce alla 'Dichiarazione etica' restano ora solo le firme di Polonia, Slovacchia, Germania e Austria. Sulla ricerca sulle staminali "l'Italia ha una legislazione restrittiva che, io penso, occorra almeno parzialmente modificare", ha ricordato Mussi, puntualizzando che, tuttavia, "qui non si tratta della legge italiana, ma della posizione dell'Italia nell'Ue, e non vedo perché dovremmo farci promotori del massimo della restrizione in Europa", su questo argomento.
"Non credo sia giusto che l'Italia ponga un ostacolo restrittivo alla ricerca europea e che tenti così di 'esportare' la propria legislazione interna le altre legislazioni vanno rispettate". Secondo il ministro bisogna "cogliere l'opportunità di un uso controllato delle staminali per la ricerca" in particolare sulle cellule "soprannumerarie" altrimenti avviate alla distruzione.
Mussi ha citato il recente intervento del ministro Bindi: "Muovendosi ragionevolmente lungo una linea di compromesso, qualche miglioramento alla legislazione italiana ci può essere", come si accenna anche nel programma elettorale dell'Unione, che "prevede ipotesi di minori restrizioni". Alla luce di queste considerazioni, ha concluso Mussi, "non mi sembrava il caso di confermare in sede Ue una posizione rigida di totale chiusura, e quindi non ho insistito per l'approvazione di quella dichiarazione. In Italia, poi, con la nostra legge, ce la vedremo noi". (da Bruxelles, Apcom, 30 maggio 2006)

 

"Dio, dov'eri, perché l'hai permesso?" I dubbi del finto-ateo Ratzinger

"Dio, Dio, perché mi hai abbandonato? si lamentò l'ebreo Gesù sulla croce, a quanto riferiscono i Vangeli. E così nacquero, proprio da parte del suo fondatore, le recriminazioni apparenti della religione cristiana contro la divinità. In effetti, quello che paradossalmente a noi razionalisti, miscredenti, agnostici o atei risulta quasi una bestemmia, non è infrequente nella cultura ebraica. I cattolici meno, forse, perché certe cose ormai se le permettono di più con i Santi. Una vecchia pia donna in nero di Pescara, ricordiamo, arrivava a minacciare la statua del Santo Patrono: "San Cetteo, guarda che se ti comporti come l'ultima volta, se non mi fai avere quella grazia che sai, con me hai chiuso. Hai chiuso!" E a questo punto alzava la voce, tanto che tutte le beghine in preghiera si voltavano" E incalzava, forse vedendo il santo intimorito: "Anzi, sai che ti dico, san Cetteo? Convinco pure Don Gabriele a toglierti il bussolotto delle offerte. Così, vediamo se metti la testa a posto".
Da liberale rispettoso, sia pure ateo, ero allibito: si trattano così i Santi? Mancava poco che intervenissi a difesa della "lesa maestà" del povero - e sempre più povero senza le offerte - San Cetteo, ricattato dalla vecchia megera.
Gli ebrei, invece, sono abituati da millenni a trattare il Signore Innominabile a tu per tu, ma senza fanatismi e senza eccessi italici, non avendo per fortuna i Santi. Non solo nella Bibbia e nelle storielle ebraiche, ma anche nella vita reale, abbiamo trovato ebrei che simpaticamente rimproveravano, contestavano, patteggiavano, ricattavano il loro Dio. Questa familiarità, questa umanizzazione ingenua, anzi, è il lato più divertente della religione monoteista, e ci riporta alle figure mitologiche degli dei antichi, trattati da re e popolo più o meno come uomini qualunque, potenti e bizzosi, sì, ma umani, troppo umani. Segno ulteriore che le "Divinità" erano state inventate all'alba della vita dell'uomo come instrumentum regni, cioè sostegno per il potere, ma anche per la facile consolazione degli uomini.
NICO VALERIO
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"Dio dov'eri? Perché hai permesso tutto questo?" Ecco, ora la colpa è di Dio. E secondo papa Ratzinger! Quando si tratta dei tedeschi assassini ...Ma il suo dio non ha concesso agli uomini il libero arbitrio? Che strano...Non ci si appella al libero arbitrio, in questo caso. No. La colpa è di "pochi gerarchi hitleriani e discolpa il popolo tedesco dalle responsabilità collettive". Soprattutto discolpa la Chiesa cattolica. Ma, del resto hanno sempre fatto credere che il loro Dio sia onnipotente, quindi, Dio, di fronte a quegli orrori non ha fatto nulla per fermarli. Quindi, in questo caso, la colpa è di Dio. Forse era a farsi un giretto, sai, per distrarsi un po', e allora si è dimenticato degli orrori. Se fossi religiosa mi offenderei! Fortunatamente so che Dio non esiste, per cui... me la prendo con quei razzisti, quegli omofobi, quegli xenofobi ecc... Gran relativista questo Ratzinger! Gran furbacchione. Grande stratega. Grande....continuate voi.
ROSALBA SGROIA

28 maggio, 2006

 

Stampa italiana corrotta: silenzio sui candidati alternativi

Si sa come si diventa giornalisti in Italia: o perché figli di giornalisti, o amici di qualcuno, o affiliati ad un partito. Merito? Non lo si pretende mai. Anzi, se un giornalista bravo, perfino un collaboratore bravo, si affacciasse in redazione, sarebbe sbranato vivo dai colleghi invidiosi e cacciato da direttori più attenti all'ordine interno e alla volontà dei tanti raccomandati di redazione che al talento di uno solo. I giornalisti bravi, proprio come i liberali, non sono tollerati. Perché sono un'imbarazzante pietra di paragone. Con la loro stessa presenza stanno a dimostrare che gli altri non sono bravi (o non sono liberali).
Ebbene, la selezione strumentale delle notizie secondo teoremi politici che fanno comodo al giornale o ai giornalisti, che spesso sono di fatto impiegati statali, visto che i giornali italiani vivono di contributi pubblici, è la conseguenza diretta dello scarso merito professionale. I più proni a seguire le veline, a deformare la realtà, a eseguire le mistificazioni più grossolane, sono infatti i giornalisti meno bravi. Perché il bravo possiede e coltiva un ideale di perfezione che stride a contatto con l'imbroglio o l'autocensura.
Non ci meravigliamo, quindi, che a Milano un egregio e coraggioso candidato sindaco, il liberale e indipendente arch. Pagliuzzi, sia stato ignorato completamente dalla stampa gregaria che aveva avuto l'ordine di concentrarsi chi sulla Moratti, chi sul Ferrante, cioè sui due candidati della oligarchia spartitoria, per dirla alla Pannella (Nico Valerio).
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La campagna elettorale è finita. Ora, quando tutto è compiuto, dobbiamo elevare il nostro sdegno, la nostra voce libera, l'incredulità di gente onesta e di liberi cittadini per come la stampa cosiddetta libera ha trattato e non "coperto" le elezioni amministrative.
In tutti i mercati milanesi abbiamo incontrato tantissima gente che non voleva votare per i due candidati sindaci preordinati dall'alto (come due facce di una stessa medaglia) e coperti dal battage mediatico dei poteri forti di un'Italia in disfacimento. Ma questa gente non sapeva dell'esistenza di altri 9 candidati sindaci. Non era a conoscenza di candidato sindaco liberale a Milano. Quelli che abbiamo raggiunto han preso nota, han capito, han detto che voteranno per noi. Ma sono una minima parte di un'opinione pubblica deliberatamente tenuta all'oscuro dai CdS, dai Fogli, dai Liberi, dalle Repubbliche. Da tutti quei sedicenti giornali democratici che fanno del mantenimento della loro posizione dominante la causa principale della loro esistenza. E che incassano contributi pubblici (quindi anche i nostri e i vostri) per far da grancassa ai padroni del vapore.
Scandalosi, signori giornalisti. Siete scandalosi. Siete l'ennesima vergogna dell'italia. Buoni a parlare solo se qualche giudice compiacente tira fuori delle intercettazioni telefoniche. Schierati con il cervello all'ammasso.
Non vogliamo parlare di noi. Ma diciamo: un candidato sindaco liberale a Milano avrebbe almeno meritato - che dire - un'intervista. Non pretendevamo una pagina al giorno come per il prefetto prestato alla politica o alla ministra chiamata a Milano. Ma almeno un'intervista. Nulla. Come è nulla la vostra onestà.
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MARIO CAPUTI

20 maggio, 2006

 

Relativismo liberale? Tra libertà, diritto, etica pubblica e morale privata

Un liberale è tenuto a fare professione di relativismo? Nico Valerio, molto opportunamente, distingue tra ciò che attiene alla concezione dello Stato liberale e ciò che riguarda il singolo individuo.
Come afferma la nostra Costituzione, all’articolo 3, primo comma, tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge "senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". Quindi, dal punto di vista dello Stato, vale la regola dell’irrilevanza delle fedi religiose, o delle opinioni politiche; nel senso che, ad esempio, il professare una determinata religione, invece di altre, o il dichiarare l’appartenenza ad un determinato partito politico, non devono mai comportare un trattamento differenziato (in positivo ed in negativo) dinanzi alla legge.
Tuttavia, la stessa Costituzione, all’articolo 19, nell’affermare il diritto fondamentale che ciascun soggetto ha di professare liberamente la propria fede religiosa, tanto in forma individuale quanto in forma associata, pone un limite: "purché non si tratti di riti contrari al buon costume".
Ciò significa che se le fedi religiose in astratto sono tutte ammissibili al cospetto dello Stato, rileva invece il modo concreto con cui si pratica il culto e la legge può proibire alcuni riti. Ipotizziamo dei seguaci di una setta satanica i quali compiano strani riti che contemplino atti di violenza, magari soltanto simbolici. Fermo restando che comportamenti che integrano specifiche fattispecie di reato vanno repressi in quanto tali (ad esempio, un sacrificio umano integra un omicidio, con possibilità di aumentare la pena quando ricorrano circostanze aggravanti), a mio avviso le leggi dello Stato ben potrebbero proibire in linea generale ed astratta riti inerenti a sette sataniche conosciute, e prevedere la sanzione di manifestazioni concrete in tal senso. Non ritengo che per questo lo Stato perderebbe le sue caratteristiche di Stato liberale e laico. Per quanto mi riguarda, il mio liberalismo non include la difesa della libertà altrui di praticare culti satanici.
Valerio Zanone, nell’articolo citato da Nico Valerio, ha ricondotto il relativismo allo storicismo. In effetti, dal punto di vista storico, è evidente che tutto è relativo: le istituzioni, i costumi, le leggi positive, mutano con il passare del tempo.
Eppure Benedetto Croce, che di storicismo un pò si intendeva, ha insegnato a distinguere tra ciò che attiene all’etica (volizione dell’universale), e ciò che attiene all’utilità che il soggetto ricerca ed al suo desiderio di soddisfare i propri appetiti vitali (volizione dell’individuale). Secondo Croce i due momenti sono distinti, coesistono in ogni persona, e sono in rapporto dialettico fra loro.
Un filosofo che seriamente studi il problema etico, mai e poi mai arriverà alla conclusione che la morale è un fatto individuale e ci sono tante morali quanti sono gli individui pensanti. Non potrebbe mai arrivare a questa conclusione, perché se ci sono infinite morali possibili – e tutte giustificate per il semplice fatto di essere concepite – il risultato ultimo è che non c’è alcuna morale.
Per comprendere cosa sia l’etica, a mio avviso bisogna partire da Immanuel Kant, filosofo al quale pure la concezione liberale deve qualcosa. Il problema di Kant è quello di conciliare una morale autonoma (che il soggetto stesso si dà facendo uso della propria ragione) con dei criteri formali i quali consentano di individuare leggi morali universali, cioè tendenzialmente valide per tutti gli esseri umani, così come sono universali le leggi di natura.
Per quanto riguarda l’insistenza sull’esigenza che la morale sia autonoma, ognuno comprende quanto sia più forte e sicura una regola che il soggetto spontaneamente accetta in quanto razionalmente la condivide, rispetto ad un comandamento imposto da un’autorità esterna. Quest’ultimo sarà violato tutte le volte in cui l’autorità esterna non è nelle condizioni di accorgersi dell’inosservanza.
Per quanto riguarda l’insistenza sul necessario carattere universale delle leggi morali, pensiamo alle tante cose che accomunano gli esseri umani: tutti nati da donna, tutti destinati a morire. Non è forse vero che, nel divenire della Storia, l’unico elemento di sicuro progresso va individuato nel fatto che sono stati affermati, e faticosamente si cerca di fare rispettare, diritti fondamentali di ogni essere umano in quanto tale? Non è forse vero che chiunque avverte immediatamente la differenza fra società in cui i detentori del potere possono commettere qualsiasi arbitrio e qualsiasi violenza in danno delle persone soggette alla loro autorità, e società regolate dalla concezione dello Stato di Diritto, secondo cui tutti i governanti e tutti i pubblici amministratori sono soggetti alla Costituzione ed alle leggi, ed i diritti di ogni cittadino sono garantiti e "giustiziabili" (suscettibili, cioè, di essere affermati da magistrati, terzi ed imparziali)?
Si può dire che una legge morale universale vieta lo sfruttamento dei bambini e dei minori? Sì, si può dire. Si può dire che una legge morale universale vieta la tratta degli schiavi? Sì, si può dire. Si può dire che una legge morale universale vieta di farsi giustizia da sé? Sì, si può dire. Queste leggi morali universali sono cosa diversa dalle leggi positive dei singoli stati. E sono più importanti di queste ultime, perché costituiscono il parametro per giudicarle.
C’è un minimo comune denominatore etico fra gli esseri umani e tutti abbiamo interesse a riconoscere questo dato, mentre abbiamo tutto da perdere se lo mettiamo in discussione facendo professione di relativismo.
Come Nico Valerio ha opportunamente messo in evidenza, il liberale non è uno scettico, né è indifferente. Un liberale può benissimo avere la tempra del combattente, che nulla concede ad idee ed opinioni che ritiene sbagliate per la civile convivenza. Il problema è che ogni possibile controversia teorica, o conflitto pratico, devono arrestarsi ad un certo limite. Il limite è quello del rispetto dell’altro, in quanto persona umana. In termini religiosi, si direbbe: tutti siamo figli di uno stesso Dio e quindi dobbiamo sempre riconoscere nell’altro nostra sorella, o nostro fratello.
Il liberale può avere convinzioni altrettanto salde di quelle di chi è credente in una fede religiosa, o in una qualsiasi ideologia politica. La differenza è che il liberale, se è veramente tale, non deve arrivare al fanatismo. Ad un certo punto deve lasciar perdere il consequenziarismo logico. L’avversario di oggi può essere l’alleato, o l’amico, di domani.
Altro requisito costitutivo di un punto di vista liberale è l’amore della verità, che non si arresta mai, ma sempre spinge ad andare oltre, per superare ulteriori prove, per avere altre verifiche. La verità si ricerca nel dialogo con gli altri: con i vivi e con i morti (che ci hanno lasciato un’eredità di pensiero ed un patrimonio di cose materiali). Da questo punto di vista, ogni altro essere umano è, potenzialmente, l’anello mancante della catena che stiamo costruendo nella nostra ricerca della verità: da tutti possiamo imparare qualcosa, esattamente come lo scambio (il commercio) è il fondamento dell’economia.
Anche questa attitudine al dubbio metodico, all’auto-critica, a mettersi continuamente in discussione nel confronto con gli altri, è cosa ben diversa dal relativismo. Questo, se male inteso, potrebbe portare a teorizzare la "libertà di fare i propri comodi", tanto non ci sono certezze ed ognuno fa un po’ come gli pare. Chi cerca sempre la verità, e non si stanca di cercarla, lo fa proprio perché non si appaga di una concezione volgarmente relativista.
Quanto detto non ha nulla a che vedere con la "politica – politicante". Per una volta, voliamo alto. Ci sono cose ben più importanti della politica, e dell’avere, o non avere, successo mondano. La cosa più importante è dare un senso alla propria esistenza e potere così affrontare serenamente la morte, quando verrà. Tanto, una volta varcata la soglia fatale, tutte le ricchezze, tutto il successo, tutto il potere, di questo mondo non valgono più nulla. Si può sperare invece, che qualcosa resti nella catena degli affetti e del pensiero.
LIVIO GHERSI

18 maggio, 2006

 

Liberali insieme arbitri e giocatori. Dal laicismo al relativismo. Perfino cristiano

No, non pensate allo scandalo del calcio all'italiana e agli arbitri di calcio corrotti. Ma i liberali hanno il privilegio unico di essere insieme arbitri (Stato liberale) e giocatori (partiti o movimenti liberali, cittadini liberali). Ecco l'origine di tanti equivoci e discussioni: si tratta di due piani del tutto diversi.
Lo Stato liberale è neutrale. Deve garantire la libertà delle idee del fascista e del comunista, dell'islamico e del cristiano. Senza parteggiare. Ma, attenzione, finché il gioco non si fa scorretto o la partita non si mette male per il liberalismo: in questo caso interviene, e pesantemente. E punisce il giocatore prepotente che impedisce all'altro di tirare in porta (cioè di manifestare o di realizzare le sue libertà). Perché le libertà vanno sempre salvate e devono sempre vincere, comunque vada la partita. Inutile che gli anti-liberali facciano i furbi: non si possono usare strumentalmente le libertà liberali per abbattere il liberalismo. Questo come Stato, come diritto, come società.
Ma i singoli liberali (e un partito liberale), altro che "neutrali": sono parzialissimi, e giocano anche duro la loro partita tra le altre squadre di avversari. E criticano e rompono le balle. E qualche calcetto negli stinchi lo tirano, eccome.
Ecco il bello, e il comodo, del liberalismo: giochiamo come giocatori e come arbitri. Ma su due piani diversi. E gli avversari - ma purtroppo anche tanti pseudo-liberali - non lo capiscono. E spesso confondono tra i due piani: di qui le tante diatribe, le molte polemiche. Stato liberale, cittadino liberale. Liberalismo come Governo e come regole. Liberalismo come ideologia o dottrina politica-economica-sociale.
Ripensavamo a queste fondamentali distinzioni leggendo l'articolo che Valerio Zanone ha scritto sull'Europa. Rieletto parlamentare dopo molti anni, la rielezione gli ha fatto bene: si è risvegliato dal suo lungo sonno. Speriamo che si ridestino anche le altre "brutte addormentate" (la venustà, ahimé, non è mai stata una caratteristica dei liberali, da Croce ad Altissimo...), cioè i tanti liberali del Centro-destra che viziati dalle poltrone sicure e dal carisma berlusconiano - e il carisma non è una virtù liberale - sembrano ormai persi per qualunque discorso sulla riunificazione dei liberali. Anzi, alcuni di loro sono stati retrocessi al rango di "ex liberali", e se continuano così sono destinati al girone infernale dei liberali "sedicenti".
Il redivivo Zanone, dunque, che più che un politico è un acuto intellettuale, col pretesto di intervenire sul futuribile "Partito Democratico" moderato del Centro-sinistra, pretendendo giustamente che accanto alle componenti socialdemocratiche e cattolico-democratiche sia presente anche quella liberaldemocratica, in realtà ha scritto sull'Europa un bell'articolo pieno di principi di base che si sovrappone perfettamente a quelli che da due anni il Salon Voltaire propone sull'argomento.
Il liberalismo - come Istituzioni, come Stato, specifichiamo - è soprattutto laicismo, cioè indipendenza dalle religioni e dalle filosofie, obiettività e neutralità attiva delle "regole del gioco". Ma è anche relativismo, cioè confronto dialettico e contemporanea presenza delle più diverse idee e Weltanschaungen. Questo come Stato liberale, insistiamo. Perché poi, come singoli cittadini, come individui pensanti, i liberali non devono essere nient'affatto relativisti. Ecco l'equivoco su cui cascano i tanti asini non liberali. Una "ideologia" ci deve essere, eccome. Anzi, i liberali tenderanno a realizzare con determinazione le riforme liberali nella politica, nell'economia, nella società. E avranno le loro idee forti su tutto. E saranno idee parziali, esclusive, perché per un liberale la vita è dialettica, lotta. E questo liberalismo come idea sarà il peso più importante sulla bilancia, vista la relativa scarsa importanza che lo Stato ha per i liberali.
Comunque, torniamo alla laicità e al relativismo della società e dello Stato liberale a cui si riferisce Zanone. Ecco perché gli anti-liberali e i finto-liberali che vergognandosi di definirsi reazionari o conservatori vogliono lucrare sulla bella parola, se la prendono tanto con questi due basilari fondamenti del liberalismo. Tolti i quali, aggiungiamo noi, che resterebbe? Individuo, Stato minimo e mercato: tre temi che se isolati non fanno il liberalismo, ma il conservatorismo.
Il relativismo - scrive in sostanza Zanone - non è indifferenza verso qualsiasi valore, ma apprezzamento in relazione all'evoluzione storica. La laicità dello Stato non è una scatola vuota ma si fonda sul valore della libertà di coscienza, valore fondativo del laicismo liberale.
La laicità è un muro maestro, così come il pluralismo, e non solo per un eventuale partito democratico ottenuto dalle più diverse esperienze. Una democrazia pluralista è per definizione una democrazia laica. La grande scommessa sta nell'intendere il pluralismo, culturale e quindi politico, non come diversità conflittuale ma come dialogo costruttivo.
I casi incoraggianti per il momento non sono molti. Il più autorevole fra i recenti viene dal cardinale Martini, che ha ammonito i credenti a rispettare la libertà di coscienza "anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare". Non a caso il cardinale Martini è fra i pochi che non scagliano anatemi contro il relativismo dell'etica civile, ed anzi riconosce la realtà storica del relativismo cristiano, nota Zanone.
La polemica contro il relativismo - continua l'articolo sull'Europa - è la prima questione sulla quale fra laici (anzi, laicisti) e cattolici ci si deve intendere. Nella cultura italiana il relativismo è una derivazione diretta dello storicismo. Non significa indifferenza verso qualsiasi valore, ma al contrario apprezzamento dei valori in relazione all'evoluzione storica. Quando durante il Giubileo la Chiesa ha chiesto perdono a se stessa ed al mondo per gli errori tragici compiuti nei duemila anni della sua storia, ha con ciò compiuto un atto di relativismo, nel senso che ha riconosciuto la variazione degli standard etici in relazione al momento storico.
Vi sono altre questioni su cui laìcisti e cattolici si devono intendere. La prima riguarda appunto la distinzione fra laicità (dello Stato) e laicismo (nelle coscienze individuali). La laicità dello Stato non è, come pretendono gli atei devoti, una scatola vuota. La laicità dello Stato si fonda sul valore della libertà di coscienza, che è il valore fondativo del laicismo liberale. Lo Stato laico è eticamente neutro ma non vuoto. La libertà individuale di coscienza forma la società pluralista, e il pluralismo etico della società civile deve essere garantito dalla neutralità etica dello Stato. La laicità dello Stato è la forma istituzionale del laicismo liberale, ossia del laicismo inteso non come ostilità verso la religione ma, come eguale libertà di tutte le confessioni religiose.
Ne consegue un'ulteriore questione circa lo spazio in cui si esprimono i valori religiosi. È sbagliato, e in Italia quasi assurdo, ritenere che il laicismo restringa i valori religiosi nella sola sfera privata. Il dialogo pluralista ed il reciproco ascolto presumono la presenza dei valori religiosi e delle organizzazioni cattoliche nello spazio pubblico. Ma lo spazio pubblico in cui le organizzazioni religiose fanno valere le proprie visioni è appunto quello della società pluralista, non quello dell'ordinamento normativo: pretendere che le convinzioni di fede si traducano in legge obbligatoria anche per non credenti o diversamente credenti, significa offendere la libertà di coscienza che è costituzionalmente protetta.
Il fatto nuovo rispetto a tali antiche questioni è l'irruzione, in una società ormai anche in Italia multietnica ed interculturale, degli atei devoti (in America protestanti, in Italia cattolici) di cui si occupa nel suo ultimo libro Massimo Teodori (I laici, ed. Marsilio). La loro pretesa di trasportare indebitamente i precetti della religione dentro i vincoli normativi prescinde dalla fede nella trascendenza e configura l'ennesima versione della religione utilizzata come instrumentum regni a scopi totalmente politici, nell'erroneo presupposto che ciò costituisca un antidoto al fondamentalismo islamico: che viceversa ha per nemico dichiarato proprio lo Stato laico derivante dal processo di secolarizzatone occidentale.
Di fronte all'offensiva degli atei devoti, è quanto meno ingeneroso il sospetto che il laicismo liberale sia trincerato negli steccati ottocenteschi della questione romana. Non si tratta di restare nei vecchi steccati, si tratta di evitare che se ne alzino di nuovi. Ma se è lecito un invito ai cattolici militanti, vorrei riprendere quanto ha scritto su Europa Andrea Bitetto: non è il caso di irridere alla tradizione risorgimentale in cui si formò l'unità della nazione e con essa la libertà dei cittadìni. L'anticlericalismo massonico della disputa fra Stato e Chiesa è consegnato alla storia - conclude Zanone giustamente storicizzando - ma i suoi eccessi risultano veniali rispetto all'enciclica Mirari Vos di Gregorio XVI che (lo ricorda Enzo Marzo nel libro Le voci del padrone, ed. Dedalo) condannava la libertà di coscienza come "errore velenosissimo".

07 maggio, 2006

 

Ma Maria di Magdala sposò o no Gesù, cioè il capo-banda Giovanni, figlio di Giuda il Galileo?

Favole, leggende manipolate e storia: come orizzontarsi? Per rispondere alla domanda su Maria di Magdala e Gesù che si pone ogni lettore del Codice da Vinci di Dan Brown, bisogna considerare altre due persone, Lazzaro e Menahem, coinvolte in questo matrimonio sia dai Testi Sacri che dai libri storici. Nei Vangeli si legge che Gesù era il maestro di una squadra formata da dodici discepoli, che Maria di Magdala era colei che a Betania gli aveva lavato i piedi e che Lazzaro era fratello di Maria di Magdala, nonché figlio di Giairo (v. miracolo della resurrezione: Mt. 9,18; Mc. 5,11; Lc. 8,4; Gv. 11).
      Dai testi storici risulta che Gesù è stato costruito sulla figura di Giovanni di Gamala, figlio primogenito di Giuda il Galileo e capo di una banda di rivoluzionari ("Bohanerges"). Dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio veniamo inoltre a sapere che Lazzaro, figlio di Giairo, era legato da vincoli di parentela con Menahem, figlio di Giuda il Galileo. Sarà da questa parentela di cui ci parla Giuseppe Flavio, che potremo, oltreché confermare l’esistenza del matrimonio, trarre anche un’ulteriore prova della non esistenza storica di Gesù. Infatti questa parentela risulterebbe incomprensibile se lo sposo fosse veramente figlio di Giuseppe, e non di Giuda il Galileo, come risulta dalle innumerevoli affermazioni che ci vengono dai testi storici.
      Menahem e Lazzaro, quali fratelli dei due coniugi, l’uno dell’uomo e l’altro della donna, ci confermano con la loro parentela di cognati che il matrimonio esisteva e che lo sposo era il primogenito di Giuda il Galileo. Che Gesù, alias Giovanni di Gamala, fosse marito di Maria di Magdala ci viene ancora confermato da altri documenti che si riferiscono a quella banda dei Bohanerges, poi trasformata nei Vangeli in una squadra di discepoli predicatori di pace.
      Dal "Vangelo di Filippo" ritrovato in Egitto nel 1945 durante ricerche archeologiche: "Maria, che era la consorte del Signore, andava sempre con lui. Il Signore amava Maria di Magdala più degli altri discepoli e spesso la baciava davanti a tutti sulla bocca". Nel papiro 8502 di Berlino, detto "Vangelo di Maria", si parla della gelosia e del risentimento che gli altri discepoli, e soprattutto Simone, provavano per la predilezione che il Signore riservava a Maria: "Ha forse il Signore parlato in segreto alla sua donna prima che a noi senza farlo apertamente? - è Simone, altro figlio di Giuda il Galileo, che parla - Ci dobbiamo umiliare tutti e sottoporci a lei? Forse egli l’ha anteposta a noi?".
      Dal vangelo copto viene riportata un’altra contestazione di Pietro contro Maria di Magdala: "Simone, detto Pietro, disse agli altri accoliti: "Maria deve andare via da noi perché le femmine non sono degne della vita". E il Signore, avendolo sentito, si rivolse a loro dicendo: "Ecco, io la guiderò da farne un maschio, affinché diventi una combattente come noi".
      Soltanto il disprezzo che dimostra Simone verso le donne dicendo che non sono degne di vita, sarebbe già di per sé sufficiente per dimostrare che abbiamo davanti una banda di rivoltosi giudaici seguaci delle leggi Mosaiche nella forma più estremista.
      A questo punto, penso che non sia troppo avventato supporre che tra i presenti a quella cena di Pasqua che precedette la rivolta, ci fosse anche lei, Maria di Magdala, quale moglie di Giovanni di Gamala e membro attivo combattente della banda dei Bohanerghes. Così scrivevo nel libro "Favola di Cristo", uscito nel 2002, quando ancora nessuno aveva scoperto che nell’Ultima cena di Leonardo da Vinci si nascondesse il volto di una donna in quello del discepolo Giovanni. Discepolo che, in realtà, non c’era, non poteva esserci, perché il vero apostolo amato da Gesù era Lazzaro.
LUIGI CASCIOLI

 

Nuova Inquisizione: un povero Cristo rimesso in croce. Dai cattolici

Chierici e cardinali, sollecitati da finti laici e atei devoti con l'invito a suonare le campane di tutte le cattedrali contro la diffusione del libro e del film sul Codice da Vinci, si stanno mobilitando in una campagna mediatica e probabilmente anche giudiziaria contro il romanzo di Don Brown. Ma l'aspetto più paradossale della vicenda è che viene contestato un normalissimo prodotto letterario (non un libro sacro) in cui un povero Cristo uomo-uomo si innamora di una donna-donna e genera figli con lei seguendo i più naturali metodi naturali. L'unica astuzia, usata peraltro da moltissimi poeti e scrittori nei 5000 anni circa dall'invenzione della scrittura, è quella di lasciar credere che la vicenda abbia un qualche riscontro storico documentabile.
Apriti cielo, è il caso di dire. I detentori esclusivi del copyright sulla storia dello stesso personaggio nel libro chiamato Nuovo Testamento, in cui il povero Cristo (uomo ma anche dio, nato da una vergine mediante un misterioso intervento soprannaturale, morto ma risorto dopo tre giorni) compie straordinari quanto poco verosimili miracoli che gli arrabbiatissimi esegeti del sacro testo pretendono essere più credibili del concorrente sotto accusa, fanno il diavolo a quattro.
Se mai si arriverà in tribunale ed al confronto fra i due testi in causa, siamo molto curiosi di vedere se il Cristo presentato dalla Chiessa cattolica sarà giudicato più credibile di quello presentato da Don Brown (Giulio C. Vallocchia, pres. NoGod).

02 maggio, 2006

 

Intervista esclusiva. Berlusconi: “Basta, mi ritiro a fare il sindaco a...”

Si ritira dalla politica? Non si ritira? Le folate del venticello malandrino si rincorrono in un Transatlantico semideserto, ex "corridoio dei passi perduti". Dopo tante sconfitte “onorevoli”, che dico, vere e proprie "vittorie morali", il fido, macché, l'infido Letta gli sta suggerendo di prevenire le Procure di mezza Italia e di uscire dal proscenio con un altro dei suoi famosi coups de théatre. Ma ora, approfittando della crisi, finalmente, sembra che si sia deciso. A che cosa? Alle dimissioni formali. Chi? Ma il Berlusca, cribbio. Possibile? Sicuro. Come anticipato da varie telefonate intercettate, toglie il disturbo. Una volta tanto con eleganza. L’ultima. Per fare che? Il sindaco.
No! Certo che, se è vera, è una notiziona da far diventare rossi per l'ipertensione molti direttori di giornali, da far impallidire per il panico molti politicanti di mezza tacca del Centro-destra: che lavoro fare ora nella vita, loro che non sanno fare niente?
Oddio, che disastro! Che ne sarà, ahimé, dei vignettisti? E di Travaglio? E delle Olgettine? E delle escort baresi? E, figuratevi, non solo la “stampa” (be’, sì,  il nome è un po’ eccessivo) amica, ma anche la nemica, che ora si vedrebbe mancare all'improvviso, sia pure dall'opposizione, il miglior collaboratore, volevo dire il più facile obiettivo per i propri strali. Per esempio, come intitolare, senza Berlusconi, loro che non sanno fare i titoli? Insomma, davvero un dramma corale. Una tragedia giornalistica. Immaginiamo già il titolone (sbagliato) dell’Unità: prenderà mezza pagina, sarà troppo nero, e così il giornale sporcherà le mani ancor di più. Forse anche con risvolti economici. Ci costerà un punto di PIL solo in sbandamento psicologico. Produzione negli uffici italiani il giorno del comunicato definitivo: zero.
Comunque il Cavaliere, martire sì, ma fino a un certo punto, non vuole fare la fine di Craxi. A differenza del leader socialista, ha individuato per tempo, grazie al mastino ministro dell’Interno (buono quello!), nomi e indirizzi dei finti "amici". Mica per altro, non temete, solo per mandargli una lettera a sorpresa, più ironica e soft di quello che loro si aspettano, conoscendo il personaggio: "Cari amici, approfittando della crisi vi lascio. Lieto della vs. collaborazione… ecc.". Così, grazie all’aiuto non disinteressato di un collega, siamo riusciti ad intervistarlo. Ammettiamolo: è il colpo della nostra carriera:
 
- Sono vere, Presidente, le voci che…?
- Ma sì, basta con tutti questi traditori, mangiapane a ufo. Mi costano un occhio della testa. E io, pirla, che li ho invitati tutti nella villa in Sardegna… Sapete che faccio? Li lascio tutti con un palmo di naso. Non mi faccio bollire a fare il capo dell'opposizione. Mi ritiro in un paesino sperduto… Be’, sperduto proprio no, deve essere a un’ora di macchina o un quarto d’ora di elicottero dall‘aeroporto…
- A fare che, scusi…
- Il sindaco
- Il sindaco, Presidente?
- Sì, il sindaco. Tutti i francesi lo fanno prima di diventare ministri, e non lo posso fare io dopo aver fatto di tutto?
- Scusi, Presidente, ma lei, come dire, a quel paese ci va di sua volontà o, come dicono a Roma, ce lo hanno mandato?
- Non faccia lo spiritoso, è una mia scelta, figuriamoci se gli davo una soddisfazione del genere ai corvi della Sinistra e della Destra. Eppoi, mi consenta, vuol mettere la soddisfazione di lasciare nella merda la Destra, la Sinistra e soprattutto i comunisti?
- Come sarebbe, "nella merda"?
- Sì, mi scusi la parola inelegante, ma lei capisce che senza di me, senza il Berluska, che cosa farebbero tipi come Cicchitto e via esemplificando per sbarcare il lunario? Non sanno fare nulla nella vita, tranne che parlare. Parassiti, parolai. Ma me la godo di più pensando al centro-sinistra.
- Come, "se la gode", Cavaliere? Quelli saranno contenti, altroché, di non vederla più a Montecitorio. Faranno i cortei con le fiaccole, e andranno alla messa di ringraziamento pure gli atei...
- Lei dice? Sì, forse, il primo giorno. Ma poi? Immagini uno come Bersani, che parla tanto senza mai dire nulla. Allora sarà costretto a inventarsi delle idee. Ma le ha? Ne dubito. E gente come Vendola? Ce li vede lei creare uno schema politico, un piano, o predisporre una grande strategia per la rinascita economica del Paese?
- Be', però, neanche lei ha fatto molto, Presidente, lo ammetta...
- E per forza. Avrei voluto vedere lei, con tutti quei democristiani attorno a controllarmi, a frenarmi, al di qua e al di là del Tevere: "Ruini vuole questo, Bertone vuole quest’altro, Sua Santità suggerisce quest’altro ancora…” E i monsignori, i commercianti, i farmacisti, i notai, gli avvocati, i tassisti, i guardamacchine... Tutti a tirarmi per la giacchetta. Comunque, senza il mio nome odiato che la teneva artificialmente incollata, la Sinistra non saprà più che dire e che fare. Resterà con un palmo di naso. Si accorgerà di non avere nessun argomento in comune. La fine, mi creda. Una figuraccia col pubblico degli elettori moderati, e perfino con gli ultrà, gli anti-Tav, i no-global, che scopriranno che razza di gente c’è alla mia sinistra. Insomma, per loro sarà la crisi più nera, polemiche a iosa, secessione continua. Quelli, creda a me, non hanno uno straccio di idea in comune, che è una. Sono uniti solo dall’odio verso di me. E sa che le dico? Che estromesso me, anzi auto-esiliatomi, dopo un mese sentiranno la mia mancanza. Sarà la mia vendetta postuma! E l’uomo della strada dirà: “Si stava meglio quando si stava peggio...”
- Vabbè, Cavaliere, già sentita questa, non è una delle sue migliori. Ma ci parli del paesino.
- Ma come, non capisce? Almeno lì non mi rompono gli zebedei. Posso decidere, finalmente, almeno sul tipo di lampioni da mettere sul Corso e sul colore delle panchine. Finora neanche questo ho potuto fare.
- Be’, ora non si butti giù, Presidente, sarà un momento di depressione….
- Almeno lì, in quel paesino sperduto ma non troppo, gli onesti cittadini che lavorano terranno conto dei miei consigli.
- Lei crede, Cavaliere? Guardi che anche nei villaggi sperduti la famosa litigiosità italiana non dà tregua.
- Comunque ho messo al lavoro uno staff di tecnici della Protezione Civile, coordinato da Bondi, che oggi è senza lavoro, tutti muniti di mappe militari IGM a 1:25000, lente di ingrandimento, lista dei comuni italiani, annuario della Società Geografica, Touring Club, e un potente GPS dell’ultima generazione…
- E’ una notizia: Bondi sa usare il GPS?
- Be’, veramente no, ma sta frequentando un corso… Sa, lui in origine era contrario…
- Vuol dire che gli è rimasto il tic di quand’era comunista: tutte ‘ste diavolerie elettroniche sono il Diavolo capitalista-americano…
- Lei adesso esagera… Ma comunque sta imparando…
- E allora, Presidente, che ha trovato la commissione Bondi?
- Un grazioso paesino, proprio vicino a Roma…
- Si chiama?
- S.Polo…
- S.Polo? Non è possibile… E dove l’ha trovato?
- Qui vicino, a trenta chilometri. E non basta, sapesse. Il nome intero è ancora più bello per me: S. Polo dei Cavalieri. Mi consenta, una scelta obbligata.
 
NICO VALERIO

 

Cisnetto: i filo-occidentali da una parte, gli anti dall'altra. Per governare

Aderiamo, come Salon Voltaire e anche personalmente, all'idea avanzata da Società Aperta di una Assemblea Costituente come palingenesi di una Nuova Repubblica. In risposta al nostro precedente articolo sulla tesi di S.A., in cui in sostanza appoggiamo la riaggregazione dei partiti e l'esclusione delle estreme, ma facciamo notare che nell'auspicato Grande Centro ci sarebbero di nuovo tutti, dai cattolici di destra ai laici liberali, in una difficile coabitazione, Enrico Cisnetto ha la gentilezza di replicare. Però, non avendo letto gli articoli precedenti di Salon Voltaire, non sa quanto anche a noi diano fastidio le "categorie del Novecento" Destra-Sinistra, che usiamo solo in tono polemico o per farci capire da un'Italia ormai drogata dal tifo da stadio portato da questo bipolarismo ottuso.
E', anzi, il nostro leit-motiv ricorrente: basta con Destra e Sinistra che dicono poco o nulla e ben poco si differenziano tra loro. Ma noi lo diciamo anche in quanto liberali. E' vero, ha ragione Cisnetto, per essere giornalisti, categoria geneticamente senza ideologia, siamo troppo liberali, troppo ideologizzati. Ce li abbiamo tutti gli aggettivi: liberali, liberisti, laici. Ma tenga conto che lo scopo del Salon Voltaire, nato come newsletter (che a lui, credo, arriva fin dal primo numero del 2004), era ed è proprio quello di rinvigorire e riaggregare culturalmente i liberali italiani. Noi e Società Aperta, pur vicini e alleati, abbiamo fini ultimi diversi: loro (e anche noi), se posso semplificare, la razionalizzazione della politica e la governabilità in Italia, noi la presenza dei liberali nella società e nel Governo. E per evitare trasformismi all'italiana, ribaltoni e "inciuci", auspichiamo tre raggruppamenti chiari e limpidi, secondo le rispettive "idee": cattolici-consrvatori, liberali, socialisti. Socialisti, Cisnetto, non "progressisti". Figuriamoci: i progressisti siamo noi liberali. Non sarebbe più razionale, più anglosassone, cioè più onesto, anziché questi raggruppamenti italiani di puro potere, incapaci ma capaci di tutto, proprio perché senza idee?
Ah, dimenticavo, caro Cisnetto, il "liberal" che ti è scappato (un errore di battitura?). A quella "e" mancante ci teniamo. Salon Voltaire è e vuole essere liberale della più bell'acqua, e si rivolge a "tutti i liberali" secondo la nobile tradizione liberale europea e italiana, da Locke a Stuart Mill, da Cavour a Einaudi, da Croce a Hayek e a von Mises, da Tocqueville a Popper e a Gobetti. Tutti i "parenti", nessuno escluso, pur con le loro diverse idee, sono presenti nell'album di famiglia liberale. Pensa che perfino sull'attuale tessera del PLI, che finora ha appoggiato la CdL - forse per iniziativa del vice-segretario Savino Melillo, gobettiano - ci sono otto ritratti di liberali italiani del 900, tra cui Croce, Amendola e Gobetti. Perché tutti i liberali, se sono veri liberali, pur essendo in polemica tra loro, hanno in comune le libertà, i diritti del cittadino, lo Stato minimo, la laicità, il mercato. Perciò il liberalismo è vasto e vincente: ha le teorie pronte e gli intellettuali giusti per qualunque problema. (Nico Valerio).
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Leggo con piacere che Nico Valerio apprezza le tesi di Società Aperta, almeno in termini di analisi. Ma avanza alcune obiezioni circa il che fare, cui ho piacere di rispondere per chiarire a quel mondo liberal che Salon-Voltaire rappresenta, le strategie di un movimento (non un club) come Società Aperta che intende incidere sulle scelte politiche del Paese e non semplicemente “testimoniare” una qualche linea culturale. Ecco le mie risposte, schematicamente.
1) Valerio usa categorie del Novecento, come destra-sinistra, moderati-progressisti, che francamente ritengo superate. Non in nome di un generico pragmatismo, di cui pure faccio uso senza reticenze, ma perché mi sembrano superate. Forse servono per intendersi nel dibattito, ma rischiano seriamente di portare fuori strada. Io, per esempio, sono liberale (non liberista), ma considero questa definizione più un abito mentale, un ancoraggio valoriale, che non un sistema di pensiero onnicomprensivo. Insomma, per essere schietti, Valerio a me pare mostri un approccio un troppo ideologico alle cose. Dal quale io rifuggo.
2) Da laico, credo che la distinzione tra laici e cattolici abbia senso solo su alcune questioni che potremmo definire di coscienza e che ad essa vorrei lasciare. Intendo dire che i cosiddetti “diritti civili”, per i quali mi sono sempre battuto, non possono essere il fulcro di intese programmatiche, ma devono invece far parte di quel confronto parlamentare di cui abbiamo perso l’abitudine e al quale tutti devono poter accedere secondo le loro convinzioni e non per scelte di partito.
3) Fatte queste premesse, può apparire più chiaro perché non temo di affermare che - in questa fase, e sottolineo questa - occorre smontare le attuali coalizioni, premessa indispensabile per la governabilità effettiva del Paese. Laddove per governabilità s’intende non solo la possibilità di vincere le elezioni, di formare una maggioranza e un governo e di farli durare nel tempo, ma anche e soprattutto la capacità-possibilità di prendere decisioni. In queste ultime due legislature, cioè nell’intera Seconda Repubblica, abbiamo avuto la governabilità formale, e persino l’alternanza, ma non la governabilità sostanziale. Ed è quella che conta. Smontare e rimontare le alleanze, cioè riformare il sistema politico: è questo l’obiettivo di Società Aperta oggi. Per dare quella governabilità al Paese che sola può consentirgli di combattere e vincere il declino in cui è immerso.
4) Per ottenere questo risultato occorre fare una prima fondamentale distinzione nella rappresentanza dei cittadini: i democratici, occidentali, moderni, garantisti, da una parte, gli anti-democratici, anti-occidentali, giustizialisti, teorici del “no a tutto”, populisti, dall’altra. Li vogliamo chiamare moderati ed estremisti? Mi va bene, non ne faccio una questione lessicale. Ma credo che sia un discrimine indispensabile. E non si tratta di fare un’ammucchiata centrista o di ricostruire la Dc: non usiamo categorie e soggetti del passato, è il futuro che dobbiamo costruire.
5) Certo, so bene che nel recinto dei cosiddetti moderati ci sono i laici e i cattolici, i conservatori e i riformisti, i liberali e gli statalisti. E so che sarebbe bene che queste differenze non fossero cancellate. D’accordo. Ma prima l’insieme di questi italiani - la grande maggioranza - deve servire a isolare politicamente gli estremisti, cioè a non far entrare in alcun governo le forze politiche che li rappresentano. E solo dopo, l’articolazione delle forze che rappresentano quei due terzi di italiani potrà produrre anche contrapposizioni elettorali. C’è un rischio in tutto questo? Sì, ma preferisco correre questo rischio piuttosto che avere la certezza - come oggi ho - di veder naufragare il Paese. Di eccesso di pragmatismo non è mai morto nessuno, di rigidità ideologiche sì.
Concludo con un appello: se siete d’accordo sulla proposta di Assemblea Costituente che Società Aperta sta lanciando, uniamo le forze per centrare questo obiettivo. Anche qui: prima dobbiamo convergere per fare in modo che il paese volti pagina, poi per distinguerci ci sarà tempo e spazio.
ENRICO CISNETTO

 

I sogni del bar all'angolo: come avere la benzina a metà prezzo...

Cari amici, ci è arrivato questo appello e immaginiamo che sarà arrivato a molta gente. Internet è il veicolo ideale per questo genere di sciocchezze "geniali", in quanto non c'è alcun filtro, nessun amico che ti prenda per il braccio e ti dica: "Ma che fai, pirla?". Gli individui della sottospecie Homo imbecillis medius vi spadroneggiano, armati di mouse e tastiera, illusi di essere "liberi" (proprio come altri credono di essere addirittura... liberali), mentre non sanno di essere schiavi della propria patologica mancanza di buonsenso, della propria follia contadina alla Bertoldo e Cacasenno. A parte l'ingenuità di stabilire fin d'ora un prezzo, come a Bengodi, un prezzo a piacere, prezzo che è invece la risultante di svariati elementi di mercato, l'iniziativa dello sciopero dell'acquisto di benzina mediante "catena di S.Antonio" internazionale, non tiene conto che in Italia la situazione è particolare: abbiamo più tasse che gravano sulla benzina rispetto ad altri Paesi. Certo, pur con questi due punti deboli, il sistema dello sciopero della spesa selettivo, cioè concentrato su un o due marche per avere più efficacia, potrebbe essere interessante. Peccato che è giocato così male. Sicuramente è stato pensato in un bar il lunedi mattina, tra i fumi del tifo frustrato. Ma di punti deboli ce n'è anche un altro: chi ci assicura che non sia una iniziativa furba di un produttore concorrente o di nuovo produttore-distributore emergente, per danneggiare le aziende leader? Insomma, tre punti deboli mi sembrano troppi per una iniziativa sola. Ecco l'appello. (Nico Valerio).
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"COME AVERE LA BENZINA A META' PREZZO. Siamo venuti a sapere di un'azione comune per esercitare il nostro potere nei confronti delle compagnie petrolifere.Possiamo far abbassare il prezzo della benzina ai colossi del petrolio, senza dover rinunciare ad acquistare benzina!!! Anche se non hai la macchina, per favore fai circolare il messaggio agli amici. E' un'idea geniale!
Si sente dire che la benzina aumenterà ancora fino a 1.20 euro al litro. Possiamo far abbassare il prezzo solo se ci muoviamo insieme, in modo intelligente e solidale. Ecco come.
Posto che l'idea di non comprare la benzina un determinato giorno ha fatto ridere le compagnie (sanno benissimo che,per noi, si tratta solo di un pieno.. differito, perché alla fine ne abbiamo bisogno!), c'è un sistema che invece li farà ridere pochissimo, purché agiamo in tanti. La parola d'ordine è: colpire il portafoglio delle compagnie senza lederci da soli.
I petrolieri e l'OPEC ci hanno condizionati a credere che un prezzo che varia tra 0,95 e 1 euro al litro sia un buon prezzo, ma noi possiamo far loro scoprire che il prezzo conveniente é la metà. Ormai i consumatori hanno scoperto che possono incidere moltissimo sulle politiche delle aziende, e basta decidere di usare il potere che abbiamo.
La proposta è che, da qui alla fine dell'anno, non si compri più benzina delle due più grosse compagnie, Shell e Esso, che peraltro ormai formano una compagnia soltanto.Se non venderanno più benzina, saranno obbligate a calare i prezzi. Se queste due compagnie calano i prezzi, le altre dovranno per forza adeguarsi. Per farcela, però dobbiamo essere milioni di clienti di Esso e Shell, in tutto il mondo.
Questo messaggio, proveniente dalla Francia, è stato inviato a una trentina di persone; se ciascuna di queste aderisce e a sua volta lo trasmette a...diciamo una decina di amici, siamo a trecento. Se questi fanno altrettanto, siamo a 3000, e così via. Di questo passo, quando questo messaggio sarà arrivato alla... settima "generazione", avremo raggiunto e informato trenta milioni di consumatori!
Inviate dunque questo messaggio a dieci persone, chiedendo loro di fare altrettanto.
Abbiamo calcolato che, se tutti sono abbastanza veloci nell'agire, potremmo sensibilizzare circa 300 milioni di persone in otto giorni. E' certo che, ad agire così, non abbiamo niente da perdere, non vi pare?"

 

Grosse Koalition? Grosso errore, senza un terzo polo liberale

L’idea di una grande coalizione di governo a mio giudizio è un errore; a parte l’auspicabile intesa tra maggioranza e opposizione sulla politica estera. Per il resto un principio tipico della dialettica politica liberale è che chi vince le elezioni ha tutto il diritto-dovere di governare e chi le perde ha il diritto-dovere di fare opposizione. Un’opposizione che dovrebbe significare innanzitutto controllo dell’operato della maggioranza e proposte alternative. E se risulta impossibile governare? Allora si torna a votare, possibilmente - nel nostro caso - dopo una riforma della balordissima nuova legge elettorale.
Una grande coalizione è necessaria e possibile solo in situazioni di estrema emergenza, quando è necessario un "Governo di Salute Pubblica", come giustamente andrebbe chiamata una coalizione di tal genere. Ma non siamo per fortuna in questa situazione.
E' sbagliata perché parte da un presupposto di disprezzo nei riguardi degli elettori; disprezzo già largamente dimostrato anche con una legge elettorale che ha sottratto agli elettori la scelta dei candidati. Gli elettori sono stati spinti a esprimere voti contrapposti per gruppi contrapposti: se ora i capi-partito gli dicessero che era tutto un gioco, dimostrerebbero una volta di più di considerarli semplici pedine da giocarsi come vogliono al tavolo del potere. Insomma, sarebbe una presa in giro, una cosa poco seria, inaccettabile e deleteria per tutto il sistema.
Se veramente si realizzasse una Grande Coalizione. con quale spirito alle prossime elezioni un elettore potrebbe dar credito a partiti e candidati? Non che ora partiti e candidati abbiano un gran credito, specialmente con questa legge elettorale grazie alla quale gli eletti sono decisi dai partiti.
A mio giudizio la Grande Coalizione non è realizzabile, perché i più ideologizzati dei partiti (AN e DS e Lega) si spaccherebbero; e questo i loro capi non lo accetterebbero. Ma non è neanche auspicabile, per il danno "strategico" che apporterebbe al nostro sistema politico: ripresa del trasformismo, questa volta alla grande, ed esclusione di larghe fasce di elettori che già tendenzialmente sono o si sentono fuori dal sistema e che andrebbero inclusi, mentre con la Grande Coalizione sarebbero esclusi, e come dice giustamente Nico Valerio, accentuerebbero la loro atavica passione per la piazza. Sappiamo bene che chi è fuori, o si sente fuori, tira sassi.
E poi non è detto che l’attuale coalizione vincente non riesca a governare. Innanzitutto, esiste il pericolo per tutti i parlamentari di tornarsene a casa rinunciando ai vantaggi del proprio status. E questa è una grande remora. In secondo luogo, la maggioranza risicata dovrebbe portare alla scelta di un governo di altissimo livello, poco ideologizzato e quindi non troppo inviso all’opposizione e a quella parte di nazione che ha votato per l’opposizione (ma mi rendo conto che con un Pecoraro Scanio, un Diliberto e simili realizzare un governo di questo tipo sarà difficile). E non va neanche escluso che in qualche caso, come avvenuto nell’ultima legislatura di centrosinistra per i nostri interventi nei Balcani, il governo ricorra all’aiuto dell’opposizione. Ma neanche possiamo escludere qualche transumanza – in chiaro o in nero -dall’opposizione alla maggioranza.
Se poi non si riuscirà a governare pur con un governo di altissimo livello (ammesso che ci riescano); se l’opposizione farà l’opposizione "in armi" anche per questioni di politica estera dove il governo potrebbe non avere sostegni interni; se non si avranno "transumanze" in aiuto del vincitore; se infine a nessun eletto importerà molto di tornarsene a casa, allora - auspicabilmente dopo una revisione di questa legge elettorale - a primavera si tornerà a votare. Senza bisogno di nessuna Grande Coalizione.
Ma sulla Grosse Koalition, come dicono i tedeschi, consiglierei ai tanti che vorrebbero importarla in Italia di leggere, prima di parlare, l’ottimo libro di Giovanni Sabbatucci "Il trasformismo come sistema". E poi, semmai, ne riparliamo...
GUIDO DI MASSIMO

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