27 settembre, 2007

 

Altro che Destra e Sinistra: i “provinciali”, ecco il vero male dell’Italia

Che hanno in comune Mastella e Grillo? E Parisi e la Bertolini, Di Pietro e Pecoraro Scanio, Prodi e Bossi? "Si occupano" di politica. O meglio, la politica è occupata da loro. Ma hanno un tratto in comune, che spiega anche il loro "occuparsi" di politica: sono dei provinciali.
Un'offesa? Ma no. Già questo voler considerare la parola un'offesa, denota la coda di paglia di una certa piccola borghesia italiana, appunto, provinciale. Perché, si sa, la lingua batte dove il dente duole. E' come per la bella parola "conservatore". Nei Paesi anglosassoni, di mentalità laica e pragmatica, dove si dice pane al pane, è un termine neutrale che denota una parte della società e della politica che, pur conservando le libertà acquisite, non vuole ulteriori cambiamenti.
In Italia, no. Come lamentava il liberal-progressista Gobetti, nessuno si vuole definire conservatore. Proprio perché la stragrande maggioranza dei politici e degli Italiani sono conservatori, e quindi per differenziarsi ulteriormente tra loro sono costretti ad inventarsi altre distinzioni, tutte false, il termine "conservatore" è diventato un'ingiuria. Insomma, dove tutti sono conservatori, nessuno vuole ammettere di esserlo. E col trasformismo italiano tutti i conservatori fanno a gara nel superarsi a vicenda in finto progressismo. Perché nulla cambi, s'intende. Ecco perché è così difficile tra tanti "liberali" trovare dei liberali.
Così è per "provinciale". Poiché i provinciali sono permalosi e, soprattutto, non capiscono mai le cose per il verso giusto, cioè con la dovuta apertura mentale (perfino, anzi soprattutto, i laureati, sempre laureati di provincia s'intende), specifichiamo che "provinciale" non vuol dire solo o necessariamente "chiunque è nato o vive in provincia". Né, tantomeno, chi ama la ribollita e le orecchiette, Mascagni e il vino di Montepulciano, la tarantella o una passeggiata sull'Etna. Né chi è del Sud, o è di Destra (o di Sinistra).
No, "provinciale" è chi pensa, agisce, parla, si comporta da provinciale. Cioè con la tipica ottusità e ristrettezza mentale, con la meschinità della visione paesana, con tutte le beghe, le polemiche, le antipatie, la prosopopea, la sicurezza in sé, la faccia tosta, la rozzezza, la fantasia insensata, la pazzia, la mancanza di buon senso, il campanilismo, le vanterie, l'alterigia della sottocultura di provincia.
Ma la casalinga di Voghera o il contadino di Isernia non c'entrano. Provatevi a contraddire, peggio se in pubblico, dove loro sono "un'autorità", il politicante, l'insegnante, il geometra, il ragioniere, il corrispondente di giornali, l'ingegnere, il commerciante, l'avvocato, l'assessore, il sindaco, il medico di provincia. Tutte persone "colte", che "hanno studiato", che hanno creato nei lunghi decenni di vita provinciale una barriera di timore reverenziale tra sé e il "popolino". E si danno arie, eccome, anche se non valgono più del popolino. Se lo fate, sappiatelo, lo fate a vostro rischio e pericolo: "non sapete chi sono". I provinciali sono arroganti e vendicativi.
E sì, perché i provinciali non si vergognano di nulla. Nel Veneto "Roma ladrona" (mentre sono proprio loro che rubano, che portano figli e amici all'Unione Europea, che si fanno strapagare le cariche alla Regione, o dare incentivi e pensioni indebite, e scendono a Roma a fare politica, cioè i propri sporchi interessi). In Sicilia, dove dilapidano l'erario in ogni modo e vivono alle spalle della comunità italiana, come fa il Veneto o peggio, ancora polemizzano - pensate un po' - contro gli Antichi Romani e Garibaldi (e non sono contadini, che queste cose non le direbbero mai, ma présidi di scuola, insegnanti e assessori, ascoltati con le nostre orecchie ad un convegno nel 2006).
Una lista senza fine di sciocchezze provinciali, dalle leggi balorde a certe sentenze di giudici, dal "Maiale Day" di Borghezio per inquinare i siti islamici, alla statua di Totò eretta a... Roma. Non c'è limite: tutto è possibile per i provinciali. E stanno dappertutto, perché - è noto - "il cretino si muove", è attivissimo, e va perfino nelle grandi città, come si è visto. Ne inventano una al giorno di amenità, forti del monopolio di posizione di cui godono nel loro paesello o nella loro cittadina, privi come sono di autocritica e di senso del ridicolo. Solo che nelle metropoli c'è più concorrenza: si trova sempre uno di buon senso che dice al provinciale quello che si merita, e che in provincia nessuno ha il coraggio di dirgli: che è un cretino. Un cretino colto, ed è ancora peggio.
La politica italiana, anzi la società italiana, sarà sanata solo quando i tanti provinciali verranno emarginati e cacciati dai posti di comando che oggi - grazie all'arrivismo e alle raccomandazioni in cui eccellono - abusivamente occupano in Governi, opposizioni, Parlamento, sindacati, giornali, Rai-Tv, editoria, professioni, imprenditoria locale. Nessun'altra soluzione è realistica. Il gap italiano è la sua sottocultura, la ristrettezza di idee, la nessuna conoscenza della psicologia, cioè la mancanza d'intelligenza. Allora, torniamo al popolo? Anzi, il popolo dei provinciali locali è addirittura peggiore dei provinciali al Potere, alcuni dei quali bene o male viaggiano, vedono colleghi stranieri, sono controllati dall'Unione Europea o dagli Americani, si affinano con un minimo di concorrenza, sia pure tra provinciali di Potere. Insomma, quasi quasi, il popolo dei Grillo, l'italiano "da bar", "da bus" o "da treno", è più pericoloso d'un Mastella o d'un Borghezio. Perché questi ultimi, pur votati da migliaia di provinciali, sono così plateali da generare anticorpi nel resto della popolazione.
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Un capitolo del bel libro di Curzio Malaparte, Battibecchi (ed. Shakespeare & Company, Firenze 1993, pp. 293-294) fa proprio al caso nostro. E si consideri che è stato scritto nel lontano 1954.
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Roma e provincia
di Curzio Malaparte
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E' senza dubbio un chiarissimo segno dello sgretolamento, dell'avvilimento del nostro spirito civile, il fatto che in provincia si coltivi con tanto impegno la pianta della politica. Tutto è politico, in provincia. Forse perché l'intrigo, il pettegolezzo, la congiura, il tradimento spicciolo, le chiacchiere, le meschine diffamazioni, vi rappresentano la forma più nobile, per non dir la sola, di vita sociale. E questo fa che il responsabile, anzi il colpevole, dello spirito gretto e pettegolo della politica italiana, non è Roma, bensì la provincia, dove si educano alla politica nazionale coloro che poi, giunti a Roma come rappresentanti del popolo italiano, fan della politica un'arte provinciale, una sorta di mercato nazionale dei pettegolezzi, delle chiacchiere, dei particolarismi provinciali.
Se si compiesse un'indagine sull'origine della nostra classe politica, si vedrebbe che essa vien reclutata soprattutto nei ceti più gretti delle nostre province, massimamente in quelle più arretrate, dove il potere non è in mano né all'antica aristocrazia, né alla borghesia grassa, né al popolo, ma agli elementi più stretti, più meschini, più avari, e socialmente più incerti, più ibridi, che fan del pettegolezzo un'arte politica, e della politica un'arte del pettegolezzo, e non concepiscono i problemi nazionali se non come la ripetizione, su scala maggiore, dei consueti,
piccoli problemi provinciali, e la lotta politica italiana se non come la continuazione di quell'eterna guerriglia che nel "borgo natìo" oppone da secoli i farmacisti ai droghieri, gli avvocati ai medici, le comari degli uni alle comari degli altri.
Né credano i miei lettori meridionali che io alluda soltanto al Mezzogiorno: tutta l'Italia è paese. Alludo anche all'Italia settentrionale e a quella di mezzo, dove il pettegolezzo, l'intrigo, le chiacchiere, i rancori personali, son fatti della stessa materia di cui son fatti nel Mezzogiorno, pur mancando di quella bonomia, di quella umana comprensione, di quella indulgenza, che son caratteri comuni degli italiani delle province meridionali, e che gli italiani del Mezzogiorno pongono in ogni loro giudizio e in ogni loro atto, perfino negli atti e nei giudizi politici (...).
Quale meraviglia, dunque, se l'Italia è tutta Peretola? Se Roma, la Roma politica, non è se non la somma di tutte le Peretole italiane? E se perfino i Consigli dei ministri non sono se non la ripetizione, su scala più ampia, del Consiglio comunale di Peretola?

20 settembre, 2007

 

20 Settembre. La "festa di Porta Pia" non sia uno stanco rito, come la "festa della donna".

Oggi ricorre l’anniversario della presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870, e noi liberali e laicisti di ogni tendenza siamo soliti ricordarlo con una certa enfasi, ma anche con tristezza se pensiamo a come è ridotto oggi lo Stato laico creato dai liberali nell’800: un servo della Chiesa (sì, la Chiesa, non il "Vaticano", come dicono gli amici Radicali per autocensura, che non c’entra niente: si occupa solo di francobolli, pulizia delle strade, fognature, stipendi, radio e poste).

Oggi, oltre ai riti un po’ ammuffiti che si celebrano in Campidoglio, di più popolare e vitale c’è l’adunata davanti a Porta Pia, a Roma, indetta dai Radicali alle 17,30. E seguirà un corteo con fiaccole (accompagnato come tutti gli anni dalla bella jazz band di Carletto Loffredo, un piacere nel piacere) che arriverà a Campo de’ Fiori, davanti alla statua di Giordano Bruno. Se lo permetterà la folla di liceali, turisti male informati e perditempo che proprio attorno al monumento si radunano per bere l’orribile birra Corona o le inutili bevande "energizzanti" al guaranà o alla taurina che vanno tanto di moda.

Il Salon Voltaire aderisce con entusiasmo ad ogni rievocazione del XX Settembre, che è la data dell'Unità d'Italia, il coronamento degli sforzi dei liberali italiani, e anche la fondazione dello Stato laico. Ma si adegua di malavoglia se si instaurano cerimonie formali prive di contenuto. Certo, nel silenzio scandaloso dei Partiti di Destra e di Sinistra, tutti con una lunga coda di paglia clericale e conservatrice, la rievocazione dei Radicali ci piace molto. E li ringraziamo, ancora una volta, per essersi fatti carico, loro, piccolo partito, d'un compito che spetterebbe all'intera classe politica italiana. Eppoi, la marcia è simbolica, sì, ma vuole anche la partecipazione vera, di gente reale. Insomma, è vero che siamo contrari alle feste, che in Italia, si sa, "finiscono in Gloria", ma in questo caso temiamo piuttosto il contrario: che la ricorrenza del XX Settembre sia del tutto dimenticata. Per fortuna, c'è già in Parlamento una proposta di legge dei Radicali e di altri laici per tornare alla festività civile, com'era in passato prima dello scandaloso Concordato.

Poi, ripristinata la festa del XX Settembre, ci porremo il problema del contenuto di questa ricorrenza. Non vorremmo, insomma, che la rievocazione del XX Settembre diventi negli anni una "festa di Porta Pia" (che, dato il nome, alle orecchie della gente che non legge i giornali finirebbe quasi quasi per diventare… religiosa), e che in altre parole accadesse a questa bella ricorrenza liberale quello che è accaduto all’8 marzo, che è diventata la "festa della donna", anche sulle targhe , opportunamente dislocate in zone emarginate e improbabili (a Roma è un vialetto dentro il parco di Villa Pamphili, vicino a via Rosa Luxembourg. I funzionari della toponomastica romana non devono essere amici delle donne). Una data come un’altra, come la stupida e commerciale "festa del papà", inventata tanto per favorire i fiorai e le pasticcerie. Anzi, l’8 marzo, visto il numero di donne che escono dalle tane casalinghe e vanno in pizzeria credendo ingenuamente che sia la "loro" festa , dovrebbe essere lautamente finanziato dall’Associazione dei Ristoratori.

Ecco, non vorremmo che il 20 settembre si avvii a diventare una stanca festa del genere. Quando invece l’unico modo serio per ricordarlo sarebbe semplicemente comportarsi da liberali veri tutti i giorni dell’anno. Liberali e perciò laicisti (in italiano corretto si dice così trattandosi di persone o di partiti: solo i membri non sacerdotali della comunità cristiana, lo Stato o la scuola possono essere "laici"). Perciò rispettosi di ogni credenza, ma severi nel separare Stato e chiese. Ogni Chiesa, s’intende. E nello stesso interesse delle Chiese, perché queste possano esplicare la loro missione spirituale - se ne hanno davvero una - lo Stato non deve riconoscere loro nessun privilegio rispetto alle altre libere associazioni.

Non dimenticheremo mai che valorosi cattolici liberali, come Cavour e poi la Destra storica liberale, fecero il Risorgimento, che un generale cattolicissimo, tanto da sentir messa al Comando prima della battaglia, il Cadorna, strinse d’assedio la Roma dei Papi, e facendosi il segno della croce cannoneggiò le mura aureliane e entrò con le truppe a Porta Pia, uccidendo poche decine di zuavi pontifici. E aveva tanta paura della scomunica che il Governo liberale fece dare l’ordine di "fuoco" ad un bravo ufficiale piemontese ebreo, il cap. Segre. Il vero, misconosciuto, eroe di Porta Pia, a cui va il nostro ricordo riconoscente. E a cui evidentemente, per i curiosi separé che esisterebbero in Paradiso, la scomunica del Papa non arrivava…

E non dimenticheremo mai, da liberali, che non i pericolosi Radicali o peggio gli Ateisti, ma un Governo della Destra liberale fece arrestare vescovi e parroci che incitavano il popolo a disobbedire e a ribellarsi alle leggi dello Stato. Chi lo farebbe oggi, non dico dei quattro pseudo-liberali di Destra e di Sinistra, ma addirittura dei tanti mangiapreti (finti: perché poi sono preti di un’altra, vera, religione, anch’essa smentita dalla Storia) della Sinistra comunista o stalinista? Nessuno.

Sapete che vi dico? Meno male che, con un colpo di fortuna, abbiamo preso Roma nel 1870. Ammettiamolo: ci fu tutta una serie di circostanze politiche internazionali favorevoli. Irripetibili. Oggi sarebbe impossibile.

Oltretutto - come ripete il "religioso" alla Capitini, Marco Pannella, in uno dei suoi bei paradossi - il 20 settembre fece una grande favore alla stessa Chiesa, che da allora ha perso l'assurdo potere temporale (che sopravvive simbolicamente nel Vticano) ed è potuta tornare al suo - ammesso che esista - cosiddetto "magistero spirituale".

Ma l'amico Marco crede davvero che siano ancora molti i cattolici liberali in Italia? Noi no. L'attuale ondata di integralismo e fanatismo li ha quasi azzerati. O forse sono tutti afoni. Mentre straparlano i clericali atei o agnostici, più papalini del Papa.

Magistero "spirituale", per chi crede allo spirito, forse. Ma magistero morale, no, per favore. La Chiesa, come ogni altra religione, non può arrogarsi il monopolio della morale. E non lo diciamo solo per l’epidemia di pedofilia e reati sessuali così diffusa nel clero cattolico, ma soprattutto per il cinismo, la brutalità, la cattiveria, sì, dimostrata dai religiosi d’ogni credo in molte occasioni della vita quotidiana: dal disprezzo per la scienza e per l’intelligenza (nonostante che papa Ratzinger parli ad ogni pie’ sospinto di "logos" e "ragione"), alla crudeltà sadica verso chi soffre, alla violenza terroristica del fanatismo.
Ecco a quali e quanti pensieri dovrebbe indurci il 20 settembre.

17 settembre, 2007

 

Ma Grillo ha ragione: la gente non ne può più di “questa” politica corrotta

Il torto di Grillo è di avere ragione. Nella sostanza, s’intende. E chi lo critica sulla sostanza - non sulla forma - ha torto marcio. Sbagliano, quindi, le Sinistre di Governo, sia quella riformatrice sia quella conservatrice. Ma sbaglia anche la Destra conservatrice di opposizione. E la fortuna di Grillo è che più i suoi oppositori sbagliano, più lui appare il vincitore morale, insomma quello che ha sempre ragione.
Ha ragione, per le cose che dice, tranne qualche imperfezione, diciamo così, tecnico-giuridica, visto che il diritto non sembra il suo forte, e la precisione scientifica pare al di sopra delle sue possibilità. Del resto, un’Italia ignorante ha gli attori satirici che si merita, e Grillo ha successo proprio perché non è superiore in nulla, né per intelligenza né per preparazione, al suo pubblico. Certo, da furbo provinciale sa utilizzare come pochi la redditizia professione di attore satirico con licenza di moralizzatore pratico. Ma in Italia, si sa, le idee giuste vengono sempre in mente alle persone sbagliate.
Nell’articolo precedente, abbiamo già detto tutto il male possibile sia dell’imbonitore da piazza (Grillo), sia dell’italiano medio, specie di provincia (grullo), che si crede furbo. Ma non abbiamo detto nulla delle ragioni della protesta.
Dopo decenni che liberali e radicali, come un basso continuo, hanno ripetuto invettive e proposte contro la partitocrazia, cioè contro l’abnorme prepotere dei partiti - privilegi, legislazione, ruberie e inefficienza - sulla volontà e sugli interessi dei cittadini, dopo 60 anni di malcostume della politica italiana, diventata argomento di barzellette perfino all’estero, ecco che i due libri fortunati di Salvi-Villone ("I costi della democrazia") e di Rizzo-Stella ("La casta") hanno risollevato il tema presso l’esiguo pubblico dei lettori di giornali e di libri.
E sùbito, come prima autodifesa semantica, il Potere ha parlato di "anti-politica".
Certo, perché per la nostra classe politica questa, e solo questa, è la Politica possibile. Proprio in previsione di questi trucchi, queste malversazioni, questi privilegi, questi soldi, l’avvocato di Palermo, il geometra di Isernia, l’insegnante di Terni, il ragioniere di Treviso, tanto per fare esempi geografici a caso, hnno deciso di "fare politica" e di aspirare al Potere. Anzi, qualcuno di loro ha cominciato per vie traverse, una delle quali è il giornalismo raccomandato, che com’è noto deriva direttamente dalla Politica.
Ebbene, la rivolta morale che si sta diffondendo in Italia, quando dagli intellettuali scende alla gente comune diventa spesso meschina e inadeguata. Una prova in diretta? Se si presta orecchio alle telefonate che riceve ogni sera il bravo Aldo Forbice a "Zapping" (Radio 1), per molti italiani la moralità pubblica è solo la raccomandazione altrui, non la propria, e l’unico scandalo vero sarebbe lo stipendio dei parlamentari. Magari.
Insomma, le sottigliezze sfuggono ai più, e sfuggono perciò anche a Grillo. Ciò non toglie che non possiamo, specialmente noi liberali, fare tanto gli schizzinosi (un esempio di questo atteggiamento è il nostro articolo precedente), e pur turandoci il naso dobbiamo riconoscere che le proposte del Grillo sparlante, pur inadeguate, superficiali, minimaliste, molto inesatte, e frutto anche d’una furbissima politica di comunicazione e pubblicità personale, vanno però nella direzione giusta. Il pubblico disinformato le vede come una alternativa, come un inizio di soluzione dei mali dell’Italia. Perché disilluderlo? Qualcosa di fondato c’è, bisogna riconoscerlo.
E se pensiamo che il cav. Berlusconi nel 1994, dopo lo scandalo di "Mani pulite", scese in campo con parole d’ordine analoghe, per la verità più fondate sulla tutela delle libertà individuali ("partito liberale di massa") che sulla strenua difesa della moralità della classe politica, e che per qualche mese lo stesso ex pubblico ministero Di Pietro valutò la possibilità di presentarsi in politica con la Destra, anziché con la Sinistra, il cerchio delle coincidenze sembra chiudersi.
E’ da almeno tredici anni, insomma, che i cittadini italiani vengono illusi con le promesse elettorali di palingenesi. Il prossimo politico, comico, imprenditore, attore, presentatore, commerciante, pubblicitario, giornalista, agricoltore, davvero in grado di mantenerle comanderà l’Italia.

 

Antipolitico? No, Grillo è un provinciale vero: un pò Masaniello, un po’ Gedda

E ora si fa perfino le "liste civiche". La montagna della finta indignazione ha partorito il topo dell’esibizionismo, che per un attore è la base dell’interesse. All’italiana? Macché, bisogna finirla di screditare l’Italia, comprese Milano e Roma che volano alto e non c’entrano niente con queste bassezze e meschinità. Dovremmo dire "alla provinciale".
Ma sì, Grillo "sembra" un italiano vero proprio perché è il tipico provinciale. Ce l'ha con i burocrati "giù a Roma" che nell'800 il provinciale Bersezio vedeva con le mezzemaniche nere (servivano per non sporcare d'inchiostro le giacche). Ma già allora monsù Travet non era romano, ma torinese romanizzato. E allora, seguitando a fare rissa con gli stracci, che dovremmo dire dell'attore satirico che si illude di risolvere tutto con la demagogia del "niente condannati in Parlamento"? Che non ha neanche preparato bene la parte? Che è un mezzecalzette?. La fa facile, lui. Tutto gli è semplice e chiaro. Dunque tutto gli è possibile. Crede lui. Come al bar di Noicattaro o alla bocciofila di Borgone di Susa. Ogni problema si risolve in un attimo, come l'intonaco scrostato del municipio di Borgomanero. Che ci vuole? Una mano di calce, e via. Altro che politici.
Salvateci dalla stupidità petulante dei provinciali. Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Semplicioni di provincia del Nord, del Centro e del Sud uniti nelle geniali intuizioni di villici, ma anche nelle solite furberie di gente da contado. Chi ha detto che la furbizia comincia là dove finisce l'intelligenza? Così i provinciali, approfittando dello stupore e dell'imbarazzo che provocano negli Italiani metropolitani, di cui ovviamente non s'accorgono, giocano il tutto e per tutto, e puntano sull’esibizionismo per tentare la scalata sociale e geografica. Infatti, tutti a Roma vogliono venire. Ma chi li vuole? Anzi, è ora di dire basta a questi marcati accenti rurali e municipali. Gente con così poche qualità da non riuscire neanche a modulare la voce e a controllare la pronuncia. Quelli del Sud non sanno neanche dire "gli", il più tipico trittongo italiano, quelli del Nord non sanno pronunciare le italianissime doppie. Basta dire.
Moralità? Tutto loro fanno. Loro, i provinciali, sono la Casta, loro la combattono. I provinciali, come molti sciocchi furbi, sono attivissimi. Se dobbiamo fare qualche esempio di "maninpasta", di finanziamenti o pensioni finte elargite per motivi elettorali, di raccomandati e raccomandatari, vengono in mente non romani o milanesi, ma sempre campani, molisani, siciliani, pugliesi, sardi, veneti, marchigiani, umbri ecc. Bossi ha piazzato parenti e amici a Bruxelles, come pochi altri.
Aveva ragione Pannella: Grillo è il più furbo di tutti. E' un "italiano vero". Altro che "vaffanculo": tanto per restare nella volgarità del gergo popolare romanesco, l’attore satirico è la quintessenza del "paraculo", cioè del furbone di tre cotte.
Senza pudore, proprio come un ragioniere di provincia che avendo poche idee, ma confuse assai, gliele vuol cantare chiare ai partiti "giù a Roma". Roma, sì, la famosa città piena di provinciali mediocri ma arrivisti che giungono ogni giorno da Sicilia, Campania, Calabria, Sardegna, Puglia, Veneto, Piemonte ecc. per farvi "politica" o rubare un posto da raccomandati alla Rai o nel sottogoverno. Ed è ora di dire basta. Basta coi provinciali che vengono a Roma, inquinano (in tutti i sensi), creano traffico (in tutti i sensi), e conservano pure i loro orribili accenti.
Ma allora, niente jacquerie dietro i proclami di Grillo?
In Francia, in pieno Medioevo, dal 28 maggio al 10 giugno 1358, una spontanea e caotica rivolta di contadini, che prese il nome di jacquerie da un contadino soprannominato Jacques Bonhomme, mise per qualche giorno a ferro e fuoco i castelli dei nobili. Che cosa aveva spinto all’azione inconsulta le genti del contado attorno all’Ile de France? La povertà? No, anzi si trattava delle zone più ricche, proprio a ridosso di Parigi. E proprio per questo dotate di una sensibilità maggiore, diremmo oggi, sull’economia e l’ordine pubblico.
Piuttosto, c’erano dietro considerazioni già in qualche modo "moderne", tra cui la mancata reazione della classe politica d’allora alla lunga crisi seguita alla Guerra dei Cent’anni, e la sua fallimentare politica dei prezzi del grano, cioè la sua ignoranza economica. Ma sembra fossero nel mirino anche l’incapacità della classe dirigente d’allora di tenere a freno le sue voraci truppe dedite alla spoliazione delle terre (quindi, "microcriminalità", "ordine pubblico") e la sua inettitudine pratica e morale, visto che i nobili erano accusati di non sapersi battere in guerra, dai contadini, curiosamente, che secondo le stesse storie popolari scappavano davanti al nemici per salvare la pelle.
Insomma, la jacquerie dei rozzi ma non idioti contadini dell’epoca manifestava nelle motivazioni già qualcosa del senso di responsabilità e di identificazione con lo Stato del futuro spirito borghese che poi dal Seicento nei Paesi nordici e alla fine del Settecento in Francia sarebbe sfociato nelle rivoluzioni in qualche modo liberali.
Ma oggi la borghesia, per i fortunati e coraggiosi Paesi anglosassoni che hanno potuto permettersi di produrla per primi, non ha bisogno delle proteste generiche senza capo né coda: ha molti modi più efficaci e vantaggiosi per esprimere il dissenso. E’ classe dirigente, e non protesta certo contro se stessa.
Questo può invece accadere dove una vera borghesia di lunga data non esiste, come in Italia. Dove un diffuso Terzo Stato (come dice spesso Pannella) è classe media economica (in termini solo statistici), sì, ma non ancora vera borghesia, con il corollario indispensabile di tanti doveri e meno diritti.
La populace cittadina, è la versione periferica, anche se scolarizzata e informatica, anzi internettiana, del contado d’un tempo. Ma la sostanza resta. I popoli fatti di pochi ex nobili e di tanti ex contadini, schiavi, disperati, morti di fame, servi della gleba, hanno sempre espresso i caporioni d’una giornata o d’un mese.
Anche il web - anzi, dove meglio che sul web? – ha i suoi cento Tomaso Aniello, Cola di Rienzo, guitti, clown, comici e saltimbachi, che ai baroni, principi, cardinali, re e papi "gliele contano chiare". E come se Grillo fosse un Savonarola, la gente, specialmente nelle città di provincia, si specchia in lui. E spesso paga un biglietto salato per sentirsi dire in faccia che è scema dall’attore, conduttore satirico e arringapopolo di Regime.
Le sue "liste civiche" non somiglieranno alle solite liste anodine inventate da oscuri avvocati, insegnanti, commercianti e ingegneri di provincia. Ma poiché ricatteranno schieramenti e partiti, poiché saranno animate da un sacro fuoco moralistico, saranno esse stesse un partito, anzi il Partito degli Onesti. Insomma, quello che non era riuscito ad un altro provinciale eccellente, Di Pietro. Anche stavolta la battaglia sarà fino all’ultimo uomo, come diceva il clericale Luigi Gedda, solo che anziché i sagrati delle chiese avranno dietro i palchi d’un teatro itinerante con un comico che non fa ridere. Ma allora era più laico Gedda: non mescolò troppo fede, politica e affari come potrebbe accadere al Grillo sparlante.

10 settembre, 2007

 

Veronesi: "Papa Ratzinger, non avevi detto che la scienza ha origine divina?"

Meno male che c’è Veronesi a rispondere al Papa. O meglio, ringraziamo il Corriere che lo ha intervistato subito dopo il discorso di Ratzinger in Austria facendogli le domande giuste. Perché se aspettavamo i giornali che si dicono "liberali", ma che sono soltanto ultraconservatori e clericali, stavamo freschi (Nico Valerio).
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"Sì agli embrioni-chimera, sorpreso dalla polemica del Papa sulla scienza"
"Le bimbe di oggi vivranno fino a 103 anni"
Umberto Veronesi spiega che i progressi della scienza allungheranno la vita media delle persone
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Mario Pappagallo, Corriere della Sera, 10 settembre 2007
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"Sono addolorato per quanto ha affermato il Papa sulla scienza. Ratzinger apparentemente si è contraddetto: non tanto tempo fa si era espresso in termini diversi. Aveva detto che la scienza ha origine divina e quindi va rispettata e si era mostrato favorevole al nucleare e agli organismi geneticamente modificati per risolvere i problemi dei Paesi più poveri, in via di sviluppo. Oggi invece parla di possibile minaccia per l'uomo da parte degli scienziati senza Dio.
Da un'investitura divina a un distinguo pericoloso: uno scienziato musulmano, induista, buddista o ateo rappresentano forse una minaccia? E quale Dio consacra come buoni studi e ricerche?
In realtà la scienza cerca la verità e si basa sul rispetto di valori etici comuni molto forti: a partire dall'universalismo delle scoperte e dagli obiettivi che sono sempre nell'ottica di un progresso della civiltà in senso benefico. Sono quindi sorpreso e addolorato per questa affermazione del Papa... Rischiamo di tornare all'epoca di Galileo Galilei". Umberto Veronesi replica, da scienziato, alle dichiarazioni austriache di Benedetto XVI. E non nasconde una certa sorpresa sull'ultima che indica in "una scienza senza Dio una minaccia per l'umanità".
EMBRIONI CHIMERA- Forse Papa Ratzinger si riferiva agli embrioni-chimera approvati in Gran Bretagna per fini terapeutici? "In realtà è un ulteriore passo avanti nell'ottica di evitare rischi di clonazioni a fini riproduttivi. E' lo sviluppo della soluzione che aveva proposto la commissione da me insediata nel 2000 quando ero ministro della Sanità. La tecnica di trasferimento nucleare per produrre cellule staminali autologhe (Tnsa). E se allora la proposta di quella commissione, a cui avevano preso parte diversi scienziati cattolici, non fu nemmeno presa in considerazione dal governo successivo, oggi torna di attualità.
Qual è il problema? Se si prende un ovulo di donna, lo si svuota del patrimonio genetico e vi si inserisce del Dna del paziente, si cominciano a creare staminali embrionali (ma il processo viene fermato all'inizio e non si crea un embrione) terapeutiche per il paziente stesso.
Proposta congelata dal terrore che qualche genetista pazzoide potesse portare avanti lo sviluppo del processo fino alla clonazione umana vera e propria. Questo timore (perché finora l'etica della scienza non ha mai portato a un clone umano) viene annullato del tutto della tecnica approvata dagli inglesi: usando un uovo di mucca o di pecora e inserendo in esso il Dna del paziente si arriva alle staminali senza alcun rischio di clonare a fini riproduttivi.
E' la Natura stessa che farebbe abortire un eventuale sviluppo. Minotauri, centauri, sirene sono frutto della mitologia. In Natura sarebbero destinati ad abortire. Quindi una via che garantisce anche dall'ipotesi del "genetista pazzo". E una garanzia di riuscita: perché le cellule staminali sono autologhe, della persona stessa. Senza i rischi di fallimento collegati al rigetto".
ULTRACENTENARI - Ma quali vantaggi porterebbe? "La scoperta delle cellule staminali rappresenta una rivoluzione della medicina. La più importante dopo quella del Dna. Avere una "banca" di staminali proprie vuol dire intervenire per bloccare Parkinson, Alzheimer, diabete e in genere tutte le patologie degenerative ormai vero problema di un'umanità destinata a una vita ultra centenaria".
E' scritto nel patrimonio genetico di ognuno: la vita media è di 120 anni. E' questa la meta a cui si tende? "Sì, ma già la scienza e il progresso hanno raggiunto un importante traguardo. Secondo le ultime proiezioni (basate anche sull'accelerazione scientifica che si è avuta da quando si conosce la mappa del genoma umano, ndr), una bambina che nasce oggi in Germania o in Italia campa fino a 103 anni e un bambino fino a 97. E si parla di aspettativa di vita media. Un balzo in avanti rispetto a quanto previsto fino a poco tempo fa.
Adesso bisogna fare in modo che questi anni in più siano tutti di benessere e ottima qualità. Quindi la scienza ha il dovere, sconfitte le malattie acute, di prevenire o evitare quelle degenerative, disabilitanti".
EUTANASIA - Ratzinger in Austria ha parlato anche di fine della vita, di eutanasia e di rischio di pressioni sui malati e sugli anziani... "Ecco, quando il Papa parla di pressioni su anziani e malati riconosce il problema sociale. Un passo avanti, prima l'opposizione era di principio, teologica: solo Dio può decidere. Socialmente il rischio di una pressione esiste, ma un'azione di questo tipo si configura come omicidio.
L'eutanasia invece è una richiesta volontaria, motivata, ripetuta (ed esente da pressioni) da parte di un malato terminale. Nei Paesi dove l'eutanasia è legale tale richiesta deve passare il vaglio di un'apposita Commissione. La legge olandese in proposito è molto rigida, tant'è che soltanto un terzo delle richieste arrivano al compimento: infatti l'iter è così rigoroso che i due terzi delle domande non vengono soddisfatte, o perché non sono riconosciute valide o addirittura perché i malati muoiono prima di ricevere il via libera.
E' un tema complesso che va dibattuto a fondo. Comunque io ritengo fondamentale rispettare le volontà autonome del malato, quando le manifesta più volte lucidamente. Cioè quando è in grado di intendere e di volere". In altre parole rispetto del testamento biologico? "Sì e non occorre una legge, anche se sarebbe auspicabile, perché ogni medico deve attenersi alla Convenzione di Oviedo e rispettare la volontà del malato. Quindi è sufficiente che le proprie volontà siano, come un testamento, affidate a un notaio perché vi sia l'obbligo di rispettarle. E come per un testamento ereditario possono essere cambiate continuamente. Valgono le ultime".
ABORTO - No all'eutanasia e no all'aborto. Anche questo ha ribadito il Papa... "Il problema è che la Chiesa non vuole l'aborto ma neanche la prevenzione. No al preservativo, no alla pillola, no all'educazione nelle scuole su come non rimanere incinta. Raccomandare l'astinenza sessuale oggi è irrealistico, considerato anche il fatto che perfino la masturbazione è peccato. Puntare sulla prevenzione già sarebbe un importante passo avanti".
A proposito di prevenzione, il Vaticano è contrario anche alla diagnosi preimpianto in caso di fecondazione artificiale. Aleggia il rischio dell'eugenetica, della selezione dei nascituri... "Negli Stati Uniti attualmente viene richiesta la diagnosi preimpianto anche in caso di familiarità genetica per il tumore al seno. Molte donne chiedono di non avere figlie con le mutazioni genetiche Brca-1 e Brca-2, che indicano una predisposizione al cancro del seno.
Desiderare figli sani non è un peccato se la scienza ti offre la soluzione. Io questo lo trovo giusto, soprattutto quando la malattia è sicuro che si manifesti (per esempio la talassemia, ndr) ". Comunque in Italia la legge 40 impedisce la diagnosi preimpianto. Quindi non c'è questa possibilità per le future mamme... "Sì ma poi ammette l'aborto terapeutico. La legge 40 è una legge imperfetta. Sarebbe stato meglio allora vietare del tutto la fecondazione artificiale.
Con la legge attuale non si elimina il rischio degli embrioni sovranumerari e in più si mette a rischio la salute della donna con i parti plurigemellari. E la salute degli embrioni stessi, perché spesso uno dei tre impiantati è abortito per favorire lo sviluppo degli altri due. Ecco perché si trovano escamotage per salvaguardare la salute soprattutto delle neo-mamme giovani. In realtà, per evitare il far west di cui tanto si parlava sarebbe stato meglio lasciare il tutto alla discrezione dei medici specialisti affinché si operasse caso per caso. Una legge da modificare al più presto. Anche perché la fertilità è un traguardo fondamentale per ogni essere umano e la scienza lavora in questa direzione".

 

Ma che Destra e Sinistra: in Italia nessuno vuole il liberalismo economico

Moravia non sapeva mettere la punteggiatura: gliela dovevano aggiungere gli editor di redazione. Così, molti professori universitari e perfino giornalisti non sanno che Destra e Sinistra, quando sono da soli, cioè usati per antonomasia, per denotare uno schieramento politico, e non un luogo, vanno trattati con la iniziale maiuscola, come "Polo" o "Ulivo", insomma equiparati ai nomi propri. E' come scrivere "paese". Con la minuscola: non è l'Italia, ma un villaggio qualunque. Ci perdonino, perciò, il Corriere, dove evidentemente non si fa editing, e il bravo Panebianco, di cui condividiamo tutto, se abbiamo dovuto per insopprimibile senso estetico-razionale perdere minuti a cambiare le tante iniziali...("sempre imprevedibili gli incipit di Nico Valerio").
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Destra, Sinistra e il libro di Alesina e Giavazzi

Il rifiuto del liberismo
Angelo Panebianco, Corriere della Sera, 8 settembre 2007
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Il liberismo è di sinistra? Certamente sì, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che hanno scritto un pamphlet con quel titolo ma senza il punto interrogativo. In cento pagine, con un linguaggio semplice e efficace, i due economisti raggiungono l' obiettivo che si proponevano: fornire munizioni, sotto forma di eccellenti argomenti, ai riformatori presenti nella coalizione di centrosinistra e impegnati (con pochi successi) in un braccio di ferro con le componenti dirigiste della maggioranza.
Il libro di Alesina e Giavazzi è destinato a influenzare il dibattito politico-culturale nella Sinistra italiana con riflessi possibili (auspicabili) anche sulle scelte politiche di Governo. Nella peggiore delle ipotesi, i loro argomenti serviranno almeno a indebolire pregiudizi (contro il mercato e la concorrenza) e idee ammuffite che, per forza d' inerzia, continuano a circolare nella sinistra italiana, anche in quella ufficialmente non massimalista.
La tesi di partenza di Alesina e Giavazzi è semplice. Ciò che, in omaggio a una tradizione italiana, essi chiamano "liberismo" (ma, come Piero Ostellino, anch' io preferisco, per ragioni che dirò poi, la dizione "liberalismo economico") è in grado di realizzare gli obiettivi di equità e di uguaglianza delle opportunità che sono storicamente ideali di Sinistra, mentre le politiche interventiste e dirigiste praticate dalla sinistra italiana calpestano il principio di equità e finiscono per accrescere disuguaglianze e ingiustizie.
Si tratti di meritocrazia nell' istruzione, di riforme del mercato del lavoro, di liberalizzazione delle professioni, di privatizzazione delle industrie di Stato, è possibile dimostrare, secondo Alesina e Giavazzi, che la concorrenza e l' equità non sono in antitesi, che le politiche liberiste, colpendo privilegi e rendite monopolistiche dei pochi, avvantaggiano i più, rendono la società più giusta e più efficiente al tempo stesso. Condivido totalmente. E guardo con simpatia al loro tentativo di fornire munizioni ai deboli, minoritari, e un pò spauriti, "liberisti" del centrosinistra.
Non mi convince però la tesi secondo cui dovremmo considerare "di sinistra" il liberalismo economico/liberismo. Penso piuttosto che il liberalismo economico sia tale da non lasciarsi facilmente assorbire nella tradizionale classificazione Destra/Sinistra.
Non è questione di etichette ma di sostanza. Non c' è solo il fatto (non proprio marginale) che se consideriamo di sinistra il liberalismo economico, ne consegue, per il principio di non contraddizione, che i (pochissimi) liberal-liberisti italiani, fra i quali includo anche me stesso, dovrebbero essere considerati tutti di sinistra (il che forse provocherebbe in alcuni di loro una crisi di identità).
È soprattutto che il liberalismo economico, benché tradizionalmente considerato di destra, non "quaglia" né con la Destra né con la Sinistra. Non con la Destra perché la Destra è prevalentemente corporativa. E non con la Sinistra perché la Sinistra è prevalentemente classista e redistributiva. Non parlo di Destre e di Sinistre "ideali" ma della Destra e della Sinistra così come sono state confezionate dalla storia. Non soltanto in Italia.
Prendiamo un caso in cui il liberalismo economico ha conseguito grandi successi alla fine del XX secolo: la Gran Bretagna. La sua affermazione incontrò formidabili resistenze sia a Destra che a Sinistra. A Destra, la Thatcher conquistò, con un programma liberista, il partito conservatore nel 1975 (portandolo poi alla vittoria elettorale nel 1979). Ci riuscì perché il partito era stremato e in crisi. I conservatori tradizionali furono costretti a subire la Thatcher pur odiandola e disprezzandola e a subire un programma di governo liberista che contraddiceva la tradizione conservatrice. Lo stesso vale per Blair. Riuscì a impadronirsi del Labour Party perché il partito era agonizzante dopo tanti anni di opposizione senza prospettive e perché i sindacati erano stati fortemente indeboliti dalla "cura Thatcher". Fu così che Blair, facendo leva sull' eredità di successo del thatcherismo, potè infondere nel Labour, e ispirare ad esso la sua azione di governo, un liberalismo alla Gladstone (il grande leader liberale del diciannovesimo secolo) che non aveva molto a che spartire con la tradizione laburista.
Destra e Sinistra, non solo in Italia, tendono spesso a rifiutare le ricette del liberalismo economico, a cominciare dalla concorrenza, anche se per ragioni diverse. La Destra perché la concorrenza può sconvolgere gli equilibri interni a quei ceti (per esempio, professionali) di cui essa si fa per lo più garante. La Sinistra perché essa è storicamente interessata a ridistribuire la torta (attraverso tasse e spesa pubblica) a favore di alcuni gruppi di lavoratori dipendenti: anche se ciò comporta, come rilevano Alesina e Giavazzi, andare contro gli interessi dei giovani, dei consumatori, o dei veri poveri.
Più calzante della distinzione Destra/Sinistra mi sembra quella che lega la questione del liberalismo economico alla opposizione fra i fautori della società aperta e i fautori (di Destra e di Sinistra) della società chiusa. Solo i primi, indipendentemente dalle loro contingenti scelte politiche, apprezzano meritocrazia e concorrenza, pensano che lo Stato debba limitarsi a fornire alcuni essenziali "beni pubblici" (compreso il bene pubblico rappresentato da regole certe e trasparenti per il mercato) lasciando per il resto il massimo spazio possibile alla libera iniziativa dei singoli. Nella convinzione che ciò porti, proprio come pensano Alesina e Giavazzi, più efficienza, più libertà e più equità.
Non credo che parole abusate, e usurate dalla storia, come Sinistra e Destra servano per afferrare il punto. Il problema non è stabilire se il "liberismo" sia una bandiera che tocca alla Sinistra o alla Destra sventolare. Il problema è cosa fare per rafforzare, negli attuali schieramenti, la posizione dei fautori della società aperta a scapito di quella (storicamente molto più forte) dei fautori della società chiusa. Una parola conclusiva sul perché non mi piace il termine "liberismo". Fu inventato in Italia nel diciannovesimo secolo da nemici delle idee liberali. Presuppone che la libertà possa essere fatta a fette: che si possa separare nettamente la libertà economica da quella politica e civile. Il passo successivo consiste spesso nel sostenere che sia possibile avere piena libertà politica, civile, culturale, eccetera, anche in un regime di oppressivo dirigismo economico, in assenza di libertà economiche. Una tesi che a me pare falsificata dall' esperienza storica.

 

Favole. Mago Otelma, Babbo Natale e Uomo ragno contro la “scienza atea”

Gli scienziati, diciamola tutta, non vanno più in chiesa la domenica: ecco qual è la causa della crisi della ricerca in Italia e altrove. Ah, se avessero continuato a seguire il Catechismo come alcuni di loro facevano da piccoli, e come uno solo di loro fa ancora da adulto, Zichichi!
La scienza? Potrebbe in teoria - consentiamolo - fare del bene, ma spesso fa il male dell’Uomo. Anzi, se continua su questa strada, finirà per distruggere l’umanità. A meno che…
A meno che gli scienziati non si decidano a credere nelle favole. Ma sì, un po’ di fantasia, perdinci. Non dicono alcuni studi che la creatività e l’immaginazione giovano a delineare le ipotesi di lavoro? E che Einstein era soprattutto dotato di grande immaginazione e intuizione? Bene, e allora i ricercatori dimostrino di averla, questa benedetta fantasia, e portino alle estreme conseguenze questa facoltà inventiva.
Altro che studi, esperimenti e ipotesi di lavoro da comprovare. Basta con tutto questo razionalismo e ateismo scientista e illuminista. Ma sì, non vuol dirlo nessuno, la vera emergenza è che oggi la scienza è atea. Sono lontani, purtroppo, i tempi in cui gli studiosi in Italia, Portogallo, Irlanda, Polonia e Spagna erano solo i preti. Bei tempi. Piuttosto, perché gli uomini di scienza non si mettono a invocare un po’ di miracoli? Non è facile, d'accordo, ma neanche impossibile. Su, ci mettano un po’ di buona volontà: Gesù, Sant’Antonio e Padre Pio ne fanno tanti. E chi, più di loro, era uomo di scienza e conoscenza?
L’evidenza degli studi, le regole statistiche, il metodo "double blind", la riproducibilità dei risultati, i Consensus internazionali? Tutte balle. Tutte degne d’un "premio IgNobel". I ricercatori devono solo seguire la "verità".
E cioè? Non devono mettere in dubbio nulla, né sperimentare. Ma devono avere già in sé la Verità assoluta, cioè essere illuminati dalla Fede e credere nei miracoli, nelle resurrezioni, nelle favole. Gli esperimenti? Possono solo comprovare il Vangelo.
Chi lo dice? Un vecchio signore, sedicente portavoce di Babbo Natale - scrive l'ottimo Vallocchia di No God in una news che ci ha fatto divertire - abbigliato spesso con palandrane multicolori (l'altro giorno, in Austria, con un' azzardata mise a due tinte pastello, gialla e celeste....orrore, ma chi è il costumista?) e con buffi copricapi dalle più disparate fogge e dimensioni, a volte più vistose di quelle del Mago Otelma. A differenza di quest'ultimo il portavoce di Babbo Natale riscuote credito fra un mucchio di gente e rivendica la superiorità del suo ispiratore con altri caratteristici personaggi delle favole, come il Gatto con gli Stivali, il Pifferaio di Harlem, Cappuccetto rosso, l’Orco dalle Sette Teste, il Principe Azzurro, Superman, l’Uomo-ragno, Nembo Kid e il Mago di Oz. Li abbiamo presi dalle favole tutti maschi, non a caso, perché Dio è maschilista, si sa.
E le altre favole e religioni? Certo, tutte degne di rispetto, dice il portavoce di Babbo Natale, ma c'è favola e favola. Alcune sono meno vere di altre. Per esempio, quegli incivili e fanatici che credono nel Gatto con gli Stivali (fingiamo che siano gli islamici), le cui frange più estremiste mettono bombe e minacciano sfracelli, tanto per far capire che il loro eroe è più potente degli altri.
Se il Vicario di Babbo Natale - commenta Vallocchia - usasse nei confronti dei seguaci di un qualsiasi altro personaggio dei fumetti e delle favole lo stesso livore e disprezzo che vomita normalmente verso tutti quelli che si rifiutano di credere a quelle balle (gli ateisti, NdR), si sarebbe scatenata una guerra mondiale. Ma i non credenti nelle menzogne possono essere continamente offesi senza che nessuno apra bocca. Ci aspettiamo almeno una pur flebile reazione dalle organizzazioni dei non credenti nelle favole o, quanto meno, da quegli intellettuali e scienziati non credenti che sono stati così spudoratamente offesi.
E a proposito del "bagno di folla" in Austria, così continua Vallocchia. "Contrariamente a quanto fatto per il V-Day di Beppe Grillo, i Tg della Rai (Religione Autoriaria Italiana, NdR) hanno dato la consueta ampia ed enfatica copertura al viaggio del Papa in Austria. Hanno correttamente riferito il flop della partecipazione popolare, ma si sono affrettati a giustificare l' insuccesso con la pioggia e il freddo. Non hanno detto niente però delle polemiche furibonde che si sono scatenate a proposito dei costi di quella scampagnata di cui i contribuenti austriaci, a differenza di quelli italiani, non sono affatto disposti a farsi carico. Prova ne sia che in massa corrono a farsi cancellare dall' elenco dei fedeli che, per legge, consente di prelevare una cospicua tassa a favore delle varie comunità religiose. Beati loro che possono farlo. In Italia, con l' otto pe rmille obbligatorio per tutti, la rapina di Stato a favore delle religioni colpisce anche gli atei. Una nostra conoscente viennese con una semplice firma risparmia 150 euro l' anno che dona in beneficenza vera, anzichè farli usare per pagare scenografi e costumisti delle faraoniche messinscena pontificie. Austria Felix".

 

Il liberismo è di Sinistra? Pannella, al solito: “Ma io l’ho sempre detto”

L’aereo è in pista, pronto a partire, e i motori cominciano a girare A questo punto le comunicazioni telefoniche private sono vietatissime. Ma non per un esternatore incallito come Marco Pannella. E’ più forte di lui: deve assolutamente trasmettere a Radio Radicale il suo commento sull’ultimo libro-provocazione di Alesina e Giavazzi "Il liberismo è di sinistra". Neanche si preoccupa di parlare piano, cosicché, immaginiamo, i passeggeri del volo Roma-Milano assistono ad un vero siparietto-comizio. E siamo sicuri che saranno stati tutti orecchi: lo scoop c’e, altroché. Il vecchio marpione si muove da par suo tra giornalismo e politica.
Il liberalismo economico, insomma il "liberismo", sarebbe più di Sinistra che di Destra? Verissimo, esulta Pannella. E riprende il suo classico tormentone: "Io l’ho sempre detto".
In realtà, ha notato anche Panebianco, il libro è una provocazione, fatta più ad uso interno per favorire la debole corrente riformatrice o liberal nel nascente Partito democratico. Macché, Pannella lo prende sul serio. "E’ un libro magistrale". Ed anzi, "l’articolo del Corriere di oggi farà data. Il Corriere, organo della buona borghesia italiana, si accorge di una cosa che noi andiamo dicendo da sempre.
Sono almeno vent’anni - s’infervora Pannella - che ripeto che il liberalismo, certo, è storicamente anche un grande elemento di Centro. Ma il liberismo è di Sinistra".
Sinistra? "Ma sì, la Confindustria ha sempre avuto posizioni antiliberiste, mentre dall’altra parte abbiamo Salvemini ed Ernesto Rossi, e le battaglie di fine 800 sul macinato, il dazio sul grano… sono storicamente grandi battaglie di Sinistra, di liberazione e di alternativa - prosegue Pannella - un modo possibile per affrontare gli stessi ideali, le stesse utopie della Sinistra tradizionale, marxiana e marxista. Perciò il muro che ci separa dal mondo migliore della Sinistra è una parete di carta, perché il liberismo in realtà è solo di Sinistra. A Destra non ha mai avuto spazio".
In realtà, nella sua lunga carriera politica, il geniale visionario e affabulatore Marco ha detto tutto e il contrario di tutto. Quante volte, sorprendendo i compagni che dagli anni 60 agli 80 si ritenevano liberali sì, ma di Sinistra, ha proclamato che i Radicali italiani erano i veri eredi della gloriosa Destra storica*? Ma questo sui diritti di libertà. D'economia ha sempre parlato poco. Ora, con questa sortita "al volo", cioè mentre l'aereo stava per decollare, torna al liberismo del Partito d'Azione e del liberal-socialismo. Una giravolta che durerà l' èspace d'un matin.
Destra, Sinistra? Parole vuote. Abbiamo ragione noi Liberali, specialmente se si parla di una "cosa nostra", cioè di liberalismo economico o "liberismo" che dir si voglia: è parte integrante del Liberalismo politico, e non è praticato compiutamente e nella sua interezza - purtroppo - né dalla Destra né dalla Sinistra..Perché entrambe sono corporative, conservatrici, stataliste.
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* Nota terminologica per i conservatori che si vergognano di definirsi tali e si spacciano per "liberali" (proprio come i nudisti si definiscono abusivamente "naturisti", che è un'altra cosa): la Destra storica era cosa ben diversa dalla Destra. La prima era la Destra del liberalismo, quella che aveva fatto il Risorgimento e l'unità d'Italia. La seconda è semplicemente un'accozzaglia elettorale di conservatori poco o nulla liberali, moderati generici e senza idee, molti clericali, e vari reazionari. Nessuno di questi farebbe il Risorgimento.

07 settembre, 2007

 

Provocazioni utili. “Il liberismo è di Sinistra” per Giavazzi e Alesina. O no?

L'estate politica è finita, e ad una ad una si chiudono le ultime languide "Feste della Politica", invenzione tutta italiana che discende dai riti del Santo patrono. Sempre di privilegiati si tratta. Ma che ci sarà da festeggiare? Il modo con cui la "casta" di provincia dilapida i nostri soldi? Tra pessimo lambrusco e mortadella al Nord, birra e porchetta al Centro, mozzarelle di bufala, fichi e pasta di mandorle al Sud (per queste cosette, è inutile, i borbonici la vincono sui nordisti), il bla-bla da sotto gli ombrelloni sul mare si è trasferito armi e bagagli sotto i gazebo
di Telese Terme, improbabile località di villeggiatura, col solito demi monde di molto poco onorevoli, portaborse e cronisti ospitati a spese del cittadino italiano nei costosi albeghi di Stato locali, come uno sgangherato carro di Tespi che recita sempre lo stesso soggetto a canovaccio.
Smessi i feuilleton e le parole crociate, si è risvegliato anche il Corriere, con una bella e utile provocazione. Un articolo di Dario Di Vico che lancia con risalto in prima pagina l'ultimo libro di due collaboratori del giornale (è conflitto d'interessi, ma non lo dice nessuno), Giavazzi e Alesina. Macché "di Destra", il liberalismo economico - in Italia chiamato "liberismo" - è "di Sinistra".
Noi, veramente, sapevamo fin da adolescenti che il mercato libero e le liberalizzazioni sono liberali, solo liberali. E neanche fin dagli inizi e per tutti gli autori del nostro Sancta Sanctorum. Se è vero che negli ultimi decenni le libertà economiche, anzi l'effetto copia del benessere, hanno preceduto e veicolato le libertà politiche (Urss, Germania orientale, Polonia, Ungheria, Albania, Cina), non era così in origine e per alcuni intellettuali e teorici del Liberalismo. E non solo il solito Croce. Per i quali è di volta in volta il Diritto, la legge, il Logos, la Ragione, il contenuto vero del Liberalismo, come ricorda il liberale Panebianco, sempre sul Corriere. Comunque, fosse pure acquisizione successiva, che sia liberale, liberalissimo patrimonio, non c'è dubbio. Ma la contrapposizione extra-ideologica Destra-Sinistra? Non vale nulla teoricamente, ma è forse qui il pepe della provocazione. Vale la pena di riportare l'articolo di Di Vico, in attesa di leggere il libro.
Non dubitate, ci torneremo sopra più volte. Anzi, il dibattito è già aperto. Domani sarà pubblicata una breve intervista a Marco Pannella ("Io l'ho sempre detto"), seguirà Panebianco, poi ci sarà un nostro commento. Intanto, affilate le armi. (Nico Valerio)
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Il libro-provocazione di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che animerà la nuova stagione politica
Perché il liberismo è di sinistra
Un' Italia più efficiente va a favore degli outsider
di Dario di Vico
Corriere della Sera, 6 settembre, 2007
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"Da qualche mese in alcuni supermercati e autogrill italiani giovani farmacisti vendono medicinali a un prezzo inferiore del 20-30 per cento rispetto alle vecchie farmacie di città. Chi è più di sinistra? Chi liberalizza commercio e professioni o chi permette che le farmacie si tramandino di padre in figlio consentendo loro di far pagare a prezzi esorbitanti anche medicinali comunissimi come l' aspirina?". Comincia con un esempio assai concreto quello che si candida ad essere il libro-provocazione della rentrée politica: Il liberismo è di sinistra.
Lo hanno scritto due economisti, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che vivono un po' al di qua e un po' al di là dell' Atlantico e sono abituati ormai ad alternare gli studi e le ricerche alla battaglia delle idee. Stavolta però hanno deciso di farla grossa: sfidare l' opinione corrente che accoppia indissolubilmente le parole "liberismo" e "destra", mentre - a parer loro - concorrenza, riforme e merito dovrebbero essere le nuove bandiere della sinistra, perché chi ha a cuore i valori storici dell' equità e delle pari opportunità è bene che, oggi e in Italia, faccia affidamento innanzitutto sul mercato.
Con queste premesse il libro ha tutti i requisiti per far discutere ed è intanto una prova della vitalità della scuola milanese di economisti. Il ragionamento dei due professori - tutt' altro che catalogabile nello schema dell' antipolitica - può essere riassunto in tre punti-chiave: a) il proliferare delle caste e delle lobby dimostra che la politica ha fallito in uno dei compiti primari che si era data, garantire l' allocazione "democratica" delle risorse; b) la sinistra più della destra ha ancora una chance, fare quelle riforme liberiste che "renderebbero l' Italia più efficiente ma anche più equa"; c) se il Belpaese diventasse più efficiente, ad avvantaggiarsene non sarebbero i soliti happy few o gli immancabili poteri forti, ma gli outsider. Nel libro c' è un passaggio rivelatore di come la pensino i due a proposito di leadership della sinistra. Ricordano come Walter Veltroni al momento di candidarsi alla guida del Partito democratico abbia citato Vittorio Foa ("La destra è figlia legittima degli interessi egoistici dell' oggi, la sinistra degli interessi di coloro che non sono ancora nati") e subito dopo chiosano che se questa è la sinistra che sogna Veltroni, non è certo quella rappresentata nel governo Prodi.
Per sostenere le loro tesi eterodosse i due professori portano, tra gli altri, l' esempio del caso Lecce. La locale università ha fatto una dissennata politica di assunzioni tecnico-amministrative e, avendo sprecato i soldi, lo scorso inverno il rettore è stato costretto a sospendere persino il riscaldamento nelle aule. In città pochi sembrano preoccuparsene: i figli della buona borghesia salentina studiano a Bologna, Torino, Milano. A Lecce sono rimasti solo quelli che non possono permettersi un trasferimento al Nord. E che fatalmente si troveranno ad avere in mano un titolo di studio palesemente svalutato.
Chi è più di sinistra, dunque: chi vuole un' università più snella o chi continua a stanziare fondi per perpetuare lo status quo? Sui ritardi nel liberalizzare le professioni Alesina e Giavazzi avanzano poi una tesi assai maliziosa. La sinistra è riottosa, sostengono, perché sa che il passaggio successivo è la liberalizzazione del mercato del lavoro, che toccherebbe "gli interessi di quello zoccolo duro di lavoratori anziani illicenziabili e di impiegati pubblici superprotetti dall' attuale legislazione". Ma solo liberalizzando il mercato le assunzioni aumentano. Lo insegna l' America, storicamente liberista, ma anche la Danimarca. che ha tolto ogni ostacolo ai licenziamenti, garantendo però un efficace sistema di sussidi alla disoccupazione e di incentivi a ritrovare lavoro.
Se in Italia, invece di coltivare "la retorica del salvataggio", si fosse fatta fallire l' Alitalia, si sarebbero creati spazi di mercato per altre compagnie, vecchie e nuove, che nel frattempo avrebbero assorbito gli ex dipendenti Alitalia e i prezzi inferiori, dovuti all' aumento della concorrenza, avrebbero attirato nuovi viaggiatori. Invece il contribuente italiano continua a pagare da anni per coprire le perdite della compagnia di bandiera.
Una sinistra che, seguendo i consigli di Alesina e Giavazzi, volesse far suo il verbo liberista dovrebbe però mandare in soffitta il mito dell' alleanza dei produttori. "Un mito - spiegano - che ha le radici in una visione marxista del lavoro: il marxismo si focalizza sulla produzione, sul conflitto di classe all' interno del sistema produttivo; la domanda, cioè i consumatori, è pressoché irrilevante". E come conseguenza la sinistra italiana fa ancora tanta fatica a vedere i consumatori come una categoria a cui dare rappresentanza.
Eppure la storia insegna che capitalisti e lavoratori possono scontrarsi, come è accaduto e accade spesso in Italia, ma possono anche trovare un accordo a carico dei soggetti terzi, i contribuenti e i consumatori. Il caso di scuola è il punto unico sulla scala mobile, adottato di comune accordo tra Luciano Lama e Giovanni Agnelli in nome dell' alleanza dei produttori. In quella circostanza gli industriali ottennero la benevolenza del sindacato ma scaricarono sui consumatori gli oneri di un' intesa che avrebbe acceso l' inflazione.
Con qualche preoccupazione i due economisti segnalano una tendenza di Romano Prodi a "progettare" un nuovo capitalismo misto, guidato da banchieri e da manager pubblici sotto l' ala protettiva del suo governo. Ma il capitalismo di Stato - la nuova forma dell' alleanza dei produttori - è di sinistra? La risposta è secca: "No, perché danneggia i consumatori". Pensare che banchieri e manager pubblici nominati dai politici siano più lungimiranti nelle scelte di investimento è giudicata un' illusione.
Ed è difficile dar torto ad Alesina e Giavazzi. "Basta ripercorrere la storia dell' Iri negli anni 70 quando impiegò nel Sud risorse straordinarie delle quali non si sono mai visti i risultati. Ricerca e sviluppo non hanno bisogno della proprietà pubblica, ma di buone università e incentivi, non alle imprese ma ai nostri ricercatori migliori per convincerli a non emigrare negli Stati Uniti". Il capitalismo di Stato non è di sinistra perché protegge corporazioni piccole ma potenti: alcuni politici, alcuni manager pubblici, i dipendenti di qualche impresa a partecipazione statale, annotano lapidariamente gli autori.
Rispetto a precedenti loro lavori Alesina e Giavazzi dedicano grande spazio alle issues della sinistra, come welfare, disoccupazione e povertà, ma la riflessione sul liberismo possibile è inframmezzata da giudizi fulminanti che rendono, oggi, più gradevole la lettura e, domani, più pepati i commenti. I fruttivendoli del centro di Milano, per i prezzi-monstre che assegnano a fragole e mele, "paiono dei gioiellieri", l' Agenda di Lisbona ("un' inutile verbosità"), gli economisti keynesiani ("per loro non è mai il momento buono per ridurre la spesa pubblica"), Alleanza nazionale e i partiti comunisti ("sulla politica economica formerebbero un governo perfettamente omogeneo") e infine Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa. "Vogliono essere ricordati come leader che, pur di non rischiare nulla, hanno finito per essere superati dagli eventi e puniti dagli elettori? Noi speriamo che vogliano passare alla storia come Bill Clinton, non come Jimmy Carter".

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Il libro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, "Il liberismo è di sinistra", è edito dal Saggiatore (pagine 126, euro 12)
Francesco Giavazzi, editorialista del "Corriere della Sera", insegna Economia politica all' Università Bocconi di Milano e al Mit di Boston. Alberto Alesina, editorialista del "Sole 24 Ore", è docente di Economia politica al Mit e alla Bocconi

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