21 luglio, 2008

 

Perché sarà un bene per tutti se noi acquistiamo più “made in China” o India

E' giusto e anche lodevole boicottare le merci cinesi per ritorsione simbolica e propagandistica, magari approfittando delle prossime Olimpiadi, contro lo spregio dei diritti umani e le misure repressive di quel Governo capital-autoritario (Tibet, minoranze politiche e comunità religiose). Ma non certo per motivi economici. E se ne guardino i Governi occidentali: sappiano resistere alle tentazioni protezionistiche e populistiche trasportate sul campo economico. Avrà ragione chi saprà vedere oltre il proprio naso.
Come liberali e liberisti abbiamo sempre "difeso" Cina e India dall’accusa stupida e ottusa di affamare l’Occidente con una politica di bassi prezzi, realizzata grazie ad un "dumping sociale". Degli amici poco riflessivi hanno perfino deciso di boicottare il made in China. Ma sbagliano, e sbagliano di grosso. Ecco perché.
Perché i Paesi emergenti non sono "maliziosi" o "criminali", ma sono soltanto poveri. Come eravamo poveri noi Italiani, che però nelle esportazioni da quella nostra povertà traevamo vantaggio con le nostre perfette imitazioni (camicie, calze, cravatte, scarpe, macchine) che danneggiavano la concorrenza straniera più ricca, che produceva a costi troppo alti e vendeva perciò a caro prezzo,.
Cina e India oggi, come l’Italia ieri, e l’altroieri qualunque altro Paese capitalistico, non danneggiano certo i nostri consumatori, ma semmai puniscono – giustamente – i produttori occidentali marginali o che non sanno fare il loro mestiere, che per mancanza di spirito imprenditoriale producono a costi crescenti e senza inventarsi economie di scala, diversificazioni, collegamenti, acquisti in comune, delocalizzazioni ecc.
Il consumatore, invece ne è avvantaggiato, proprio come accade per i discount di fronte ai supermercati di marca. Dato che la qualità è del tutto analoga, ma i prezzi sono molto più bassi. Acquistare sulle bancarelle magliette a 3 euro, ottime camicie di cotone e ben cucite a 5-10 euro e robuste scarpe a 10-30 euro (che spesso durano di più delle eleganti e costose scarpe italiane da 150 euro…) permette ai cittadini consumatori occidentali più colpiti dalla crisi economica e dall’inflazione di sopravvivere, limitando o addirittura pareggiando (famiglie numerose, comunità) in modo consistente il proprio deficit. E, a saperci fare, tra supermercati discount no-marca e prodotti importati dai Paesi poveri, i consumatori marginali totalizzano migliaia di euro risparmiati all’anno. Il che attenua o bilancia i danni dell’inflazione e del rincaro dei prezzi.
Ma sul medio termine che accadrà? Che il boom di esportazioni verso l’Occidente ricco renderà Cina e India sempre più ricche, aumentando il tenore di vita dei cittadini orientali. Ne conseguiranno necessariamente sempre più alti salari e quindi più alti costi di produzione dei prodotti, una maggiore presenza di sindacati, forse anche più scioperi e agitazioni, ma anche una più diffusa e minuziosa tutela delle condizioni del lavoro e dell’ambiente. Ma in tal modo aumenterebbe sempre di più anche il costo di produzione (lavoro e materie prime) dei prodotti destinati all’Occidente. Prodotti che offerti all’esterno a prezzi sempre più alti converrrebbero sempre meno ai cittadini occidentali. Fino a raggiungere un nuovo equilibrio. Perché a quel punto, con i prezzi della concorrenza cinese maggiorati, rientrerebbero in gioco i piccoli produttori marginali italiani o tedeschi, prima esclusi dal mercato, che finalmente potrebbero far valare la migliore qualità. E così via.
Quindi, altro che "boicottare i prodotti made in China". Si capirebbe, questo sì, solo la motivazione politica, dimostrativa, p.es., pro Tibet e per i diritti umani, ma non quella economica. Al contrario, dovremmo, semmai, paradossalmente, favorire, propagandare il made in China, proprio per affrettare il funzionamento di quel meccanismo virtuoso che abbiamo descritto in modo così elementare. Insomma, prima Cinesi e Indiani diventano ricchi, meglio è per tutti. Per loro e per noi.

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