20 dicembre, 2008
E se abolissimo le Regioni, anziché le Province? È lì che si nasconde il marcio.
L’Italia è densa di Storia, d’arte e di bellezze naturali, certo, ma come estensione è un piccolo Stato. Con i suoi 301 mila chilometri quadrati è simile, anzi un poco più piccola, allo staterello del New Mexico (capitale Santa Fe’), uno degli Stati Uniti.
E l’Italia ha una capitale che è situata al centro esatto del suo territorio, oltretutto molto stretto, perciò ogni città o provincia è facilmente raggiungibile da Roma o da altri punti della Penisola in poche ore con qualunque mezzo, dall’aereo alla carrozza a cavalli. E oggi siamo in tempi di messaggi rapidi in email…
Che bisogno c’era di spezzettarla in tanti sotto-Stati, le cosiddette "Regioni", inventate dalla Costituzione del 1946, che mai sono stati davvero nel cuore e nella Storia degli Italiani, semmai più municipalisti e campanilisti che regionalisti? Senza contare che le nostre Regioni non corrispondono neanche a precise realtà geografiche o storiche. Infatti non coincidono mai con i vecchi Stati preunitari spazzati via dal Risorgimento.
E allora, perché? A che servono? Questo è stato uno dei pochi errori di quei galantuomini intelligenti ed efficientissimi che sono stati i nostri Padri Costituenti. Bisogna capirli, dopo l’accentramento paranoico voluto dal Fascismo, non volevano rischiare l’unicità del comando e hanno fatto di tutto per estendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni della Repubblica. Ma non avevano fatto i conti con la voglia di sprechi e ruberie degli Italiani, che prendono ogni posto pubblico come un’occasione per spendere soldi non propri senza limiti, quando addirittura non una comoda mangiatoia.
I liberali, ricordo benissimo da Giovane Liberale a 16-18 anni, erano contrarissimi all’attuazione degli articoli della Costituzione sulle Regioni. L’Italia è piccolissima, dicevano, che bisogno c’è? Sarebbe assurdo spezzettarla ancora di più in tanti quasi-Stati (parole sante oggi, quando l’Italia non è troppo grande ma troppo piccola rispetto al mercato europeo e mondiale…). Non possiamo – continuavano – fare la scimmiottatura degli "States" in un territorio che equivale ad un loro piccolo Stato. “Daranno luogo sicuramente a una pletorica burocrazia dispendiosa e parassitaria”, incalzavano nel PLI. E ai tanti che giustificavano almeno con la possibilità di risparmi: “Saranno una occasione di spreco, non di risparmio”. E conoscendo il carattere e la storia degli Italiani, fin dal Medio Evo settari e l’uno contro l’altro perfino nella stessa città (il Palio di Siena ne è un esempio), dando tutti i poteri alle Regioni – dicevamo – si rischierebbe l’anarchia: ognuna spenderebbe senza limiti come se fosse uno Stato sovrano. Le tendenze naturali di un popolo anarchico vanno temperate, non favorite. Macché, parole al vento: la Carta Costituzionale aveva previsto le Regioni e le loro enormi competenze? Ebbene, bisognava attuarla. [Ma come mai molti altri articoli, ben più importanti, non sono mai stati davvero attuati?].
E avevamo ragione da vendere. Poi, con l’avvento della Lega Nord, con l’emergere sulla ribalta politica di molti cialtroni provinciali e sottoculturali che blateravano di ritornare al pre-Risorgimento, di dare tutto il potere ai municipi senza alcuna selezione di merito e capacità, infischiandosene dell’unità di un piccolo Stato come l’Italia, troppo recentemente riunito dopo secoli, si è cominciato a straparlare di “secessione” e poi di “federalismo”. Ma il federalismo, nel suo significato migliore, fu una opzione dignitosissima, valutata e discussa nel Risorgimento, quando si temeva che i vari Stati preunitari non avrebbero mai potuto unirsi. Fu scartata, si preferì unificare gli Italiani pensando giustamente che staterelli così diversi (alcuni arretrati, altri avanzati) avrebbero potuto prosperare solo se uniti, mentre il federalismo avrebbe potuto cristallizzare le differenze secolari, impedendo o ritardando lo scambio reciproco e la maturazione delle idee.
Oggi proprio attraverso la "statizzazione" delle Regioni il neo-federalismo potrebbe fare gravi danni separando ancora di più gli Italiani tra loro e distruggendo l'Italia, già piccolissima di per sé, come Stato, e ancora troppo differenziata per reddito, cultura, idee.
Senza contare che le scelte della piccola e poco rilevante Italia in politica o commercio internazionale potrebbero essere ancor più ridotte, o addirittura contraddette o vanificate dalle scelte particolari delle singole Regioni. Tutte cose che puntualmente si sono verificate, ha commentato Paolo D’Arpini nel suo blog.
E non parliamo degli sprechi enormi (pensiamo solo ai deficit regionali nella sanità e nell’ambiente, o alle assurde rappresentanze a Roma o addirittura all’estero). Insomma, spese pazze, clientele, inefficienza per tutte le regioni italiane, e ancor più per quelle privilegiate come "Regioni a statuto speciale" (Sicilia, Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige). E ormai il virus parassitario della Lega si è diffuso: le sciocchezze di quegli ignorantoni e paesani vengono ripetute e prese sul serio.
Ma così prosegue D’Arpini: "Dal punto di vista della comunità i cittadini si riconoscono più facilmente nella identità provinciale e raramente nell'ambito regionale. Il motivo è ovvio, la storia e la cultura in Italia hanno sempre privilegiato le comunità ristrette a partire dai Comuni sino all'ambito in cui un Comune solitamente si irradia ovvero la Provincia. Al contrario le Regioni sono state create a tavolino subito appresso l'unità d'Italia e molto spesso non rispecchiano gli ambiti di appartenenza culturale e geografica che questi territori ebbero in passato, ed il passato è presente... non è qualcosa che sparisce.
"Prendiamo l'esempio della Regione Lazio, riaggiustata durante il fascismo, togliendo all'Umbria (Rieti), togliendo alla Tuscia (alta Tuscia passata all'Umbria, Orvieto), togliendo al Regno delle Due Sicilie (Formia, etc.), riaggiustando il Frusinate ed altro ancora... Inoltre la Regione Lazio, come ogni altra Regione, nel suo governo è partigiana, ovvero cura gli interessi "democratici" degli abitanti della sola Roma, le scelte sono sempre a favore degli interessi della città. Ad esempio Roma raggruppa in sé i 4/5 degli abitanti del Lazio, il che significa che tutte le scelte amministrative regionali tendono a soddisfare gli interessi di Roma. In conseguenza di ciò il territorio delle Province storiche del Lazio è negletto ed utilizzato esclusivamente per ubicarvi gli scomodi servizi della città, il territorio delle Province è come una colonia rispetto alla madrepatria. In tal modo la grande Roma non riuscirà mai ad adattarsi al territorio osmoticamente ma continuerà a gettarvi i suoi rifiuti, a creare strutture inquinanti, a mantenere sottosviluppate e mal collegate le componenti territoriali circostanti. Quanto detto per il Lazio vale, ovviamente anche per tutte le altre Regioni: Lombardia, Campania, etc. ove risiedono grandi agglomerati urbani.
"Visto che l'Europa sta diventando sempre più una realtà politica oltre che amministrativa è sicuramente più logico studiare degli ambiti territoriali che rispecchino un'identità "bioregionale" e questi ambiti possono essere rappresentati esclusivamente dalle Province (al massimo da agglomerati uniformi come ad esempio la Tuscia con Viterbo, Civitavecchia ed Orvieto). Quindi andrebbero ristrutturate in termini bioregionali le Province, come base aggregativa ed amministrativa del territorio ed eliminate invece le Regioni, carrozzoni inutili e fuorvianti dal punto di vista dell'integrità ecologica, geografica e storica".
AGGIORNATO IL 24 NOVEMBRE 2014
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20 settembre, 2006
Porta Pia, 20 settembre. Il cap. Segre, valoroso e schivo, fu l’ebreo che salvò il cattolico Cadorna.
Ma, visto oggi col senno di poi, per tutti i cattolici, sia i cattolici liberali, sia i papisti reazionari, il 20 settembre era ed è in realtà il giorno della rinascita, l'inizio della riscoperta della sfera puramente spirituale e religiosa del cattolicesimo, come era già avvenuto nell'Europa del nord protestante. A Roma e nel Centro Italia (Stato della Chiesa) le incrostazioni da eliminare erano tante, anche rispetto ad altri Paesi cattolici, e proprio per i guasti e la corruzione che il potere temporale aveva generato sul territorio e tra le coscienze. Da allora, insomma, anche i cristiani italiani come i cristiani francesi, tedeschi, spagnoli o americani, smisero di adorare un parroco, un monsignore, un Prefetto della Fede, un Cardinale, un Nunzio, un Ministro, un Delegato di Sua Santità. E riscoprirono, se non Dio, almeno la propria coscienza di Dio.
Prima che apparisse questo articolo, i rarissimi testi che accennavano alla faccenda dicevano che questo ufficiale ebreo era "un tenente che sparò le prime cannonate". Doppio errore. Un ufficiale non può essere addetto a un cannone. Un "tenente" al massimo avrà ordinato di sparare. Ma il “tenente” era in realtà un capitano comandante, che ordinò il primo fatidico colpo di cannone. Del resto, non era credibile che fosse affidato a un tenente, un ufficiale inferiore, un compito così importante destinato a cambiare la storia d’Italia, dal generale Cadorna che doveva aver programmato bene l’azione, anche per scaricarsi la coscienza – lui fervente cattolico, e scelto proprio per questo dal Governo “per garantire la persona del Pontefice” – perché sapeva che su “chi avesse dato l’ordine di sparare” pendeva la scomunica del Papa. No, lì ci voleva almeno un capitano. E non certo un ufficiale cattolico.
Il giovane capitano è al comando della 5.a batteria del IX reggimento di artiglieria. Alle 5.20 del 20 settembre 1870, come da ordine ricevuto, ordina d’aprire il fuoco contro non certo la Porta Pia, opera monumentale del Michelangelo, ma le basse mura a destra della Porta, ritenute - a torto - molto deboli. Subito dopo sparano anche la 2.a e l’8.a batteria del VII reggimento, comandate dai capitani Buttafuochi e Malpassuti. Ma le mura Aureliane erano molto ben costruite, e oltretutto i soldati mercenari pontifici non solo non si arrendevano ma reagivano, contravvenendo a un ordine del Papa. Infatti i pontifici fecero più morti degli italiani. Così, contò qualcuno, ci vollero ben 888 colpi per avere la meglio sulle difese e aprire una grossa breccia da cui i bersaglieri poterono passare.
E altro che in "difesa": i papalini erano all'attacco. Furono, infatti, i mercenari del Vaticano, asserragliati a sorpresa in un avamposto fuori le mura Aureliane (villa Patrizi, oggi non più esistente; quasi al suo posto ora c'è il Ministero del Lavori Pubblici), a iniziare le ostilità contro gli italiani prevenendo il loro bombardamento. Un particolare che pochi conoscono e non viene mai ricordato. Infatti, alle ore 5,10 del 20 settembre i papalini colpirono a morte un artigliere di Segre, il caporale Michele Piazzoli, che dalla collina stava ancora aggiustando il cannone assegnatogli verso le mura. Ne parla lo stesso capitano nella lettera alla fidanzata (v. oltre). E fu la prima vittima della giornata, un italiano. Strano comportamento quello delle truppe mercenarie papaline. Il Papa in persona, infatti, aveva ordinato al Segretario di Stato cardinale Antonelli (e questi doveva aver dato disposizioni al proprio comandante in capo gen. Kanzler), di ritirare le truppe entro le mura e di limitarsi a un puro atto di resistenza formale. E invece no, i mercenari fecero resistenza e causarono diversi morti e feriti tra gli italiani, come testimoniala lapide apposta sulla sinistra del Monumento della Breccia (v. foto in basso).
Sulla medesima memorabile battaglia un’altra testimonianza, nella lettera al padre del sottotenente dei Bersaglieri Alberto Crispo Cappai, che poi diventerà generale.


Il XX Settembre deve essere la nostra grande Ricorrenza Nazionale, la vera festa degli Italiani. E non solo per giusto anticlericalismo, ma perché obiettivamente, dal punto di vista storico, in quanto ricorrenza del momento fondativo dello Stato Italiano, questa data è ancora più importante del 2 Giugno, Festa della Repubblica.
Ed è una vergogna che il “XX Settembre festa nazionale” non lo chiedano i politici di Destra, Centro e Sinistra uniti, come dovrebbe essere visto che è la nostra "data di fondazione", e neanche i sedicenti e parolai "liberali" super partes quando sono inseriti con grande opportunismo - ricordate? - in qualche governo di Centro-Destra che si definisce "liberale" per prendere voti, ma che i grandi e piccoli valori liberali disprezza o contraddice. Del Risorgimento, di Porta Pia, hanno perso il ricordo, anzi ne sono imbarazzati.
Il ritorno alla festività del XX Settembre lo ha dovuto proporre, tempo fa, l’insospettabile onorevole Franco Grillini (della Sinistra democratica ed ex Arci-gay), che sempre più spesso nelle interviste a Radio Radicale si mostrava "liberale" e laicista.
Perciò, viva il "XX Settembre", la nostra vera, unica, festa nazionale, a ricordo dell'evento finale e cruciale del Risorgimento italiano, che riunificò l'Italia portando la capitale a Roma come aveva vaticinato il grande Cavour nel famoso discorso alla Camera.
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Il testo della proposta di legge è riportato nel primo commento (vedi).
IMMAGINI. 1. La carica dei Bersaglieri a Porta Pia (dipinto di M. Cammarano, 1871). 2. La palla di cannone incastomata in un torrione delle Mura Aureliane. 3. Breccia e i primi curiosi (foto). 4. Porta Pia e la Breccia visti da villa Patrizi (foto settembre 1870). 5. Tomba nel cimitero di Chieri (Torino) del colonnello Giacomo Segre. Era capitano il 20 settembre 1870 a Porta Pia, e toccò a lui per delega del generale Cadorna di ordinare il bombardamento dell’artiglieria. Nell’articolo si spiega perché. 6. Una rarissima fotografia di Giacomo Segre. 7. Lapide commemorativa apposta dal Comune di Chieri nel 2008. Chissà, forse anche con il nostro piccolo concorso: questo articolo, infatti, scritto nel 2006 e ora aggiornato con foto e particolari, era stato uno dei primi a riscoprire e divulgare la figura del capitano ebreo. 8. Ambulanza dell’esercito italiano a villa Torlonia il 20 settembre 1870. 9. Ufficiale dei bersaglieri nel 1866 (modellino di U. Giberti). 10. Non ci sono fotografie o stampe dei cannoni italiani impiegati a Porta Pia. Per averne un’idea si veda questa stampa francese dell’artiglieria piemontese con cannone al traino all’assedio di Gaeta del 1860. Come si vede, il calibro dei cannoni dell’epoca era già notevole. 11. Bersagliere (stampa del Museo di Porta Pia). 12. La targa del monumento della Breccia di Porta Pia con i nomi dei caduti italiani. 13. Nella targa al maggiore Pagliari, il caduto italiano più alto in grado, il combattimento di Porta Pia è giustamente considerato quello definitivo, capace di "atterrare una dominazione sacerdotale non voluta da Cristo, condannata dalla ragione e dalla storia". 14. La mappa dei luoghi oggi (da Google Map). 15. La "Colonna della Vittoria" eretta in memoria della Breccia nel venticinquennale (1895) era in origine molto più distanziata dalle mura. Oggi risulterebbe al centro di Corso d'Italia. Il monumento, disegnato dall'arch.Carlo Aureli, utilizza una colonna romana di granito rosa orientale, probabilmente delle Terme di Nerone, trovata nel 1875 in scavi presso il Pantheon. La Vittoria alata è opera dello scultore Giuseppe Gustalla.
AGGIORNATO IL 20 SETTEMBRE 2020
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