25 ottobre, 2008
L’apparenza inganna. Imprese e lavoratori stranieri in Italia sono una ricchezza
Tanto diffuse sono queste leggende metropolitane, che si rischia di essere impopolari, perfino tra i lettori liberali, ad interpretare in chiave positiva, come fa Antonio Martino sul sito dell’Istituto Bruno Leoni, l’arrivo in Italia di manodopera e di capitali stranieri.
"Vorrei tornare su un tema accennato in un precedente articolo: la percezione distorta dei vantaggi e degli svantaggi dei movimenti internazionali di capitali, merci e persone", scrive l’economista liberale sotto il titolo "Stravaganti luoghi comuni". E così prosegue.
"La generalità della pubblica opinione e molti sedicenti esperti danno per scontate le conseguenze di immigrazione ed emigrazione, importazioni ed esportazioni, afflusso e deflusso di capitali, invariabilmente sostenendo tesi che sono l’esatto contrario della verità. Vediamo.
Cominciamo col caso forse più semplice: i movimenti di capitali. Non solo i nazionalisti economici ma anche tante persone sensate sembrano convinte che se un’impresa italiana ne acquista una estera ciò rappresenti un successo per l’Italia, qualcosa che realizza l’interesse di noi tutti. Quando, invece, accade il contrario, quando "gli stranieri" acquistano un’impresa italiana, ciò costituisca uno smacco grave per l’Italia, una perdita netta per il paese, una catastrofe da evitare ad ogni costo.
Queste tesi sono false: quanto l’Italia può produrre dipende anche dalla quantità di risorse produttive di cui dispone. Se un’impresa italiana ne acquista una straniera porta capitali all’estero, lo stock complessivo di capitale in Italia diminuisce, la nostra capacità produttiva si riduce. D’altro canto, l’impresa estera acquistata dagli italiani resta dov’è e continua a produrre a vantaggio del paese in cui si trova. Se, invece, un investitore estero acquista un’azienda italiana, la paga: si tratta di capitali che entrano in Italia, accrescono la nostra dotazione complessiva di capitale e ci consentono di produrre più di prima. L’impresa italiana acquistata dallo straniero resta in Italia e continua a produrre a nostro vantaggio. Dovrebbe essere evidente anche ai più sprovveduti che l’investimento estero in Italia ci rende più ricchi, mentre l’investimento italiano all’estero ci impoverisce.
Veniamo ora ad un caso più difficile, quello del movimento internazionale delle persone. L’Italia è stata per oltre un secolo della sua storia unitaria un paese esportatore netto di mano d’opera: l’emigrazione veniva vista come una piaga sociale per via delle sofferenze degli emigranti costretti a cercare all’estero quel lavoro che non riuscivano a trovare a casa loro. L’aspetto sociale era indubbiamente negativo ed in molti casi tragico, ma non erano meno gravi le conseguenze economiche dell’emigrazione che, riducendo la forza lavoro complessiva, riduceva anche la nostra capacità produttiva. Discorso analogo vale per il caso opposto: lo straniero che viene in Italia per lavorare accresce la nostra forza lavoro e ci mette in condizione di produrre più di quanto altrimenti potremmo. Ciò è particolarmente vero nel caso dell’Italia, paese demograficamente moribondo che ha un disperato bisogno di mano d’opera. Come sosteneva Milton Friedman: ogni lavoratore immigrato ha due braccia ed una bocca sola, contribuisce alla produzione complessiva più di quanto ne sottragga consumando.
La demonizzazione indiscriminata dell’immigrazione non è soltanto socialmente crudele, è anche demenziale dal punto di vista economico. Le preoccupazioni che suscitano quanti vengono in Italia per delinquere anziché per lavorare non dovrebbero farci dimenticare che solo grazie ad un cospicuo aumento del numero di lavoratori immigrati possiamo sperare di evitare un lungo periodo di drammatica decadenza. Chi non ci crede guardi ai nostri indicatori demografici.
Il caso più difficile di tutti riguarda il movimento internazionale delle merci e dei servizi. L’ovvio punto di partenza è questo: se solleviamo il velo monetario e guardiamo ai valori reali, il nostro reddito è costituito dalla quantità complessiva di tutto ciò che possiamo acquistare in un anno. Le importazioni sono beni e servizi che, entrando in Italia, accrescono la quantità di prodotti acquistabili dagli italiani, accrescono cioè il nostro reddito reale. Le esportazioni, invece, sono beni e servizi che escono dall’Italia e vengono resi disponibili per l’acquisto da parte di cittadini di altri Paesi; riducono cioè il reddito reale italiano ed accrescono quello del resto del mondo. Le esportazioni sono il costo del commercio internazionale, sono quanto noi diamo al resto del mondo in cambio di ciò che ne otteniamo; le importazioni sono il guadagno del commercio internazionale, quanto il resto del mondo dà a noi in cambio delle nostre esportazioni.’è poso da aggiungere
Paradossi? Non proprio, si tratta solo di quello che Philip Wicksteed, grande economista inglese, chiamava "il buon senso dell’economia".
Così Antonio Martino. C’è poco da aggiungere ad un’analisi così lucida, espressa nel modo semplice e didatticamente efficace che i professori usano all’Università, almeno alla prima lezione introduttiva. Una visione liberale che coincide assolutamente con la nostra, ovviamente. Ci chiediamo, però, per l’amore di coerenza che contraddistingue noi inguaribili illuministi, come mai Martino non dica queste verità inconfutabili anche alle riunioni del Popolo della Libertà, partito di cui fa parte, anziché rinchiudersi in uno sdegnoso e pessimistico o, a seconda delle interpretazioni, comodo silenzio.
F.Dolcino
Gli italiani imbroglioni avevano imparato a fare prodotti che non durano. Appositamente. E meritano una dura lezione. Tutto il made in Italy rischiava di diventare una burletta, una truffa: tutta forma e niente contenuto.
La scarpe cinesi da 15 euro in pelle comprate apposta per il footing dopo 3 anni hanno il tacco consumato per quanto le ho usate, ma non si sono rotte. Se fossero state italiane, a 100 euro, già avrei dovuto buttarle.
Anzi, le merci cinesi hanno ripagato in parte gli italiani della truffa dei commercianti sui prezzi.
Se ci siamo impoveriti - ed è vero - non è per gli immigrati ma per l'avventata introduzione dell'euro in un mercato immaturo, poco dimanico perché costituito per lo più da anziani, in cui la domanda era stranamente rigida. Tutti i consumatori anziani o molto giovani non hanno battuto ciglio alla truffa psicologica del raddoppio dei prezzi messa in atto da molti piccoli commercianti. Di colpo 2000 lire sono diventate 1000 lire.
A differenza di altri, gli Italiani poi non erano abituati alle monetine di alto valore, e ancora oggi non le considerano. Neanche i bambini si chinano per terra a raccogliere 10 o 20 cent, mentre quando al tempo trovavano 200 o 500 lire le prendevano, eccome.
Infine la recessione mondiale. Ma questa è arrivata quando noi eravamo già impoveriti...
Invece avremmo bisogno come del pane di capitali freschi dall'estero.
Le badanti ucraine rubacchiando e le cameriere filippine con la loro proverbiale onesta pigrizia, infine, hanno risolto un vero problema sociale.
Gli immigrati non hanno fatto crollare alcun prezzo, visto che quello che fanno non lo voleva fare nessun italiano, quindi mancava l'offerta di lavoro. Tanto meno ne hanno risentito gli impiegati logistici. Solo gli artigiani e i piccoli produttori sono stati colpiti. E ben gli sta.
Non ti dico quanto ho dovuto penare per trovare artigiani bravi e onesti quando ho dovuto restaurare un'auto antica. Alla fine molte cose ho dovuto imparararle io stesso.
Già abbiamo molte infermiere e molti muratori polacchi, molto più bravi dei nostri scansafatiche. A quando un'invasione di elettricisti, meccanici, idraulici e carrozzieri auto dell'est Europa o dell'Asia? Ci servono ingeneri, matematici e informatici indiani. E soprattutto tassisti sudamericani. Così finisce il monopolio corporativo osceno degli arroganti tassisti italiani (chi abita fuori Roma non capirà...)
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