29 dicembre, 2014
Mellini. In crisi non solo la Giustizia, ma anche il Diritto. E sempre più leggi, di casta e “speciali”.
Oramai non si tratta più di “crisi della giustizia”, né di rovina della giustizia. E’ dell’intero sistema giuridico-giurisdizionale che, in crisi da tempo, si profila una catastrofe. Si dirà che considerazioni simili sono quelle di un vecchio, tale non solo per il peso degli anni, ma per l’appartenenza ad un mondo del passato, incapace di vedere l’avvenire, il futuro, un sistema diverso, imposto dall’esplosione delle novità tecnologiche, dalle trasformazioni sociali, dall’omologazione economico-culturale in atto nel Pianeta. Vorrei tanto che fosse così. Vorrei, in sostanza, essere ceco per non dover prendere atto che è buio pesto e non si vede più luce.
Per decenni ho predicato al vento l’incombere di una “notte della giustizia”, che ho predetta, rilevando l’ineluttabilità della catastrofe di sistemi “provvisori” sempre più inestirpabili e “normali”: il doppio binario di una giustizia “anti”, “di lotta” contro questa o quella forma di criminalità “speciale” (di cui ve ne è sempre una incombente: il terrorismo, la mafia, la droga, la corruzione etc. etc.) convivente in uguale abitualità con la giustizia “ordinaria”, col risultato dell’emergere della regola del bimetallismo monetario di cui si occupano gli illuministi italiani: quella per cui “la moneta cattiva caccia quella buona”.
Le garanzie della giurisdizione sono state condizionate alla “finalità”, la salvaguardia della funzione giurisdizionale è oggi il fine primario (non era già accaduto questo con la giustizia dei “parlamenti” in Francia o altrove?). E la magistratura è divenuta corporazione-partito capace di anteporre “la lotta” alla legge ed al diritto e portata a mettere in atto perfezionate “macchine di persecuzione” del “nemico” del momento (ce n’è sempre uno da debellare) Obiettivo primario, davanti al quale cadono regole, tradizioni, senso della giustizia e delle proporzioni (chi potrebbe negare che la macchina della persecuzione si è scatenata contro Berlusconi, che non solo ne è stato sconfitto ma ne è stato messo in condizioni di non essere più nemmeno capace di denunciare come fatto politico centrale ciò che ha dovuto subire).
La connessione tra sistema di diritto sostanziale ed ordinamento giurisdizionale e la propagazione delle situazioni di crisi dall’uno all’altro è evidente. Ma è ancora più evidente e grave quando l’esercizio delle giurisdizioni diventa “cosa in potere” di una casta e di una casta-partito, capace di determinare col suo peso e con i condizionamenti che impone al sistema politico e alle altre istituzioni, mutamenti di quel sistema di diritto cui dovrebbe obbedire nella funzione di applicarlo.
Così tutto il sistema giuridico processuale ed anche quello sostanziale vengono assoggettati ad una evoluzione in funzione della casta esercente la giurisdizione e delle sue esigenze. In primo luogo quella di “alleggerirne” il lavoro, “smaltirlo”, “semplificarlo” per arrivare ad un “prodotto” maggiore. Il che, poi, alla lunga distanza, produce l’effetto del tutto opposto: il deprezzamento qualitativo della funzione giustizia determina la sua inflazione ed un ulteriore impulso verso il moltiplicarsi dei giudizi ed il loro ulteriore intasamento.
Al deterioramento per incontenibile gigantismo della giurisdizione, corrisponde una patologica elefantiasi del diritto sostanziale, che per la sua stessa mole e per il carattere intricato, approssimativo e disarmonico delle leggi che lo compongono, diventa incontrollabile e insopportabile dalle istituzioni e dai soggetti privati che dovrebbero osservarlo.
L’elefantiasi è una malattia mortale per il diritto. L’accumularsi di norme disarmoniche ed inestricabili, che privati cittadini e pubbliche amministrazioni non sono in grado di osservare e far osservare e di cui l’apparato giudiziario non riesce esso stesso ad assicurare la certezza e l’applicazione, finisce per cancellare ogni criterio di legalità.
La corruzione trova nell’elefantiasi e nell’inapplicabilità delle leggi la ragione primaria del suo diffondersi e radicarsi come “sistema alternativo” che nessuna “campagna” repressiva, nessun aumento spropositato delle pene riesce a reprimere e contenere.
Il sistema penale italiano, che pure è stato considerato uno dei più perfezionati e meglio sistemati nella scienza del diritto da parte di studiosi di diversi paesi, è oramai scardinato per la rottura di alcuni suoi punti essenziali.
Ho avuto anche di recente occasione di riflettere e scrivere sul declino e la soppressione del “principio di legalità” nel diritto penale del nostro Paese. Fatti ulteriori stanno rendendo ancor più evidente tale fenomeno e ne stanno accelerando ed approfondendo il realizzarsi.
La legislazione antimafia, fondata sulla assai labile definizione del reato di associazione mafiosa (che è piuttosto - art. 416 bis c.p. - il tentativo di una rappresentazione sociologico-criminale dei fenomeni esistenti) e sulle fantasie giurisprudenziali, con la lievitazione dei livelli delle pene e la dichiarata “finalità di lotta”, con la creazione di un apparato giudiziario speciale, dalle competenze non troppo ben definite, ha fatto venir meno principi, modelli, proporzioni essenziali del sistema penale oltre che in quello processuale.
Il “modello antimafia” riproposto ogni volta che un fenomeno criminale si presenta all’attenzione della pubblica opinione creando allarme e sdegno, si è esteso alla repressione del traffico di droga, ora si vuole estendere anche alla repressione della corruzione.
Di contro il progetto, che tanto piace agli orecchianti di questioni giudiziario-penali, di introdurre il provvedimento di “non doversi procedere per ritenuta scarsa rilevanza del fatto”, scardina definitivamente il principio di legalità, sostituendo quella dell’aleatorietà della repressione penale, determinata dagli umori dell’opinione pubblica e, soprattutto, dal maggiore o minor carico di lavoro nelle varie sedi giudiziarie (la “scarsa rilevanza” è sempre tale dove c’è maggior carico di lavoro!).
Ma, intanto, la Corte di Cassazione ci mette, ancora una volta, del suo nello scardinamento dell’architettura del sistema giuridico. Pensiamo all’affermarsi del principio dell’”abuso del diritto”. Non è solo la violazione di un antico e collaudato principio della razionalità giuridica (“qui suo iure utitur neminem laedit”). Affermare che si possa al contempo fruire della legittimità assicurata dall’ordinamento ed abusare di essa per un fine che criteri “legali ed extralegali” (così la Cassazione) considerano negativi, è una contraddizione in termini che distrugge ogni concetto di globalità ed armonia del diritto, per affidarne l’apparenza alle contraddizioni di spinte occasionali inevitabilmente arbitrarie.
Si dirà che tutto ciò è semplicemente il prodotto di un diritto che si affanna a correr dietro all’evolversi turbinoso delle tecnologie, della società, della scienza.
C’è qualcosa di vero in tale proposizione, E’ vero che la globalizzazione tende ad introdurre nei sistemi giuridici particolari elementi di altri, diversi sistemi. Ma il passivo ricorrere ad istituti stranieri (in particolare del sistema dei paesi del Common Law), nel nostro sistema “europeo continentale” del diritto codificato, con un sistema giurisdizionale (e con giudici) radicalmente diversi, porta ad incongruenze che sopraffanno il vantaggio delle nuove esperienze e rende negativo l’ingresso in più vasti contesti giuridici culturali di cui tali novità sembrano tener conto.
Il cambiamento è, anche per il diritto, nelle cose, nell’ineluttabilità dello sviluppo della storia. Ma cambiamento non è distruzione. E’ tale solo se con esso si realizza un’armonia diversa.
Ciò che ci induce a parlare di catastrofe non è certo l’affondare di vecchi schemi, ma la totale assenza di prospettive nuove. Non c’è la luce dell’avvenire. La distruzione, la catastrofe, restano tali.
MAURO MELLINI (da Giustizia Giusta)