31 maggio, 2006
Nathan non ha fatto scuola. Quando i laici erano idealisti, amministratori efficienti e riformatori.
E' bello, però, ricordare che c'è stato un tempo, dopo l'Unità d'Italia, in cui Roma ha avuto non solo un Sindaco ma anche amministratori e funzionari attorno a lui che intendevano il loro ufficio come dovere civico, impegno pubblico, non come occasione di spoliazione e arricchimento personale, di tangenti e truffe.
Si dividevano, non per caso, tra liberali storici, per lo più progressisti, o repubblicani mazziniani. Pratici e idealisti, insieme: una combinazione che non si verificherà mai più nella storia d'Italia, se non per pochi anni durante e dopo la Liberazione, nel primissimo Dopoguerra. Basta dire che Ernesto Nathan fondò nel 1919 la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo (Lidu), la prima organizzazione italiana per i diritti umani e una fra le più antiche del mondo.
Nessuno, di quella bella classe politica, era clericale o legato al Vaticano o ai costruttori; nessuno era di Destra o anti-sistema. Erano intrisi di "fede" in un ideale, che come teorizzava Benedetto Croce, è una bella "religione" laica. «Muoio come ho vissuto, nella fede di Giuseppe Mazzini, serenamente soddisfatto se attraverso la vita, sino agli ultimi giorni, ho potuto darne testimonianza», si legge sulla lapide della tomba di Nathan al Verano.
A quel tempo, nessun corrotto diceva “tutti sono uguali, tutti sono corrotti”. Nessun Vigile urbano scioperava se un collega nullafacente o disonesto era punito. E chi in Comune sbagliava, chi non lavorava bene, chi rubava, era subito licenziato, e se ricorreva al Giudice aveva pure il sovrappiù di pena. E i Sindacati non erano così ottusi e corporativi (cioè eversivi) da anteporre gli interessi della propria categoria protetta alla collettività.
E anche i Magistrati collaboravano al Bene Comune, non erano così stupidamente formalistici e neutrali come accade oggi, quasi che l’avvenire dello Stato non li riguardi, accampando come scusa l’idiozia che “le leggi sono quelle che sono”. Insomma, sapevano interpretare con buonsenso, erano più anglosassoni. E Sindaci, assessori, consiglieri e dirigenti amministrativi avevano, certo, delle idee politiche-sociali-economiche forti. Altra fondamentale differenza con l'oggi, quando i potenziali mascalzoni dicono tutti – fateci caso – che "le ideologie sono superate" (comodo per mettere tutti sullo stesso piano, anche i più squallidi, visto che idee e cultura sono un discriminante di personalità e perfino di onestà, e perfino un antidoto psicologico alle ruberie.
E i Sindaci non si piegavano ai corrotti interessi "di ventre" della gente, ma anzi avevano la pretesa laica di indirizzarla ed "educarla". Perciò proponevano strutture utili al progresso della collettività, magari non richieste dalla gente, come scuole (tante scuole: quasi tutte quelle che oggi vediamo a Roma furono costruite in quegli anni) e farmacie comunali, giardini, quartieri accoglienti e dalla bella architettura, vie ampie e alberate, palazzi di esposizione e mercati coperti. Non muovi stadi di calcio per comperare il voto del popolino dei tifosi, o nuovi inutili centri commerciali per favorire le “mazzette” di aziende commerciali e imprese costruttrici.
Si veda, sempre qui su Salon Voltaire, un altro mio articolo su Nathan che introduce una monografia di M. Mantello.
Infine, qui di seguito, sull'Astrolabio, un mio articolo giovanile sul miglior Sindaco romano e forse italiano di sempre, l'esempio migliore di quella stupenda classe politica e amministrativa liberale e illuminata che purtroppo solo per pochi decenni poté governare in Italia -NICO VALERIO
La politica a Roma 80 anni fa
Quanti capi di Governo vale un buon sindaco? Un amministratore pragmatico ed efficiente - ha detto qualcuno che certo doveva essere anglosassone - è più utile alla città di due o tre Presidenti del Consiglio che promettono e non mantengono. E se poi il sindaco, come Ernesto Nathan, oltre all'onestà e all'indipendenza ha una coraggiosa visione politica e sociale dei bisogni della città, allora basta da solo a caratterizzare uno stile di amministrazione, anzi un'epoca. Tanto sono rari, in ogni tempo, uomini del genere.
Ecco perché, in periodo di crisi e di mutamento, quando si sperimentano le alternative possibili al mimetico « gattopardismo » dc e la nazione - come si diceva ai tempi di Nathan - è scossa da un fremito di rinnovamento morale, il pensiero di intellettuali e politici laici e progressisti va alla breve e intensa stagione del sindaco illuminato e severo che governò in modo esemplare la capitale dal 1907 al 1913, lottando a viso aperto, senza oblique mediazioni né calcoli demagogici, contro la rendita parassitaria, i privilegi delle corporazioni, l'oscurantismo e l'ignoranza.
Di Nathan si parlò - e lo menzionò anche il neo-sindaco Argan nel suo primo discorso alla giunta - nel 1976, quando la sinistra riconquistò, 69 anni dopo Nathan, il Campidoglio. Se ne riparla ora in seguito ad un convegno tenuto al Centro culturale Mondoperaio (presenti Pio Marconi, Antonello Trombadori, Oscar Mammì, Alberto Benzoni) e alla contemporanea presentazione della prima biografia politica di Nathan amministratore («Ernesto Nathan: un sindaco che non ha fatto scuola », ed. Ianua) a cura di Maria I. Macioti, della scuola di Ferrarotti.
Eppure, anche l'avvento della sinistra al governo di molte città non ha portato ad illuminare degnamente la figura di questo singolare prototipo di sindaco laico. Ancora oggi Nathan è un « celebre sconosciuto ». Come mai? Non è solo perché, come ricorda la Macioti, il suo prezioso archivio fu fatto sparire durante il fascismo, per deprecabile eccesso di prudenza; o perché ancor oggi i documenti dell'Archivio Capitolino sono inaccessibili, per colpa del Comune, come ha lamentato il prof. Giuseppe Talamo. C'è ben altro.
E' proprio il sobrio realismo, l' atteggiamento antiretorico e « positivista » del riformatore autentico, più attento - come dice Ferrarotti - alle tecniche operative delle riforme che alla loro astratta predicazione, a fare di Nathan un animale raro nello zoo politico italiano. Isolato culturalmente, cosmopolita, anglofono, più conosciuto a Londra e a Los Angeles che a Torino o a Milano, incapace di promettere al collegio elettorale la ferrovia o l'officina pur di essere eletto, Nathan non rientra nelle abituali categorie del pensiero politico di casa nostra. Nella penisola delle parole al vento, anche a sinistra, il sindaco ebreo e mezzo inglese in un solo quinquennio costruisce scuole, organizza corsi per adulti, bonifica l'Agro romano, crea il primo piano regolatore. urbanistico (firmato da Sanjust di Teulada), istituisce il referendum popolare cittadino, si batte per il divorzio, colpisce con tasse ed espropri gli speculatori delle aree, crea una rete moderna di illuminazione e di trasporti, spezza l'intermediazione annonaria e il lavoro « nero ».
Il « blocco del popolo » che lo sostiene è quanto mai variegato: radicali, repubblicani, socialisti, la Camera del lavoro, le unioni dei maestri e degli impiegati. Quasi priva di una classe operaia, Roma produce inaspettatamente una piccola e media borghesia del lavoro che è individualista e progressista, crede nei bilanci in pareggio ma soprattutto nella giustizia sociale. Artigiani, professionisti, operai celebrano nell'Esposizione universale del 1911, cui Nathan dà un determinante contributo, il giubileo laico dell'operosità illuminista, contrapposto alle medioevali paure e agli anatemi antimodernisti del papato e dei clericali. Ma poi Giolitti si metterà d'accordo con i neocattolici, col patto Gentiloni, abolendo in pratica il non expedit. Assediato dai proprietari terrieri e dagli speculatori edilizi facenti capo al blocco nazional-clericale, privo ormai dell'appoggio di Giolitti, Nathan cade alle elezioni del 1914 per soli 1500 voti. Gli succede il principe Prospero Colonna, il maggior esponente della «nobiltà nera» vicina al Vaticano, che - guarda caso - aveva in corso una causa per esproprio con l'amministrazione Nathan.
Tutto inutile, allora? Non lo crediamo, anche se Franco Ferrarotti e la Macioti, col pessimismo della ragione, negano che Nathan, odiato dalle destre, abbia fatto proseliti nella sinistra e tra i laici di oggi, ci rifiutiamo di credere al paradosso che il « sindaco saggio » - che aveva l'idea fissa dell'educazione popolare e aveva costruito quasi tutte le scuole di Roma - non abbia «fatto scuola» tra gli amministratori locali dei giorni nostri. Ma dobbiamo ammettere che i severi fermenti nathaniani, così vivi in Giustizia e Libertà e nel Partito d'Azione sul piano della politica nazionale, non hanno avuto quasi riscontro nei municipi. E questo deve far riflettere. - NICO VALERIO
IMMAGINE. Giacomo Balla, Ritratto di Ernesto Nathan (1910). Balla fu un grande esponente della corrente futurista e della pittura del primo Novecento.
AGGIORNATO IL 2 NOVEMBRE 2016
30 maggio, 2006
Era ora! L'Italia fuori dal Medioevo: riapre alla ricerca sulle staminali
In calce alla 'Dichiarazione etica' restano ora solo le firme di Polonia, Slovacchia, Germania e Austria. Sulla ricerca sulle staminali "l'Italia ha una legislazione restrittiva che, io penso, occorra almeno parzialmente modificare", ha ricordato Mussi, puntualizzando che, tuttavia, "qui non si tratta della legge italiana, ma della posizione dell'Italia nell'Ue, e non vedo perché dovremmo farci promotori del massimo della restrizione in Europa", su questo argomento.
"Non credo sia giusto che l'Italia ponga un ostacolo restrittivo alla ricerca europea e che tenti così di 'esportare' la propria legislazione interna le altre legislazioni vanno rispettate". Secondo il ministro bisogna "cogliere l'opportunità di un uso controllato delle staminali per la ricerca" in particolare sulle cellule "soprannumerarie" altrimenti avviate alla distruzione.
Mussi ha citato il recente intervento del ministro Bindi: "Muovendosi ragionevolmente lungo una linea di compromesso, qualche miglioramento alla legislazione italiana ci può essere", come si accenna anche nel programma elettorale dell'Unione, che "prevede ipotesi di minori restrizioni". Alla luce di queste considerazioni, ha concluso Mussi, "non mi sembrava il caso di confermare in sede Ue una posizione rigida di totale chiusura, e quindi non ho insistito per l'approvazione di quella dichiarazione. In Italia, poi, con la nostra legge, ce la vedremo noi". (da Bruxelles, Apcom, 30 maggio 2006)
"Dio, dov'eri, perché l'hai permesso?" I dubbi del finto-ateo Ratzinger
Da liberale rispettoso, sia pure ateo, ero allibito: si trattano così i Santi? Mancava poco che intervenissi a difesa della "lesa maestà" del povero - e sempre più povero senza le offerte - San Cetteo, ricattato dalla vecchia megera.
Gli ebrei, invece, sono abituati da millenni a trattare il Signore Innominabile a tu per tu, ma senza fanatismi e senza eccessi italici, non avendo per fortuna i Santi. Non solo nella Bibbia e nelle storielle ebraiche, ma anche nella vita reale, abbiamo trovato ebrei che simpaticamente rimproveravano, contestavano, patteggiavano, ricattavano il loro Dio. Questa familiarità, questa umanizzazione ingenua, anzi, è il lato più divertente della religione monoteista, e ci riporta alle figure mitologiche degli dei antichi, trattati da re e popolo più o meno come uomini qualunque, potenti e bizzosi, sì, ma umani, troppo umani. Segno ulteriore che le "Divinità" erano state inventate all'alba della vita dell'uomo come instrumentum regni, cioè sostegno per il potere, ma anche per la facile consolazione degli uomini.
NICO VALERIO
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28 maggio, 2006
Stampa italiana corrotta: silenzio sui candidati alternativi
In tutti i mercati milanesi abbiamo incontrato tantissima gente che non voleva votare per i due candidati sindaci preordinati dall'alto (come due facce di una stessa medaglia) e coperti dal battage mediatico dei poteri forti di un'Italia in disfacimento. Ma questa gente non sapeva dell'esistenza di altri 9 candidati sindaci. Non era a conoscenza di candidato sindaco liberale a Milano. Quelli che abbiamo raggiunto han preso nota, han capito, han detto che voteranno per noi. Ma sono una minima parte di un'opinione pubblica deliberatamente tenuta all'oscuro dai CdS, dai Fogli, dai Liberi, dalle Repubbliche. Da tutti quei sedicenti giornali democratici che fanno del mantenimento della loro posizione dominante la causa principale della loro esistenza. E che incassano contributi pubblici (quindi anche i nostri e i vostri) per far da grancassa ai padroni del vapore.
Scandalosi, signori giornalisti. Siete scandalosi. Siete l'ennesima vergogna dell'italia. Buoni a parlare solo se qualche giudice compiacente tira fuori delle intercettazioni telefoniche. Schierati con il cervello all'ammasso.
Non vogliamo parlare di noi. Ma diciamo: un candidato sindaco liberale a Milano avrebbe almeno meritato - che dire - un'intervista. Non pretendevamo una pagina al giorno come per il prefetto prestato alla politica o alla ministra chiamata a Milano. Ma almeno un'intervista. Nulla. Come è nulla la vostra onestà.
20 maggio, 2006
Relativismo liberale? Tra libertà, diritto, etica pubblica e morale privata
Come afferma la nostra Costituzione, all’articolo 3, primo comma, tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge "senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". Quindi, dal punto di vista dello Stato, vale la regola dell’irrilevanza delle fedi religiose, o delle opinioni politiche; nel senso che, ad esempio, il professare una determinata religione, invece di altre, o il dichiarare l’appartenenza ad un determinato partito politico, non devono mai comportare un trattamento differenziato (in positivo ed in negativo) dinanzi alla legge.
Tuttavia, la stessa Costituzione, all’articolo 19, nell’affermare il diritto fondamentale che ciascun soggetto ha di professare liberamente la propria fede religiosa, tanto in forma individuale quanto in forma associata, pone un limite: "purché non si tratti di riti contrari al buon costume".
Ciò significa che se le fedi religiose in astratto sono tutte ammissibili al cospetto dello Stato, rileva invece il modo concreto con cui si pratica il culto e la legge può proibire alcuni riti. Ipotizziamo dei seguaci di una setta satanica i quali compiano strani riti che contemplino atti di violenza, magari soltanto simbolici. Fermo restando che comportamenti che integrano specifiche fattispecie di reato vanno repressi in quanto tali (ad esempio, un sacrificio umano integra un omicidio, con possibilità di aumentare la pena quando ricorrano circostanze aggravanti), a mio avviso le leggi dello Stato ben potrebbero proibire in linea generale ed astratta riti inerenti a sette sataniche conosciute, e prevedere la sanzione di manifestazioni concrete in tal senso. Non ritengo che per questo lo Stato perderebbe le sue caratteristiche di Stato liberale e laico. Per quanto mi riguarda, il mio liberalismo non include la difesa della libertà altrui di praticare culti satanici.
Valerio Zanone, nell’articolo citato da Nico Valerio, ha ricondotto il relativismo allo storicismo. In effetti, dal punto di vista storico, è evidente che tutto è relativo: le istituzioni, i costumi, le leggi positive, mutano con il passare del tempo.
Eppure Benedetto Croce, che di storicismo un pò si intendeva, ha insegnato a distinguere tra ciò che attiene all’etica (volizione dell’universale), e ciò che attiene all’utilità che il soggetto ricerca ed al suo desiderio di soddisfare i propri appetiti vitali (volizione dell’individuale). Secondo Croce i due momenti sono distinti, coesistono in ogni persona, e sono in rapporto dialettico fra loro.
Un filosofo che seriamente studi il problema etico, mai e poi mai arriverà alla conclusione che la morale è un fatto individuale e ci sono tante morali quanti sono gli individui pensanti. Non potrebbe mai arrivare a questa conclusione, perché se ci sono infinite morali possibili – e tutte giustificate per il semplice fatto di essere concepite – il risultato ultimo è che non c’è alcuna morale.
Per comprendere cosa sia l’etica, a mio avviso bisogna partire da Immanuel Kant, filosofo al quale pure la concezione liberale deve qualcosa. Il problema di Kant è quello di conciliare una morale autonoma (che il soggetto stesso si dà facendo uso della propria ragione) con dei criteri formali i quali consentano di individuare leggi morali universali, cioè tendenzialmente valide per tutti gli esseri umani, così come sono universali le leggi di natura.
Per quanto riguarda l’insistenza sull’esigenza che la morale sia autonoma, ognuno comprende quanto sia più forte e sicura una regola che il soggetto spontaneamente accetta in quanto razionalmente la condivide, rispetto ad un comandamento imposto da un’autorità esterna. Quest’ultimo sarà violato tutte le volte in cui l’autorità esterna non è nelle condizioni di accorgersi dell’inosservanza.
Per quanto riguarda l’insistenza sul necessario carattere universale delle leggi morali, pensiamo alle tante cose che accomunano gli esseri umani: tutti nati da donna, tutti destinati a morire. Non è forse vero che, nel divenire della Storia, l’unico elemento di sicuro progresso va individuato nel fatto che sono stati affermati, e faticosamente si cerca di fare rispettare, diritti fondamentali di ogni essere umano in quanto tale? Non è forse vero che chiunque avverte immediatamente la differenza fra società in cui i detentori del potere possono commettere qualsiasi arbitrio e qualsiasi violenza in danno delle persone soggette alla loro autorità, e società regolate dalla concezione dello Stato di Diritto, secondo cui tutti i governanti e tutti i pubblici amministratori sono soggetti alla Costituzione ed alle leggi, ed i diritti di ogni cittadino sono garantiti e "giustiziabili" (suscettibili, cioè, di essere affermati da magistrati, terzi ed imparziali)?
Si può dire che una legge morale universale vieta lo sfruttamento dei bambini e dei minori? Sì, si può dire. Si può dire che una legge morale universale vieta la tratta degli schiavi? Sì, si può dire. Si può dire che una legge morale universale vieta di farsi giustizia da sé? Sì, si può dire. Queste leggi morali universali sono cosa diversa dalle leggi positive dei singoli stati. E sono più importanti di queste ultime, perché costituiscono il parametro per giudicarle.
C’è un minimo comune denominatore etico fra gli esseri umani e tutti abbiamo interesse a riconoscere questo dato, mentre abbiamo tutto da perdere se lo mettiamo in discussione facendo professione di relativismo.
Come Nico Valerio ha opportunamente messo in evidenza, il liberale non è uno scettico, né è indifferente. Un liberale può benissimo avere la tempra del combattente, che nulla concede ad idee ed opinioni che ritiene sbagliate per la civile convivenza. Il problema è che ogni possibile controversia teorica, o conflitto pratico, devono arrestarsi ad un certo limite. Il limite è quello del rispetto dell’altro, in quanto persona umana. In termini religiosi, si direbbe: tutti siamo figli di uno stesso Dio e quindi dobbiamo sempre riconoscere nell’altro nostra sorella, o nostro fratello.
Il liberale può avere convinzioni altrettanto salde di quelle di chi è credente in una fede religiosa, o in una qualsiasi ideologia politica. La differenza è che il liberale, se è veramente tale, non deve arrivare al fanatismo. Ad un certo punto deve lasciar perdere il consequenziarismo logico. L’avversario di oggi può essere l’alleato, o l’amico, di domani.
Altro requisito costitutivo di un punto di vista liberale è l’amore della verità, che non si arresta mai, ma sempre spinge ad andare oltre, per superare ulteriori prove, per avere altre verifiche. La verità si ricerca nel dialogo con gli altri: con i vivi e con i morti (che ci hanno lasciato un’eredità di pensiero ed un patrimonio di cose materiali). Da questo punto di vista, ogni altro essere umano è, potenzialmente, l’anello mancante della catena che stiamo costruendo nella nostra ricerca della verità: da tutti possiamo imparare qualcosa, esattamente come lo scambio (il commercio) è il fondamento dell’economia.
Anche questa attitudine al dubbio metodico, all’auto-critica, a mettersi continuamente in discussione nel confronto con gli altri, è cosa ben diversa dal relativismo. Questo, se male inteso, potrebbe portare a teorizzare la "libertà di fare i propri comodi", tanto non ci sono certezze ed ognuno fa un po’ come gli pare. Chi cerca sempre la verità, e non si stanca di cercarla, lo fa proprio perché non si appaga di una concezione volgarmente relativista.
Quanto detto non ha nulla a che vedere con la "politica – politicante". Per una volta, voliamo alto. Ci sono cose ben più importanti della politica, e dell’avere, o non avere, successo mondano. La cosa più importante è dare un senso alla propria esistenza e potere così affrontare serenamente la morte, quando verrà. Tanto, una volta varcata la soglia fatale, tutte le ricchezze, tutto il successo, tutto il potere, di questo mondo non valgono più nulla. Si può sperare invece, che qualcosa resti nella catena degli affetti e del pensiero.
18 maggio, 2006
Liberali insieme arbitri e giocatori. Dal laicismo al relativismo. Perfino cristiano
Il relativismo - scrive in sostanza Zanone - non è indifferenza verso qualsiasi valore, ma apprezzamento in relazione all'evoluzione storica. La laicità dello Stato non è una scatola vuota ma si fonda sul valore della libertà di coscienza, valore fondativo del laicismo liberale.
La laicità è un muro maestro, così come il pluralismo, e non solo per un eventuale partito democratico ottenuto dalle più diverse esperienze. Una democrazia pluralista è per definizione una democrazia laica. La grande scommessa sta nell'intendere il pluralismo, culturale e quindi politico, non come diversità conflittuale ma come dialogo costruttivo.
I casi incoraggianti per il momento non sono molti. Il più autorevole fra i recenti viene dal cardinale Martini, che ha ammonito i credenti a rispettare la libertà di coscienza "anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare". Non a caso il cardinale Martini è fra i pochi che non scagliano anatemi contro il relativismo dell'etica civile, ed anzi riconosce la realtà storica del relativismo cristiano, nota Zanone.
La polemica contro il relativismo - continua l'articolo sull'Europa - è la prima questione sulla quale fra laici (anzi, laicisti) e cattolici ci si deve intendere. Nella cultura italiana il relativismo è una derivazione diretta dello storicismo. Non significa indifferenza verso qualsiasi valore, ma al contrario apprezzamento dei valori in relazione all'evoluzione storica. Quando durante il Giubileo la Chiesa ha chiesto perdono a se stessa ed al mondo per gli errori tragici compiuti nei duemila anni della sua storia, ha con ciò compiuto un atto di relativismo, nel senso che ha riconosciuto la variazione degli standard etici in relazione al momento storico.
Vi sono altre questioni su cui laìcisti e cattolici si devono intendere. La prima riguarda appunto la distinzione fra laicità (dello Stato) e laicismo (nelle coscienze individuali). La laicità dello Stato non è, come pretendono gli atei devoti, una scatola vuota. La laicità dello Stato si fonda sul valore della libertà di coscienza, che è il valore fondativo del laicismo liberale. Lo Stato laico è eticamente neutro ma non vuoto. La libertà individuale di coscienza forma la società pluralista, e il pluralismo etico della società civile deve essere garantito dalla neutralità etica dello Stato. La laicità dello Stato è la forma istituzionale del laicismo liberale, ossia del laicismo inteso non come ostilità verso la religione ma, come eguale libertà di tutte le confessioni religiose.
Ne consegue un'ulteriore questione circa lo spazio in cui si esprimono i valori religiosi. È sbagliato, e in Italia quasi assurdo, ritenere che il laicismo restringa i valori religiosi nella sola sfera privata. Il dialogo pluralista ed il reciproco ascolto presumono la presenza dei valori religiosi e delle organizzazioni cattoliche nello spazio pubblico. Ma lo spazio pubblico in cui le organizzazioni religiose fanno valere le proprie visioni è appunto quello della società pluralista, non quello dell'ordinamento normativo: pretendere che le convinzioni di fede si traducano in legge obbligatoria anche per non credenti o diversamente credenti, significa offendere la libertà di coscienza che è costituzionalmente protetta.
Il fatto nuovo rispetto a tali antiche questioni è l'irruzione, in una società ormai anche in Italia multietnica ed interculturale, degli atei devoti (in America protestanti, in Italia cattolici) di cui si occupa nel suo ultimo libro Massimo Teodori (I laici, ed. Marsilio). La loro pretesa di trasportare indebitamente i precetti della religione dentro i vincoli normativi prescinde dalla fede nella trascendenza e configura l'ennesima versione della religione utilizzata come instrumentum regni a scopi totalmente politici, nell'erroneo presupposto che ciò costituisca un antidoto al fondamentalismo islamico: che viceversa ha per nemico dichiarato proprio lo Stato laico derivante dal processo di secolarizzatone occidentale.
Di fronte all'offensiva degli atei devoti, è quanto meno ingeneroso il sospetto che il laicismo liberale sia trincerato negli steccati ottocenteschi della questione romana. Non si tratta di restare nei vecchi steccati, si tratta di evitare che se ne alzino di nuovi. Ma se è lecito un invito ai cattolici militanti, vorrei riprendere quanto ha scritto su Europa Andrea Bitetto: non è il caso di irridere alla tradizione risorgimentale in cui si formò l'unità della nazione e con essa la libertà dei cittadìni. L'anticlericalismo massonico della disputa fra Stato e Chiesa è consegnato alla storia - conclude Zanone giustamente storicizzando - ma i suoi eccessi risultano veniali rispetto all'enciclica Mirari Vos di Gregorio XVI che (lo ricorda Enzo Marzo nel libro Le voci del padrone, ed. Dedalo) condannava la libertà di coscienza come "errore velenosissimo".
07 maggio, 2006
Ma Maria di Magdala sposò o no Gesù, cioè il capo-banda Giovanni, figlio di Giuda il Galileo?
Dai testi storici risulta che Gesù è stato costruito sulla figura di Giovanni di Gamala, figlio primogenito di Giuda il Galileo e capo di una banda di rivoluzionari ("Bohanerges"). Dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio veniamo inoltre a sapere che Lazzaro, figlio di Giairo, era legato da vincoli di parentela con Menahem, figlio di Giuda il Galileo. Sarà da questa parentela di cui ci parla Giuseppe Flavio, che potremo, oltreché confermare l’esistenza del matrimonio, trarre anche un’ulteriore prova della non esistenza storica di Gesù. Infatti questa parentela risulterebbe incomprensibile se lo sposo fosse veramente figlio di Giuseppe, e non di Giuda il Galileo, come risulta dalle innumerevoli affermazioni che ci vengono dai testi storici.
Menahem e Lazzaro, quali fratelli dei due coniugi, l’uno dell’uomo e l’altro della donna, ci confermano con la loro parentela di cognati che il matrimonio esisteva e che lo sposo era il primogenito di Giuda il Galileo. Che Gesù, alias Giovanni di Gamala, fosse marito di Maria di Magdala ci viene ancora confermato da altri documenti che si riferiscono a quella banda dei Bohanerges, poi trasformata nei Vangeli in una squadra di discepoli predicatori di pace.
Dal "Vangelo di Filippo" ritrovato in Egitto nel 1945 durante ricerche archeologiche: "Maria, che era la consorte del Signore, andava sempre con lui. Il Signore amava Maria di Magdala più degli altri discepoli e spesso la baciava davanti a tutti sulla bocca". Nel papiro 8502 di Berlino, detto "Vangelo di Maria", si parla della gelosia e del risentimento che gli altri discepoli, e soprattutto Simone, provavano per la predilezione che il Signore riservava a Maria: "Ha forse il Signore parlato in segreto alla sua donna prima che a noi senza farlo apertamente? - è Simone, altro figlio di Giuda il Galileo, che parla - Ci dobbiamo umiliare tutti e sottoporci a lei? Forse egli l’ha anteposta a noi?".
Dal vangelo copto viene riportata un’altra contestazione di Pietro contro Maria di Magdala: "Simone, detto Pietro, disse agli altri accoliti: "Maria deve andare via da noi perché le femmine non sono degne della vita". E il Signore, avendolo sentito, si rivolse a loro dicendo: "Ecco, io la guiderò da farne un maschio, affinché diventi una combattente come noi".
Soltanto il disprezzo che dimostra Simone verso le donne dicendo che non sono degne di vita, sarebbe già di per sé sufficiente per dimostrare che abbiamo davanti una banda di rivoltosi giudaici seguaci delle leggi Mosaiche nella forma più estremista.
A questo punto, penso che non sia troppo avventato supporre che tra i presenti a quella cena di Pasqua che precedette la rivolta, ci fosse anche lei, Maria di Magdala, quale moglie di Giovanni di Gamala e membro attivo combattente della banda dei Bohanerghes. Così scrivevo nel libro "Favola di Cristo", uscito nel 2002, quando ancora nessuno aveva scoperto che nell’Ultima cena di Leonardo da Vinci si nascondesse il volto di una donna in quello del discepolo Giovanni. Discepolo che, in realtà, non c’era, non poteva esserci, perché il vero apostolo amato da Gesù era Lazzaro.
LUIGI CASCIOLI
Nuova Inquisizione: un povero Cristo rimesso in croce. Dai cattolici
02 maggio, 2006
Intervista esclusiva. Berlusconi: “Basta, mi ritiro a fare il sindaco a...”
Cisnetto: i filo-occidentali da una parte, gli anti dall'altra. Per governare
1) Valerio usa categorie del Novecento, come destra-sinistra, moderati-progressisti, che francamente ritengo superate. Non in nome di un generico pragmatismo, di cui pure faccio uso senza reticenze, ma perché mi sembrano superate. Forse servono per intendersi nel dibattito, ma rischiano seriamente di portare fuori strada. Io, per esempio, sono liberale (non liberista), ma considero questa definizione più un abito mentale, un ancoraggio valoriale, che non un sistema di pensiero onnicomprensivo. Insomma, per essere schietti, Valerio a me pare mostri un approccio un troppo ideologico alle cose. Dal quale io rifuggo.
2) Da laico, credo che la distinzione tra laici e cattolici abbia senso solo su alcune questioni che potremmo definire di coscienza e che ad essa vorrei lasciare. Intendo dire che i cosiddetti “diritti civili”, per i quali mi sono sempre battuto, non possono essere il fulcro di intese programmatiche, ma devono invece far parte di quel confronto parlamentare di cui abbiamo perso l’abitudine e al quale tutti devono poter accedere secondo le loro convinzioni e non per scelte di partito.
3) Fatte queste premesse, può apparire più chiaro perché non temo di affermare che - in questa fase, e sottolineo questa - occorre smontare le attuali coalizioni, premessa indispensabile per la governabilità effettiva del Paese. Laddove per governabilità s’intende non solo la possibilità di vincere le elezioni, di formare una maggioranza e un governo e di farli durare nel tempo, ma anche e soprattutto la capacità-possibilità di prendere decisioni. In queste ultime due legislature, cioè nell’intera Seconda Repubblica, abbiamo avuto la governabilità formale, e persino l’alternanza, ma non la governabilità sostanziale. Ed è quella che conta. Smontare e rimontare le alleanze, cioè riformare il sistema politico: è questo l’obiettivo di Società Aperta oggi. Per dare quella governabilità al Paese che sola può consentirgli di combattere e vincere il declino in cui è immerso.
4) Per ottenere questo risultato occorre fare una prima fondamentale distinzione nella rappresentanza dei cittadini: i democratici, occidentali, moderni, garantisti, da una parte, gli anti-democratici, anti-occidentali, giustizialisti, teorici del “no a tutto”, populisti, dall’altra. Li vogliamo chiamare moderati ed estremisti? Mi va bene, non ne faccio una questione lessicale. Ma credo che sia un discrimine indispensabile. E non si tratta di fare un’ammucchiata centrista o di ricostruire la Dc: non usiamo categorie e soggetti del passato, è il futuro che dobbiamo costruire.
5) Certo, so bene che nel recinto dei cosiddetti moderati ci sono i laici e i cattolici, i conservatori e i riformisti, i liberali e gli statalisti. E so che sarebbe bene che queste differenze non fossero cancellate. D’accordo. Ma prima l’insieme di questi italiani - la grande maggioranza - deve servire a isolare politicamente gli estremisti, cioè a non far entrare in alcun governo le forze politiche che li rappresentano. E solo dopo, l’articolazione delle forze che rappresentano quei due terzi di italiani potrà produrre anche contrapposizioni elettorali. C’è un rischio in tutto questo? Sì, ma preferisco correre questo rischio piuttosto che avere la certezza - come oggi ho - di veder naufragare il Paese. Di eccesso di pragmatismo non è mai morto nessuno, di rigidità ideologiche sì.
Concludo con un appello: se siete d’accordo sulla proposta di Assemblea Costituente che Società Aperta sta lanciando, uniamo le forze per centrare questo obiettivo. Anche qui: prima dobbiamo convergere per fare in modo che il paese volti pagina, poi per distinguerci ci sarà tempo e spazio.
ENRICO CISNETTO
I sogni del bar all'angolo: come avere la benzina a metà prezzo...
Si sente dire che la benzina aumenterà ancora fino a 1.20 euro al litro. Possiamo far abbassare il prezzo solo se ci muoviamo insieme, in modo intelligente e solidale. Ecco come.
Posto che l'idea di non comprare la benzina un determinato giorno ha fatto ridere le compagnie (sanno benissimo che,per noi, si tratta solo di un pieno.. differito, perché alla fine ne abbiamo bisogno!), c'è un sistema che invece li farà ridere pochissimo, purché agiamo in tanti. La parola d'ordine è: colpire il portafoglio delle compagnie senza lederci da soli.
I petrolieri e l'OPEC ci hanno condizionati a credere che un prezzo che varia tra 0,95 e 1 euro al litro sia un buon prezzo, ma noi possiamo far loro scoprire che il prezzo conveniente é la metà. Ormai i consumatori hanno scoperto che possono incidere moltissimo sulle politiche delle aziende, e basta decidere di usare il potere che abbiamo.
La proposta è che, da qui alla fine dell'anno, non si compri più benzina delle due più grosse compagnie, Shell e Esso, che peraltro ormai formano una compagnia soltanto.Se non venderanno più benzina, saranno obbligate a calare i prezzi. Se queste due compagnie calano i prezzi, le altre dovranno per forza adeguarsi. Per farcela, però dobbiamo essere milioni di clienti di Esso e Shell, in tutto il mondo.
Questo messaggio, proveniente dalla Francia, è stato inviato a una trentina di persone; se ciascuna di queste aderisce e a sua volta lo trasmette a...diciamo una decina di amici, siamo a trecento. Se questi fanno altrettanto, siamo a 3000, e così via. Di questo passo, quando questo messaggio sarà arrivato alla... settima "generazione", avremo raggiunto e informato trenta milioni di consumatori!
Inviate dunque questo messaggio a dieci persone, chiedendo loro di fare altrettanto.
Abbiamo calcolato che, se tutti sono abbastanza veloci nell'agire, potremmo sensibilizzare circa 300 milioni di persone in otto giorni. E' certo che, ad agire così, non abbiamo niente da perdere, non vi pare?"
Grosse Koalition? Grosso errore, senza un terzo polo liberale
Una grande coalizione è necessaria e possibile solo in situazioni di estrema emergenza, quando è necessario un "Governo di Salute Pubblica", come giustamente andrebbe chiamata una coalizione di tal genere. Ma non siamo per fortuna in questa situazione.
E' sbagliata perché parte da un presupposto di disprezzo nei riguardi degli elettori; disprezzo già largamente dimostrato anche con una legge elettorale che ha sottratto agli elettori la scelta dei candidati. Gli elettori sono stati spinti a esprimere voti contrapposti per gruppi contrapposti: se ora i capi-partito gli dicessero che era tutto un gioco, dimostrerebbero una volta di più di considerarli semplici pedine da giocarsi come vogliono al tavolo del potere. Insomma, sarebbe una presa in giro, una cosa poco seria, inaccettabile e deleteria per tutto il sistema.
A mio giudizio la Grande Coalizione non è realizzabile, perché i più ideologizzati dei partiti (AN e DS e Lega) si spaccherebbero; e questo i loro capi non lo accetterebbero. Ma non è neanche auspicabile, per il danno "strategico" che apporterebbe al nostro sistema politico: ripresa del trasformismo, questa volta alla grande, ed esclusione di larghe fasce di elettori che già tendenzialmente sono o si sentono fuori dal sistema e che andrebbero inclusi, mentre con la Grande Coalizione sarebbero esclusi, e come dice giustamente Nico Valerio, accentuerebbero la loro atavica passione per la piazza. Sappiamo bene che chi è fuori, o si sente fuori, tira sassi.
Se poi non si riuscirà a governare pur con un governo di altissimo livello (ammesso che ci riescano); se l’opposizione farà l’opposizione "in armi" anche per questioni di politica estera dove il governo potrebbe non avere sostegni interni; se non si avranno "transumanze" in aiuto del vincitore; se infine a nessun eletto importerà molto di tornarsene a casa, allora - auspicabilmente dopo una revisione di questa legge elettorale - a primavera si tornerà a votare. Senza bisogno di nessuna Grande Coalizione.
GUIDO DI MASSIMO