31 luglio, 2006
Da Mussolini a Craxi. Un rinnovo del Concordato che si doveva evitare: molto meglio l’abrogazione.
STATO CHIESA
IL CONCORDATO DIMEZZATO
A cinquantacinque anni dai Patti Lateranensi, dopo 16 anni di ripensamenti, con fretta improvvisa e un po' sospetta il nostro Governo vuole consegnarsi alla Storia come firmatario di un nuovo patto tra Stato e Chiesa. Ma si tratta ancora di un vero Concordato?
NICO VALERIO, L’Astrolabio, 26 febbraio 1984
Al grecista Ruggiero Bonghi, cavourriano moderato e relatore nel 1871 della «legge delle guarentigie», la formula laica e pluralista con cui all'atto dell'iscrizione all'anno scolastico 1984-1985 i direttori didattici e i presidi si rivolgeranno a genitori e alunni, parrebbe di certo indovinata. « Nell'anno in corso, desidera avvalersi o no dell'insegnamento delle religioni? ». Niente più oblique gesuitiche esenzioni, ma un'opzione dignitosa, una facoltà a cui ricorrere o rinunciare liberamente, in modo chiaro e aperto, senza discriminazioni. Anche quel tocco di ritualità – perché no? – può servire a sanzionare la scelta « di coscienza », dando corpo al primo dei diritti assoluti, quello della libertà di pensiero e di educazione. Purché – ha aggiunto più d'uno – non si schedino gli alunni, in base a tale scelta: la Costituzione non lo consente. Ma come si potrà evitarlo?
E' anche certo che delle altre clausole del secondo Concordato tra Stato e Chiesa, che il governo Craxi ha messo a punto un po' frettolosamente, dopo 55 anni dal primo e sedici di ripensamenti e riunioni di commissioni, ben poche piacerebbero al Bonghi. Figuriamoci, poi, quanto poco contenti sarebbero quei descamisados dei liberali di sinistra, e il Zanardelli, buonanima, e i vecchi radicali alla Cavallotti, e il partito d'Azione. Perfino le guarentigie, dopotutto, erano frutto d'una mediazione all'italiana, venata d'un realismo un po' cinico caro al Segretario fiorentino. Al Papa, al « caro nemico », è riconosciuta l'inviolabilità ma non la sovranità, la potestà diplomatica ma anche il diritto allo stipendio statale. E tutto ciò con una legge interna, si, ma insieme costituzionale e internazionale. Un capolavoro di confusione giuridica che, ferendo i clericali, eludeva il giusnaturalismo degli anticlericali e degli allievi di Giannone.
Non è facile mettere d'accordo Stato e Chiesa, a quanto pare. Da quando, innovando all'agnosticismo laico delle grandi democrazie europee (il non expedit era stato accantonato già nel 1913 e poi abrogato nel 1919), Mussolini volle rafforzare il proprio potere dando valore pattizio e paritario agli accordi con la S. Sede del 1929, numerosi sono stati i punti d'attrito e i contrasti interpretativi su singole norme del Concordato e del Trattato. E' recente, tra i tanti episodi, la sentenza della Cassazione con cui è stata dichiarata inappellabile la condanna del Vicario – il dramma di Hochhuth in cui Pio XII è accusato di correità in antisemitismo – vietato dopo essere stato presentato a Roma, città definita « sacra » in un comma dei Patti che ora, però, non è più inserito nel Concordato-bis.
Certe norme pattizie firmate dal cav. Mussolini e dal card. Gasparri stridevano anche alle orecchie, poco sensibili ai temi dell'uguaglianza delle fedi e dell'indipendenza dello Stato, di alcuni cattolici integralisti. Anche le cosiddette « comunità di base », ecco la novità, avevano fatto sapere che non solo le singole norme, ma lo stesso sistema concordatario, erano ormai superati. «Il Concordato – ha detto Ciro Castaldo – mortifica lo Stato nella sua laicità e impedisce alla Chiesa di annunciare nella società, liberamente e profeticamente, il messaggio evangelico, che per sua natura non richiede strutture di potere o strumenti garantiti ». Insomma, sembrava quasi di ascoltare, se non Pasquale S. Mancini o Ernesto Rossi, almeno uno dei rari cattolici liberali dell'800.
L'evoluzione culturale degli italiani ha fatto il resto. L'istituto del divorzio, la non punibilità dell'aborto (un doppio vulnus mai più rimarginato, in un sistema che definiva quella cattolica « la religione dello Stato »), la civilizzazione in massa del matrimonio, la necessità di delibazione delle sentenze di annullamento della Sacra Rota (sentenza n. 16 e 18, 1982, della Corte Costituzionale, ex art. 796 e seg. c.p.c.) come quelle di qualsiasi giudice straniero, insomma la progressiva laicizzazione della società italiana, con zone diffuse di rigetto della spiritualità cattolica, rischiavano di rendere del tutto inoperante, quasi mero flatus vocis, il dettato dei Patti, col rischio di riportare paradossalmente i rapporti Stato-Chiesa alla situazione precedente al 1929. Al di qua del Tevere, intanto, il centro-sinistra prima, e poi l'avanzata dei partiti laici e progressisti, e ora la presenza contemporanea di due socialisti alla testa della Repubblica, rendevano improcrastinabile l'adeguamento, almeno formale, delle clausole privilegiatarie del '29 alle norme costituzionali di libertà, pluralismo e uguaglianza.
Che fare? Come mettere d'accordo i princìpi e gli interessi di due organismi sovrani così diversi – uno gerarchico e totalitario, l'altro democratico e pluralista – senza eliminare quello strumento concordatario così caro alla Chiesa, se non altro per aver dato vita alla sua proiezione terrena riconosciuta dal diritto internazionale, lo Stato della Città del Vatícano? Ecco perché, tra la delusione dei laici e delle sinistre, non si è voluto abbandonare il vecchio strumento limitandosi ad intese o accordi, come è accaduto nel 1978-79 nella pur cattolicissima Spagna. Si è preferito ricorrere, invece, all'inconsueto binario del Concordato-cornice, da una parte, e dall'altra ad accordi particolari monotematici, di là da venire, per togliere rigidità al sistema e garantire il rapido adeguamento alle future trasformazioni sociali. Così facendo, però, il mezzo concordatario tende a decadere, e già oggi, se non abbiamo ancora la liberalizzazione assoluta o la totale deregulation, siamo almeno in presenza d'un concordato «dimezzato».
Trattando ormai solo dei principi, molti dei quali già contenuti nella Carta costituzionale o nelle sentenze della Corte, e servendo da contentino formale per l'Oltre-Tevere, il mini-concordato bis può ben consistere in soli quattordici articoli, in luogo dei 45 dei patti mussoliniani. Entro sei mesi, una commissione mista italo-vaticana deciderà su vari temi, il primo dei quali riguarda la definizione e il trattamento giuridico-fiscale di quel vasto e confuso arcipelago che va sotto il nome di « enti ecclesiastici ». La scottante vicenda dell'Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana implicata nello scandalo del Banco Ambrosiano di Calvi e debitrice verso lo Stato italiano di 2.000 miliardi di lire – per ammissione dell'allora ministro del Tesoro, il Dc Andreatta – dimostra quanto possa rivelarsi pericolosa dal punto di vista finanziario e sociale la condotta di molti enti finora definiti « ecclesiastici » e perciò esenti da controlli e imposizioni.
A parte i rinvii ad ulteriori intese (festività, enti, assistenza alle forze armate, titoli accademici, patrimonio artistico), dopo le quali soltanto potrà esserci la ratifica da parte del Parlamento, quali sono i princìpi generali del « piccolo Concordato »? Innanzitutto l'aconfessionalismo. Cade il fantasma della « religione di Stato » (art. 1) e si proclama l'uguaglianza assoluta tra tutte le religioni per il diritto pubblico (art. 2), innovando, sulla carta, alla logica del privilegio. Ma i privilegi sostanziali di status ed economici a favore della Chiesa cattolica, restano, e sono tali da far agitare sulla sedia più d'un giudice costituzionale. Si pensi solo ai 300 miliardi di lire versati come « supplemento di congrua » ai 35 mila ecclesiastici e alla manutenzione a carico dello Stato dei beni artistici di «proprietà » dei religiosi (« danno emergente »), e alle migliaia di miliardi di lire di esenzioni fiscali concesse (« lucro cessante »). Due categorie di « indebito arricchimento » che conosce bene ogni studente di diritto.
Anche sul piano istituzionale, nel « Concordato dimezzato » la religione cattolica, attraverso i suoi organismi (parrocchie, vescovati, Conferenza episcopale italiana, codice di diritto canonico ecc.) è nettamente favorita rispetto, per esempio, a quelle protestanti e a quella ebraica. «A che valgono i princìpi di uguaglianza – si chiedeva il buon Rodelli, dell'Associazione per la libertà religiosa in Italia – se poi prevale il criterio del numero, della quantità di aderenti? ». E le probabili nuove intese con le religioni minoritarie, per quanto ad esse favorevoli, non varranno certo a neutralizzare i residui privilegi medioevali che i nuovi Patti di Craxi conservano alla Chiesa d'Oltre-Tevere.
In sede di rinvio alle intese particolari, tra le poche novità che verranno in evidenza, spicca il nuovo ruolo di interlocutore con lo Stato che la CEI – l'assise dei vescovi italiani – è destinata ad assumere. Come interpretare tale concessione? E' un riconoscimento puro e semplice alle istituzioni « di governo » esistenti nella Chiesa, oppure è un'abile mossa dello Stato italiano per procurarsi all'occorrenza una controparte più elastica e sensibile alle sollecitazioni della classe politica e della cultura laica? Staremo a vedere.
Per ora il « piccolo Concordato » preoccupa soprattutto i responsabili delle Antichità e Belle Arti, gli storici dell'arte, gli archeologi e gli amanti del bello artistico in genere. In un convegno tenuto a Reggio Emilia, « Italia Nostra » ha denunciato la pericolosità e la sconsideratezza della norma (art. 12) che impegna lo Stato a concordare con la Chiesa la disciplina dei beni culturali di interesse religioso – formula vaga, che si presta a comprendere quasi tutto il patrimonio artistico italiano – di proprietà degli enti ecclesiastici.
Il concordato di Mussolini non arrivava a tanto e faceva scattare per le opere d'arte in mano alla Chiesa la legge di tutela del 1939. Grazie a questo nuovo codicillo, invece, i parroci di campagna, di cui è ben nota la competenza artistica, potrebbero alienare, come già fanno, o restaurare in modo errato, e financo distruggere i più bei capolavori dell'arte italiana presenti in chiese, oratori, conventi e cappelle. Molti uomini di cultura hanno inviato appelli a Craxi perché riveda, in sede di accordi, questa dannosa delega che « ci fa tornare indietro di due secoli », come ha detto il prof. Gianni Romano, sovraintendente aggiunto ai Beni culturali del Piemonte. Vero è, come lamentava il filosofo di Pescasseroli, che ci sono uomini per cui « Parigi val bene una messa »; ma è proprio convinto il Presidente del Consiglio che Roma, anzi l'Oltre-Tevere, valga i due terzi del patrimonio artistico italiano?
N. V.
AGGIORNATO IL 18 MARZO 2015