GRAMSCI E LA VULGATA “GRAMSCIANA”
Pochi, a ottant'anni dalla sua scomparsa, ricordano che il pensatore cercò anche di contrastare lo stalinismo di Togliatti. Ma dopo la sua morte, alcuni suoi estimatori e apologeti, specialmente torinesi, con l’intento di costruirne il Mito, a forza di retorica, conformismo culturale e intolleranza, hanno finito per danneggiarlo.
di Pier Franco Quaglieni *
Sono passati ottanta anni dalla morte di Antonio Gramsci in una clinica
romana dopo lunghi e terribili anni di prigione nel carcere di Turi che ne
avevano minato il fisico. Chiunque abbia vissuto quell’esperienza drammatica,
scontando la coerenza delle sue idee, merita rispetto, anzi ammirazione. Sandro
Pertini che fu suo compagno di carcere, ha testimoniato della sua altissima dignità e delle sofferenze
vissute da Gramsci. Sicuramente Gramsci è stato una “figura dell’Italia
civile ” che ricorderò nel secondo volume del mio libro che uscirà il prossimo
anno.
Un conto è Gramsci e un conto sono i gramsciani, in particolare quelli
torinesi. Torino è profondamente legata al nome di Gramsci che nella nostra
città ha lasciato il segno della sua opera come giovane socialista, direttore
dell’”Ordine Nuovo”, animatore dei Consigli operai alla Fiat nel 1920 e
fondatore dell’”Unità”. Ci fu addirittura chi non voleva che nell’edificio in
cui abitò in piazza Carlina fosse creato un albergo, che era visto come una
dissacrazione di quel luogo. Esagerazioni
assurde, sia perché a Roma nella casa che Gramsci abitò da parlamentare,
era da tempo operante un albergo, sia perché la proprietà dell’edificio, per
calmare le acque, vi ospitò anche l’Istituto Gramsci che ha una succursale, in
effetti assai poco frequentata, in Via Maria Vittoria, angolo via San Massimo.
Torino si è distinta più di ogni altra città nelle commemorazioni, in
particolare presso il Polo del ‘900,vera e propria cittadella della cultura a
senso unico, in cui l’egemonia dell’Istituto “Gramsci” è colta persino dagli
stessi ospiti del Polo.
Il valore dell’eredità gramsciana sotto e oltre la Mole
Benedetto Croce, leggendo le sue “Lettere dal carcere “nel 1945, disse
alle figlie che Gramsci “era uno dei nostri” proprio per l’afflato umano che le
lettere dimostravano e che restano il suo capolavoro, mentre i “Quaderni”
rivelano vistosamente i limiti del tempo
e l’angustia ideologica dell’analisi
gramsciana.
A 80 anni dalla sua morte, abbiamo assistito nella nostra città all’organizzazione di solenni messe cantate
in suo onore e al lancio di biografie che sono delle vere e proprie agiografie
scritte da vecchie zie del gramscismo
nostrano con conseguenti recensioni
acriticamente osannanti da parte di nipoti, se possibile ancora più faziosi dei maestri.
Le parole forse possono sembrare troppo aspre e persino ingiuste, ma
chi conosce da vicino la situazione sa che non sono esagerate. La solita
vulgata gramsciana torinese è diventata davvero un po’ insopportabile perché le vecchie zie e qualche nipote
prediletto non vogliono capire che il
pensiero politico di Gramsci è morto da decenni e che ,a voler essere generosi,
egli è un pensatore inattuale, datato,
superato. C’è chi pretende di imporre la sua “verità”, invocando un “ipse dixit“ abbastanza arbitrario. Non sono
riuscito a leggere di un incontro criticamente e fondatamente storico che poi
sarebbe anche il modo migliore per ricordare un uomo come Gramsci. Gramsci
amava la storia e di questo amore scriveva dal carcere al figlio Delio,
esortandolo a studiarla.
Il caso Orsini, Andrea Viglongo, il “gramsciazionismo” torinese
Nicola Matteucci che conseguì la seconda laurea con una tesi su
Gramsci riteneva il suo pensiero
appiattito sull’ideologia marxista. Matteucci mi disse che Gramsci era un
agitatore politico piuttosto fanatico che incitava alla contrapposizione
violenta e intollerante :l’esatto opposto di Filippo Turati che ,non a caso,
venne considerato un traditore della causa del socialismo. Alessandro Orsini
pubblicò nel 2012 il bel saggio, molto documentato, ”Gramsci e Turati. Le due
sinistre” edito da Rubettino. Non fu possibile presentarlo a Torino perché il
linciaggio subito dall’autore da parte di alcuni studiosi torinesi, creò un
clima che impedì ad altri studiosi di accettare di presentare il libro.
Lo stesso autore si rese conto della situazione che si era determinata
e che ancora oggi appare quasi surreale, se non fosse assolutamente vera.
Orsini a Torino venne letteralmente messo all’Indice. Bobbio sottolineava come
Gramsci fosse perfettamente allineato col marxismo-leninismo, una prospettiva
politica violenta, giacobina, anche sanguinaria
che la dura lezione della storia ha travolto. Dopo la caduta del Muro di
Berlino non si può più ragionare come prima. Pochi ricordano invece che Gramsci
cercò anche di contrastare lo stalinismo di Togliatti, pagando tragicamente il
proprio dissenso: incarcerato dai fascisti e perseguitato dai comunisti. Come
ha ricordato e documentato Giancarlo Lenher ,in un bel libro sulla famiglia
Gramsci in Russia, i suoi figli non fruirono neppure dei diritti d’autore delle
sue opere che vennero incamerati dal Pci.
Andrebbe invece ricordato il redattore capo dell’”Ordine Nuovo”, Andrea
Viglongo, il futuro straordinario editore
di grandi autori piemontesi fino
ad allora assai poco valorizzati.
Viglongo capì dove portava il gramscismo e scelse altre strade con coraggio.
Gobetti morì e non possiamo sapere quale sarebbe stata la sua scelta definitiva
e come avrebbe risolto l’ossimoro del suo liberalismo rivoluzionario e del suo
rapporto con Gramsci che sembrava aver prevalso rispetto ai maestri della sua
giovinezza. Giustamente il gobettiano Carlo Dionisotti sottolineò l’ossimoro
gobettiano, dicendo che i liberali di norma
non sono rivoluzionari ma riformisti e i rivoluzionari sono invece, di
norma, profondamente illiberali, se non proprio nemici della libertà. Sappiamo
invece dove portò in termini di faziosità quello che Dino Cofrancesco, attirandosi
l’odio ideologico di tanti intellettuali torinesi, Bobbio escluso, definì il
gramsciazionismo.
La miscela di intolleranza e di sudditanza ideologica, di servilismo al
Pci e di ottusità nel non denunciare le aberrazioni del comunismo russo e di
quello internazionale ebbe su Torino effetti che resero l’aria irrespirabile nelle
case editrici ,nell’ateneo, nei giornali, in molte realtà culturali. Augusto
Monti scrisse addirittura che il nuovo partito liberale era il Pci. La vedova
di Gobetti, affettuosamente protetta da
Croce durante gli anni della dittatura fascista, divenne vicesindaco di Torino
in una Giunta egemonizzata dai comunisti ed essa stessa finì per ruotare
attorno al Pci, come fece il “liberale” Franco Antonicelli diventato senatore
della “Sinistra indipendente” eletto con i voti del Pci. Solo lo storico
Raimondo Luraghi, medaglia d’Argento al V.M. durante la Resistenza, ebbe il
coraggio di abbandonare quella compagnia e non poté mai insegnare a Torino, lui
massimo storico militare, erede di diritto alla cattedra di Piero Pieri. Con un
certo orgoglio ricordo che nella motivazione di un piccolo premio a me
conferito a Palermo nel 2000 si parlava di “feroce egemonia gramsciana
torinese”, riferendosi non a Gramsci, ma
ai suoi eredi.
Quella egemonia è ancora feroce, anche se “Le ceneri di Gramsci”, per
dirla con un titolo di Pasolini del 1957, sono diventate polvere.
*Direttore del Centro Pannunzio
Grazie a C.Bussola, direttore del sito “Il Torinese” su cui l’articolo
originario è apparso il 30 aprile 2017, per aver consentito la pubblicazione.
IMMAGINI. 1. Ritratto murale di Gramsci con un suo celebre motto (pittore Solo, borgata del Trullo, Roma). 2. Il settimanale L'Ordine Nuovo, diretto da Gramsci.
# Nico Valerio 12:42