12 giugno, 2016

 

Populismo. Che cosa accomuna Renzi, Grillo e Berlusconi? La “democrazia della parola”.


Questione di stile o di sostanza? Non c’è dubbio, di sostanza. Un accentuato risvolto populistico è visibilmente comune a quasi tutte le moderne forme di “democrazia” di massa (se la parola “massa” non fosse tautologica, ovvia, ridondante, quando si parla di Democrazia). E non solo in Italia, in Europa, in Sud-America, ma perfino negli Stati Uniti.
      In Italia, in particolare, con la fine del voto proporzionale finiva anche l’era del parlamentarismo e del partitismo dominanti, che poi si sostanziava nella dialettica continua tra partiti di Governo e partiti di Opposizione, e anche nel bilanciamento dialettico tra partiti alleati.
      Il partitismo aveva prodotto, sì, Governi di brevissima durata, anche se, a ben vedere, coerenti e in continuità tra loro (quindi, instabilità solo apparente, in realtà un sistema stabilissimo), ma anche tanti vantaggi politici, sociali ed economici (dalla Costituzione alla fine del latifondo agricolo, al boom economico). Mentre il sistema che gli è succeduto, il leaderismo bipolare all’americana, finora ha prodotto solo guai, crisi, debolezza, e soprattutto un involgarimento, una riduzione a slogan propagandistici elementari e una spettacolarizzazione della Politica, che ingannano i cittadini e costituiscono di per sé, Governo o Opposizione che sia, non la soluzione dei problemi, ma il problema.
      L’inizio della fine avvenne per tre tappe successive: dopo la crisi politica-giudiziaria del 1992, la discesa in campo di Berlusconi (1994), e l’esplicito accordo tra Berlusconi (Forza Italia, Destra) e Veltroni (Pd, ex Pci, Sinistra), col beneplacito di un’altra mezza figura, Prodi (Pd, ex Dc, Sinistra), sul sistema maggioritario in funzione di un dichiarato “bipolarismo”.
      Oggi, poi, scendendo la scala fatale di una Politica sempre più degradata, Renzi e il renzismo, Grillo e il grillismo, Berlusconi e il berlusconismo, quindi l’intero arco dell’offerta politica, sono accomunati proprio dalla medesima sostanza, che si suddivide in tre componenti, tutte altrettanto inquietanti: natura del movimento, rapporto col Capo, stile di eloquio ed esposizione.
      Che cosa accomuna renzismo, grillismo e berlusconismo? Una strana forma di “democrazia recitata”, retorica, fondata sulla parola, insomma narrata, più che agita, che è il presupposto e il fondamento di una pseudo-democrazia plebiscitaria e carismatica.
      Del resto, ci sono precedenti famosi, tutti inquietanti, in Italia. E tutti, guarda caso, successivi alla “concessione” del suffragio universale nel 1913 da parte di Giolitti (tipico prefetto, abile nel gestire e mantenere il Potere, ma pochissimo interessato alle idee), stranamente senza che nessuna manifestazione popolare, nessun partito, neanche di Sinistra, lo avesse richiesto. Al contrario che in altri Paesi liberali, dove ci furono lotte durissime. E infatti, possiamo dedurre a distanza di un secolo, date le condizioni di atavica, estrema ignoranza delle masse popolari, che la decisione di Giolitti è stata quanto meno prematura e avventata. Ne scaturì, basta dire, il Fascismo, movimento populista e carismatico per eccellenza, fondato sull’immagine e la parola del Capo.
      Altri movimenti populistici in Italia sono stati nell’ordine, a partire dal secondo Dopoguerra, il movimento ultrapopulista di Giannini, L’Uomo Qualunque (da cui “qualunquismo” e “qualunquista”), la Lega Nord di Bossi, Forza Italia di Berlusconi e il Movimento Cinque Stelle di Grillo (da cui “grillini”). Ma perfino nei vecchi partiti il populismo si è insinuato, diventando anzi, il modo nuovo con cui selezionare una "nuova" classe politica, un nuovo leader e nuove parole d'ordine. Com'è il caso del Partito Democratico (ex Pds, ex Pci), con Matteo Renzi. Su questo singolare personaggio avevamo già messo in luce alcuni aspetti problematici di populismo, ben prima che diventasse capo del governo, con un primo e un secondo articolo.
      Ma non abbiamo fatto in tempo a lamentare questa inquietante caratteristica italiana, che a causa della crisi economica internazionale e del fallimento dell’Unione Europea ora anche all'estero stanno assaggiando la pietanza: Sud-America, ovviamente, ma anche Europa (numerosi i partiti populisti: in Ungheria, Austria, Spagna Grecia e Gran Bretagna) e perfino negli Stati Uniti con Trump.
      Tutti questi populismi sono insieme carismatici e personalistici, cioè fondati dalle caratteristiche uniche del capo eponimo, e soprattutto sulla sua parola. Tanto che tra i commentatori si sta imponendo addirittura una nuova categoria classificatoria: la democrazia della parola”, come è facilmente riscontrabile in Italia. Ne ha scritto Biagio De Giovanni in un editoriale sul Messaggero che sembrava promettere molto, ma che poi si è dimostrato deludente e riduttivo, anche se ha innescato una coda di utili riflessioni.
      Dopo aver inventato l'efficace formula lessicale della "democrazia della parola", lo studioso, infatti, non ne ha tratto conseguenze apprezzabili (anche perché il giornale è sempre stato governativo, e più di tanto non può dire). L’autore, neanche la applica a tutti i personaggi che ho detto sopra, ma accenna di sfuggita, allude. Insomma si lascia scappare un'occasione.
      Eppure, dai rischi di una democrazia fondata sulla folla indistinta, tutta uguaglianza formale ma niente contenuti, insomma la classica democrazia senza liberalismo, che spesso degenera in dispotismo e negli artifici retorici dell’Uomo Forte solo al comando, hanno messo in guardia molti grandi storici, filosofi del diritto, politologi.
      Il populismo parlamentare fa sì che ogni intervento ormai sia un comizio demagogico rivolto all’esterno, agli elettori, non ai parlamentari, anche per colpa di una controproducente “trasparenza” formale (dannosa e comunque inefficace, perché le decisioni vere continueranno a essere prese nelle segrete stanze) che ha portato a continue trasmissioni di “Radio Parlamento”. A proposito sarebbe interessante sapere quanti Paesi più liberali e democratici di noi ce l’hanno. E, visto che proprio Radio Radicale è stata la prima emittente radiofonica in Italia a trasmettere le sedute del Parlamento - per una "esigenza di conoscenza" da parte dei cittadini, sostengono i Radicali - viene fatto di pensare che anche il ri-fondatore e capo carismatico dei Radicali, Marco Pannella, è stato a suo modo un politico che ha fondato tutto sulla propria parola (logorroica, autoreferenziale, maniacale), sulla propria immagine, sulla propria potenza seduttiva (carisma), perfino sul proprio corpo. E non è una forma di populismo, e pure molto marcato, questo?
     Ma per paradosso il Parlamento, pur straparlando, non è il luogo in cui la Democrazia della parola fa più danni, pur rivelandosi un sintomo grave di involuzione democratico-dispotica (pensiamo semplicemente al mussolinismo, più che al Fascismo, che fu una “narrazione”, una interpretazione e falsificazione di parola, molto prima di diventare regime). Ma è nel circuito extraparlamentare mediatico (conferenze stampa-interviste-talk show in televisione e arringhe sul web) tra Capo di Governo parolaio-carismatico e Opposizioni populiste-parolaie, che la democrazia liberale si è ormai trasformata in una democrazia raccontata e mistificatoria che potrebbe preludere, in avverse condizioni, al Dispotismo para-democratico.
      Come, appunto, sta accadendo oggi.

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