15 febbraio, 2016

 

Gobetti. L’utopia adolescenziale del critico più acuto e severo degli eterni mali degli Italiani.

Novant’anni fa moriva il più giovane, originale, misconosciuto, discusso, sconcertante intellettuale e animatore culturale italiano. Il torinese Piero Gobetti era nato nel 1901, e calcolando gli anni dall’adolescenza alla sua morte (1926), deve aver avuto non più di otto-nove anni di vita intellettualmente utile per un pensiero critico maturo e attivo. Eppure, in quel breve spazio di tempo conobbe tutti, da tutti fu stimato, fece di tutto e tutto capì. Una figura sicuramente geniale che ricorda un poco un altro giovane di genio, forse ancor più strabiliante per doti intellettuali: Leone Ginzburg.
       Amico di Einaudi, Croce, perfino Prezzolini, molto vicino a Salvemini e alla sua “Unità”, Gobetti scrisse però, sia pure come critico, anche sull' “Ordine Nuovo” di Gramsci, e anzi gli sembrò d'intravvedere – per quel poco che poteva capire dalle notizie dei giornali d'allora – tracce di liberalismo perfino nella rivoluzione dei Soviet in Russia. Il che non gli è stato perdonato da qualcuno. Fu precoce e sicuro - spesso troppo sicuro di sé - critico della politica, della storia contemporanea, del costume, perfino del teatro (Einaudi, che ha pubblicato tutte le sue opere, ha riunito in un grosso volume anche le sue recensioni teatrali), a riprova del nostro modesto aforisma secondo il quale «critici si nasce, e poiché l’intelligenza tutto pervade, se si è veri critici si è critici di tutto». Durissimo oppositore del nascente Fascismo, correttamente individuato non come colpa del solo Mussolini, ma come malattia quasi endemica degli Italiani, morì a Parigi dove si era rifugiato in seguito all'aggressione dei fascisti. Le sue spoglie sono al cimitero Père Lachaise.
       La figura e la biografia di Piero Gobetti non è di quelle che si possono dire a cuor leggero: ogni passo nasconde insidie e contraddizioni, paradossi e incertezze, ingenuità e facili, repentini entusiasmi. Ultra-risorgimentale, fu però il maggior diffusore del mito del Risorgimento come "occasione mancata", se non addirittura "rivoluzione tradita", convinto che una vera Rivoluzione Liberale fosse tutta ancora da fare. Con Cavour e Croce, fu paradossalmente uno dei tre liberali italiani più ammirati dai comunisti colti, a partire da Gramsci e Togliatti (forse perché non lo avevano letto tutto e bene). Fatto sta che fino a tutti gli anni 50 piacque molto meno ai liberali di casa nostra (che diventati conservatori non potevano perdonargli di aver attaccato duramente Giolitti e il giolittismo, anch’esso definito un ricorrente “vizio nazionale”) che ai comunisti italici. Era ricordato, perciò, solo dall’Unità (l’altra, quella del PCI). Del resto metà degli intellettuali comunisti fino al 1950 fu crociana (senza alcuna colpa di Croce, ben inteso). Vero è anche che, sia in vita che dopo, il modo di pensare e porre i problemi di questo giovanissimo idealista carismatico sprigionava una tale attrazione da sedurre anche gli avversari. Perciò gli amici potevano a poco a poco prenderne le distanze, i nemici tendevano a diventarne amici.  
       Che cosa resta di lui? Il saggio La Rivoluzione Liberale, le annate delle sue riviste (Energie Nove, La Rivoluzione Liberale, Il Baretti) a cui collaboravano affermati intellettuali adulti, che trattavano questo ragazzo come un loro pari, alcuni addirittura come un giovanissimo maestro. Ma soprattutto il giudizio aspro sulla classe dirigente italiana, che neanche il grande Risorgimento (fatta salva la figura, unica, di Cavour) era riuscito a cambiare (anzi, formare) davvero. E poi il coraggio. La politica come pedagogia sociale, educazione. E soprattutto l'intuizione che la libertà non esiste senza lotta, senza dialettica, senza contraddizione, che cioè non si acquisisce e non si mette in salvo una volta per tutte. In questo era come Einaudi, Croce e Cavour.
       E per il resto? A essere severi con lui, come lui era severo con gli altri, almeno l'esempio di un forte senso critico, di una enorme passione, di una grande maniacale intransigenza morale, di un grande giovanile entusiasmo, di un grande insegnamento. Ad ogni modo, questa sua fortuna trasversale e contraddittoria, oltre che della sua intelligentissima ed entusiastica ingenuità adolescenziale, è una conferma ulteriore del carattere utopico e visionario del suo pensiero. Per questo i migliori di noi, liberali o no, sono stati tutti "gobettiani" a vent'anni.
     
IMMAGINE. Piero Gobetti in un celebre disegno di Felice Casorati (part.)

AGGIORNATO IL 15 APRILE 2016

Comments:
Bell'articolo, complimenti. Però non sono chiari gli "errori" di Gobetti, sempre lasciati intravvedere, ma mai elencati uno per uno.
 
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