Datata 23 settembre 1944 e
poi inserita nel secondo volume dei suoi Scritti e discorsi politici
(1943-1947), la conversazione di Benedetto Croce con un gruppo di giovani è
rimasta famosa per alcuni concetti che vi sono espressi, ma non è nota nella
sua interezza a chi non ha letto l’intero volume. Perciò la riportiamo qui
fedelmente, insieme a un altro brano sul medesimo tema che si trova nel volume.
Il grande filosofo, critico e uomo di cultura aveva allora già 78 anni e con
una certa ironia sulla propria età ricorda che non c’è bisogno di essere
tuttora giovani per conoscere i loro problemi e le loro ansie e incertezze. Ma
l’essere giovani è un essere, un fatto, non un problema. E male fanno quelli
che per populismo, demagogia o per la tipica furbizia degli Stati totalitari
cercano di blandire e sedurre i giovani instillando in loro la falsa idea che l’essere
giovani, di per sé, sarebbe un “problema”, qualcosa di irrisolvibile,
drammatico, o addirittura rivoluzionario.
Essere giovani è un passaggio inevitabile, naturale, anche se non
semplice e non banale dell’uomo, così come il fiore lo è per la pianta. Ma se
noi stacchiamo il fiore dalla pianta per studiarlo troppo a lungo, questo si
seccherà, esemplifica Croce. Cioè non è possibile estrarre dalla vita il tema
dei giovani e farne un tema a sé, eterno, anzi parallelo alla vita dell’uomo,
quasi che i giovani restassero giovani per sempre, o addirittura formassero una
curiosa classe sociale, un sindacato a sé. E come per i piccoli dell’aquila non
ci si chiede se, come e quanto vivranno da deboli e soli fuori dalla covata, ma
piuttosto quanto tempo ci metteranno a diventare maturi e adulti, così da poter
provvedere a se stessi, allo stesso modo l’unica cosa che ci si attende dai
giovani dell’uomo, non per caso ancora immaturi, bisognosi di cure e di
istruzione, e spesso nient’affatto felici – ricorda Croce con memoria
autobriografica – è una rapida e corretta maturazione, fisica, intellettuale e
morale.
Insomma, paradossalmente, l’unico dovere di un giovane è di smentire il
proprio stato, abbandonare al più presto la sua condizione, non essere più
giovane. E il modo migliore per farlo è realizzarsi seguuendo la propria
vocazione, che va ben individuata e chiarita proprio in quell’età. E chi non l’ha
trovata entro i trent’anni, cioè il limite della giovinezza, è difficile che
possa trovarla in seguito.
"Ma non
puoi negare che i giovani siano ostacolati", mi ha obiettato un amico.
Vero, verissimo. Però, a ben vedere, aggiungo io, anche le donne dagli uomini,
gli uomini dalle donne, gli impiegati dai direttori, i soldati semplici da
caporali e sergenti, gli antifascisti dai fascisti, i fascisti dagli
antifascisti, i clericali dagli anticlericali, gli anticlericali dai clericali,
i neri dai bianchi, i bianchi dai neri, i meridionali dai nordici, gli
occidentali dagli islamisti ecc. ecc. Come testimoniano non solo le guerre
sotterranee (invidie, pettegolezzi, gelosie, boicottaggi ecc.), ma anche quelle
alla luce del sole (separazioni, divorzi, processi, guerre ecc.). Insomma, da
che Mondo è Mondo, tutti gli uomini sono ostacolati da altri uomini, dalla Natura
o dal Caso. E a ben vedere questi ostacoli sono le normali difficoltà o drammi
della vita. Che bisogna saper superare. E questo, appunto, si chiama processo
di maturazione, crescita, diventare adulti, oppure uomini più forti e avveduti.
Alcuni ci riescono, altri no, oppure solo in parte. E da questo dipende quella
che abusivamente chiamiamo "fortuna" o "sfortuna" degli
uomini (N.V.).
CONVERSAZIONE
COI GIOVANI 1
di Benedetto Croce
in
Scritti e Discorsi politici (1943-1947)
vol.II,
Laterza ed. (pp. 57-62)
Sono
lieto di conversare con giovani. Può sembrare strano che io vi prenda a
parlare, proprio, della giovinezza, con tanta distanza di anni che corre tra
me e voi, giacché, guardandovi, io non potrei neppure chiamarvi figli né
nipoti: dovrei chiamarvi pronipoti.
Ma
sono stato giovane anch'io e ho viva la memoria di quel tempo, e ricordo i miei
sentimenti e le mie idee di allora, e perciò credo di comprendere i giovani e
di poter essere compreso da essi.
Si
suol discorrere oggi, tra i tanti altri e gravi problemi che ci premono, del «
problema dei giovani ». Orbene, mi permetterete di dirvi che questo problema
non esiste, perché la giovinezza è un fatto e non è un problema.
Parlare
del problema della giovinezza sarebbe come parlare del problema della fioritura.
La fioritura accade naturalmente, e non dà luogo a problema.
Si
può bensì domandare che cosa sia la fioritura; ma la risposta si offre subito
ovvia. È la preparazione del frutto. Se invece di lasciare che questo processo
si compia, si stacca il fiore dalla pianta e lo si conserva in disparte, il
fiore si secca.
E
i giovani non possono avere altro fine che di maturarsi ad uomini, di
preparare il loro avvenire di uomini. Si suol dire la « lieta gioventú » : io
la direi piuttosto, con una parola che il Petrarca amava, « dolce-amara ». La
gioventù non è tutta lietezza e, cercando nei miei ricordi, mi tornano i
momenti e periodi di tristezza che allora soffersi, di una tristezza che
talvolta giungeva alla desolazione e alla disperazione, e ad impeti di rinunzia
alla vita.
La
maturazione ad uomini avviene attraverso ostacoli, incertezze, perplessità,
delusioni, angosce, che i giovani stessi debbono superare. Noi, esperti delle
difficoltà che abbiamo incontrate, delle fatiche che abbiamo durate, possiamo
e dobbiamo aiutarli, ma non possiamo sostituirci a loro e in loro. Aiutarli non
con la costrizione, e neppure con le prediche, ma discretamente, con qualche
cenno di quel che possono tentare, con qualche parola di conforto nei loro
sconforti.
Il
fascismo e gli altri atteggiamenti, che ora hanno preso a imitarlo in ciò,
costituiscono i giovani in una corporazione o in una sorta di classe sociale,
li chiudono in queste e dicono loro: « Siate giovani! ». Ma non c'è il dovere
della gioventú, un dovere che sia diverso da quello degli uomini tutti. Parlare
cosí è cosa stolta, se non fosse capziosa.
Si
sono eccitati e stimolati i giovani a intervenire nei dibattiti della scienza o
nelle azioni della politica, in nome della loro gioventú. Noi diciamo invece: -
Andate piano! Non crediate di possedere nella gioventú un talismano, una sorta
di virtú magica. Pensate, travagliatevi, e correggetevi spesso, provando e,
nel caso, cangiando idee e vie. Se troppo presto passate all'opera e
all'azione, il men peggio che vi possa accadere è quello che accade ai troppo
precoci scrittori e poeti, che debbono poi sconfessare i peccata iuventutis e
collocare nella serie delle loro opere una sezione, di cui volentieri
farebbero a meno, di opere o di versi « rifiutati dall'autore ».
Testé,
a Salerno, è stato affisso un manifesto per la costituzione di un « Partito
giovanile », contro gli altri partiti che questo nuovo negherebbe tutti. Ma gli
altri partiti sono composti di uomini e hanno la loro seria ragione di
esistere e battagliare tra loro. Non si è badato che un simile disegno è un
residuo del fascismo, il quale non voleva che i disegno si maturassero
liberamente, e anzi non voleva che punto si maturassero, e li voleva strumenti
docili a sua disposizione. Perciò, per trascinarli dietro di sé, li adulava e
li stordiva. Tra le tante cose cattive che il fascismo ha fatte, questa
seduzione e corruzione, tentata sui giovani, è stata delle piú cattive.
A
me è accaduto di osservare che, nei loro cosiddetti Littoriali, qualche
giovane, che per caso aveva letto alcuni dei miei libri e citava miei giudizi,
non sapeva (o era attorniato dalla maggioranza che non sapeva) che io fossi aneora
tra i vivi. Una volta, come lessi sui giornali, una signorina, che era tra
loro, protestò: « Mi meraviglio che si nomini qui il Croce. Non è egli un
oltrepassato? ». « Grazie, signorina! », risposi mentalmente. Scusate se
racconto qualche aneddoto.
Qui,
in Roma, un professore di filosofia del diritto, ardente fascista, volle far
conoscere i concetti dei giovani circa i problemi di quella disciplina, e delle
loro scritture mise insieme un grosso volume. Compiuta questa bella impresa,
incaricò un suo assistente, ora insegnante in Napoli, di curarne la stampa e
scriverne l'introduzione. Ma l'assistente scrisse secondo verità che quei
problemi non erano trattabili da giovani, perché richiedono non solo grande
conoscenza della filosofia in generale e del diritto in particolare, ma
un'esperienza della vita che ai giovani, non certo per loro colpa, manca. Cosí,
nella prefazione, svalutò il libro. E io, nel recensirlo, mi restrinsi a citare
alcuni brani della sua prefazione, che rendeva superflua la recensione.
Ci
sono anni di particolare importanza nella vita dei giovani. La mia esperienza
mi fa dire che tra i venti e i trent'anni l'uomo veramente si forma, in modo di
solito definitivo, e che chi è inoperoso e inconcludente o sbaglia la via in
quel decennio, rimane sempre sviato o disorientato.
Ognuno
di noi porta in sé una forma di vocazione, e tutto sta a rendersene
consapevoli, a farla a sé stessi chiara e determinata. Vi sono le illusioni
delle vocazioni apparenti e bisogna sventarle o presto abbandonarle. Cosí non
pochi giovani s'illudono di essere poeti, e riescono invece uomini pratici e
politici. Posseggo un volume giovanile di versi sentimentali e con venature
socialistiche di uno dei piú noti uomini d'affari d'Italia, il Gualino.
Ma,
come ho detto, questa ricerca della propria effettiva vocazione dev'essere di
necessità compiuta dai giovani stessi. I consigli giovano poco o qui sono
costretti ad ammutolire.
Spesso
i giovani chiedono: « Ho fatto questo; ma mi consigliate di continuare e di
persistere? ». Ma come? Debbono essi sentire in sé la spinta al loro fare e
indirizzare e curare da sé le loro forze, che essi solo possono veramente
conoscere o venire a capo di conoscere e misurare. Chi nasce poeta, non
domanderà mai se deve fare il poeta, perché non può non farlo, quando ne ha
avuto veramente la vocazione da madre natura.
Mi
sono sempre guardato, avvertito ben presto dal saggio Orazio, dall'esercitare
la parte del laudator temporis atti; e conosco e riconosco tutte le deficienze
che erano nel tempo della mia gioventú : un tempo, tra l'altro, antifilosofico,
e voi sapete che io dovetti reagire contro quell'empirismo e positivismo. Con
tutto ciò posso, con piena verità, affermare che allora non esisteva la moda
di un professato contrasto e lotta tra giovani e vecchi. Questa moda la vidi
apparire in Italia, nei primi anni del novecento, per opera del D'Annunzio e
dei dannunziani. Ricordo che, circa quel tempo, Ugo Oietti scrisse contro gli
uomini di quarant'anni, e Giovanni Pascoli, che non era un uomo di arguzie,
quella volta argutamente rispose:
«Affrèttati, Ugo Oietti, a fare qualche cosa, perché i quarant'anni giungono
presto!».
L'esempio
di quel nuovo atteggiamento era venuto dalla Francia, dove vecchi autori
drammatici e romanzieri, che avevano avuto fortuna e guadagnato danaro, e si
erano costruite case e ville, occupavano il mercato, che i giovani autori
volevano a loro volta occupare. Ma in Italia (io osservai allora) questa
motivazione economica mancava, perché in Italia con la letteratura non solo
non si diventava ricchi ma non si campava la vita, e ad essa si lavorava per
puro amore dell'arte: sicché il contrasto poggiava sul vuoto. Disgraziatamente,
col fascismo quella moda fu trasportata dal campo letterario a tutti gli
altri.
Quando
io fo qualche accenno nel senso che vi ho esposto, odo dire che sono « nemico
dei giovani ». Ma non è vero: io voglio per contrario che essi portino a noi la
loro freschezza di mente e le loro nuove esperienze. E questo è stato il
principio che ha sempre ispirato e regolato gli uomini della mia generazione.
Giovanni Giolitti cercò sempre di mettersi accanto nel governo tutti i giovani
che giudicava capaci, e si rammaricava che la dura sorte lo avesse privato di
quelli nei quali riponeva le migliori speranze e che considerava suoi
possibili successori nel governo d'Italia.
Ma
questo accoramento, questa sollecitudine, non ha niente che vedere con
l'ideazione né di partiti né di sottopartiti di giovani, da unire ai vari
partiti storici. Quando i vecchi garibaldini cominciarono a scomparire dalla
scena della vita, vi fu chi, nelle loro associazioni, propose di formare
gruppi di « allievi garibaldini ». L'idea, naturalmente, suscitò il riso e non
fu attuata.
Noi
liberali abbiamo la fortuna di avere con noi molti giovani; ma non vogliamo che
essi formino gruppi di partiti con giovanili programmi di partiti, per
contrapporli e gettarli contro altri simili gruppi di altri partiti. Essi sono
i nostri aiuti e compagni di lavoro, e faranno quanto noi non potremo fare,
perché, attingendo alle nostre esperienze e vedendoci e assistendoci nel
nostro lavoro, riprenderanno dalle nostre mani la tela che continueranno a
tessere a lor modo e con la loro piena responsabilità. A essi confidiamo
l'avvenire della nostra Italia e del mondo, del quale saranno parte operosa.
Ecco
quello che volevo dirvi. Non vi ho detto cose peregrine, ma tali che mi è parso
utile rammentare nell'ora presente.
BENEDETTO CROCE
1. Questa conversazione, tenuta in
un'adunanza di giovani a Rnma, nella sede del Partito liberale italiano, il 23
settembre 1944, fu raccolta e pubblicata nel Risorgimento liberale del 28
settembre e in altri giornali. Qui si ristampa con lievi ritocchi di forma,
senza cangiare il suo carattere d'improvvisata conversazione.
INTORNO AL « PENSIERO DEI GIOVANI »1
di Benedetto Croce
in
Scritti e Discorsi politici (1943-1947)
vol.II,
Laterza ed. (pp. 120-122)
Alcuni anni fa, venne in luce
un volume intitolato I problemi della filosofia del diritto nel pensiero dei
giovani (Roma, 1936), dovuto a un solerte insegnante di quella materia, il prof.
Del Vecchio, che poi - per motivi, mi dicono, razzistici - è stato rimosso
dalla cattedra che teneva con molto impegno. Il Del Vecchio è stato, credo, il
primo, o tra i primi, a voler far largo nel mondo della scienza ai pensamenti e
ai pareri dei giovani, dando alle stampe quelli da lui raccolti nelle
esercitazioni della sua scuola e annunziando enfaticamente nella prefazione «
Ora, la parola è ai giovani! ». Volevo allora dire subito il mio avviso,
direttamente contrario agli intenti che avevano mosso il Del Vecchio;
senonché, nello stesso volume, seguiva alla prefazione di lui un'altra del suo
assistente, il quale, mettendo le mani innanzi, diceva già tutto ciò che io
aveva in animo di dire, venendo sostanzialmente a negare la convenienza di
quella pubblicazione, che presentava « risposte di giovani, anzi di
giovanissimi, a temi filosofici che toccano punti fondamentali del pensiero e i
problemi essenziali della vita ».
« Vere risposte a queste domande - avvertiva
saggiamente l'assistente del prof. Del Vecchio, e complice, a quanto sembra,
non volontario nella infelice impresa - veri giudizi sulle grandi risposte che
a queste grandi domande i geni hanno dato, non sono possibili, senza avere
sofferto nella duplice esperienza della meditazione e della vita, l'ansia che è
di tutte la piú lacerante, della verità, e queste esperienze non si hanno a venti
anni. Tutti i grandi temi che l'assiduo lavoro del pensiero ha consacrati, in
definitiva involgono problemi in fondo ai quali sono, nella loro terribile
semplicità, le posizioni fondamentali della vita, il destino dell'uomo, la
legge morale, il male, il mistero e il martirio della vita comune. A venti anni
si è lontani da questa coscienza amara e austera della verità; manca il senso
della serietà della vita, la quale è ancora, a quell'età, speranza, ignoranza
o dimenticanza del vero limite e della oscura morte. E manca pure in quella
potente espansione di forze che prendono possesso del proprio essere e del
mondo, in quella forte e ingenua affermazione, piú che di volontà, di desideri
e di passioni, ogni avvertenza o seria e verace consapevolezza dell'idea ». E
via dicendo.
Questa
raccolta del Del Vecchio, e queste dichiarazioni del suo assistente, mi tornano
di volta in volta in mente nell'odierno sfrenamento delle adunate giovanili di
cultura e delle « riviste di giovani », alle quali manca perfino l'opera di un
direttore e moderatore, qual era per quei giovani l'insegnante di filosofia
del diritto dell'università di Roma. È un gran fiorire in esse di spropositi e
di scioccherie, dette da ragazzi adulati ed eccitati, alle quali si mescolano
talvolta le vocine di gentili signorine che, per soavi che siano, non sono
meno, nei riguardi intellettuali, orripilanti.
Veda chi sovrasta alle cose
della pubblica educazione in Italia di apportarvi qualche rimedio, per la
reverenza grandissima che, secondo una nota sentenza, si deve ai ragazzi, che
non bisogna esporre non dirò alle risa (ché qui non c'è da ridere, e neppure
da sorridere), ma a presentarsi in aspetto sconveniente. La « parola dei
giovani », il « diritto dei giovani »! Ma quale è in fondo - pare che non ci si
sia mai pensato! - questo diritto? Forse di fermarsi e persistere giovani?
Il
loro unico diritto, e dovere insieme, è, semplicemente, di cessare di esser
giovani, di passare da adolescenti ad adulti, da intelletti immaturi ad
intelletti maturi; e a questo passaggio, a questa ascesa, bisogna esortarli, a
questa prepararli, in questa aiutarli, e non già darsi ad accrescere l'èmpito,
l'irriflessione e la baldanza loro, che sono certamente difetti naturali e
perdonabili a quell'età, ma per ciò stesso non debbono essere artificialmente
coltivati se il còmpito di quell'età consiste invece, unicamente, nell'andarli
superando.
BENEDETTO CROCE
1. Dalla Critica del 1943.
IMMAGINE. Benedetto Croce con le giovani figlie.
AGGIORNATO IL 22 OTTOBRE 2015
# Nico Valerio 22:34