27 giugno, 2008
Scarpa: “Le tasse aumentano, altroché, e il rischio è un Robin Hood al contrario”
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LA FRECCIA DI ROBIN HOOD COLPISCE LA BOLLETTA
La cosiddetta Robin Hood tax eleverà i prezzi dell'energia elettrica, già oggi piuttosto alti, spostando denaro dalle tasche dei consumatori a quelle dello Stato. Se avrà un effetto reale sulle imprese del settore, sarà a favore di quelle che oggi ottengono più profitti, a danno di chi fa fatica a stare a galla. Se si vogliono colpire i profitti eccessivi nel settore elettrico a sostegno della collettività, esiste solo un modo: far funzionare il mercato. Nel nostro, la concorrenza è poco efficace. Sarebbe interessante conoscere le intenzioni del governo in proposito.
La cosiddetta Robin Hood tax (nome penoso, ma temo che sia necessario per farmi capire) non colpisce solo i petrolieri (Eni in primis, ovvero il governo come suo azionista), ma anche le aziende del settore elettrico. Si tratta di un aumento del 5,5 per cento dell’imposta sui redditi per tutte le imprese che producono o vendono energia elettrica.
La cosa interessante è che la tassa eleverà i prezzi dell’energia elettrica, che già oggi sono piuttosto alti, spostando denaro dalle tasche dei consumatori a quelle dello Stato. Se avrà un effetto reale sulle imprese del settore (cosa che si deve dubitare, come vedremo) lo avrà a favore di quelle che oggi fanno più profitti, a danno di chi fa già fatica a stare a galla. Alla faccia del buon Robin Hood, che si rivolta nella tomba. Vediamo perché.
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PAGHERANNO LE IMPRESE DI GENERAZIONE?
Anche se la teoria ci dice che questo dovrebbe avvenire solo per le imposte indirette, spesso anche le imprese che si trovano di fronte a un aumento delle imposte sul reddito aumentano i prezzi per mantenere i margini di utile. E questo giochino riesce particolarmente bene ove la domanda è rigida, come nel caso dell’energia (benzina come elettricità). Infatti, il decreto legge specifica che "è fatto divieto agli operatori (…) di traslare l’onere (…) sui prezzi al consumo". Come si fa a controllarlo? Dice lo stesso decreto che "L’Autorità per l’energia (…) vigila sulla puntuale osservanza della disposizione". Questo ci fa stare tranquilli? No.
Non certo per insipienza della povera Authority, ma per il banale dettaglio che non ha purtroppo alcuno strumento per intervenire (con una malaugurata eccezione, di cui diremo tra poco).
Intanto, sui prezzi della benzina l’Authority non ha alcuna competenza, poiché questi da parecchi anni sono liberi. E se anche improvvisamente si volesse tornare a un sistema di prezzi amministrati, vorrei capire come si potrebbe distinguere tra aumenti dei prezzi finali dovuti a variazioni del prezzo del petrolio e aumenti dovuti alla traslazione dell’imposta. Sfido chiunque a riuscirci in modo "giuridicamente" robusto.
Comunque, se anche all’Authority venissero date competenze (e risorse) specifiche per tale nuovo compito, è facile prevedere che le imprese del settore riuscirebbero ad adeguare i prezzi verso l’alto ben prima che tali controlli divengano effettivi. In altri termini, l’aumento di imposta sui petrolieri, lo pagheremo noi alla pompa, anzi, con ogni probabilità la stiamo già pagando. E nessuno ci può fare alcunché.
Lo stesso vale nell’elettricità. Intanto, si noti, l’imposta grava sia su chi produce, sia su chi vende, ovvero graverà sulla bolletta finale due volte. E purtroppo anche qui i controlli dell’Authority non possono essere gran che efficaci.
I prezzi all’ingrosso sono liberi da diversi anni (nel 2004 è partita la borsa elettrica) e l’unico modo di effettuare questo controllo sarebbe dire "scusate, abbiamo scherzato", e chiudere (unico paese in Europa…) il mercato all’ingrosso dell’energia elettrica, sottoponendo il prezzo all’ingrosso a un regime di prezzi amministrati. Il tutto con alcune decine di imprese private che hanno costruito i loro progetti per impianti di generazione tenendo il mercato come punto fermo.
Quindi, o si chiude il libero mercato dell’energia, oppure Robin Hood fa aumentare i prezzi a valle.
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LA PAGHERANNO I VENDITORI? SAREBBE ROBIN HOOD A ROVESCIO!
E a valle succede che l’energia elettrica viene ceduta ai venditori, che poi la rivendono ai consumatori finali. E anche i venditori saranno soggetti alla medesima imposta che già fa aumentare il prezzo all’ingrosso.
Anche qui, attenzione, perché i prezzi finali sono liberi, c’è una direttiva europea che lo specifica, e verso i grandi clienti che da tempo sono nel mercato, temo che l’Authority sia piuttosto impotente.
Eppure, qualcosa potrebbe fare… Almeno per i piccoli clienti resta una tariffa massima di riferimento che le imprese devono comunque rispettare. Per questi clienti l’Authority in teoria potrebbe continuare a fissare la tariffa di riferimento ignorando l’aumento delle imposte.
I piccoli consumatori sarebbero protetti? Solo in parte, perché la tariffa finale "prende atto" del prezzo all’ingrosso, quindi un suo aumento sarebbe comunque pagato dai consumatori. Ma almeno l’aumento delle imposte sui venditori non sarebbe "traslato" in bolletta.
Sarebbe per altro un paradosso straordinario. I veri "extra-profitti" del settore elettrico non sono certo quelli dei venditori finali, che hanno margini estremamente risicati, sono quelli dei generatori. Invece con questo meccanismo le uniche imprese a pagare di tasca propria sarebbero quelle che hanno profitti minori! E il povero Robin si rivolta nella tomba.
Ciliegina sulla torta è il fatto che la quasi totalità di questo segmento del mercato è in mano pubblica, cioè a Enel (30 per cento del Tesoro) e alle ex municipalizzate, ove la partecipazione pubblica è assolutamente maggioritaria. Ovvero, pagherebbero in gran parte gli enti locali.
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IL VERO PROBLEMA RESTA IRRISOLTO
Se si vogliono colpire profitti "eccessivi" nel settore elettrico a favore della collettività esiste solo un modo. Che è quello di far funzionare il mercato, che finora, diciamolo pure, non ha dato grandi soddisfazioni ai consumatori.
Da aprile 2004 a oggi (51 mesi), il prezzo medio mensile sulla borsa italiana è stato superiore alla media delle altre grandi borse europee (Spagna, Germania, Francia e Olanda) nel 96 per cento dei casi. In media, in questo periodo il prezzo italiano è stato superiore a quello medio degli altri paesi di circa il 55 per cento.
Conta la tecnologia? Certo. Ma il dato non cambia se togliamo dai confronti la Francia che ha il nucleare, il cui prezzo all’ingrosso è del tutto in linea con quello tedesco o quello olandese. Il presunto vantaggio di costo del nucleare (se esiste, che è tutto da dimostrare) è a dir poco esiguo.
È poi vero che i tedeschi bruciano molto più carbone di noi (e lo sussidiano ampiamente) ma anche questo è solo una parte della spiegazione.
Nel nostro mercato la concorrenza è poco efficace. Sarebbe carino sapere cosa intende fare il governo a questo riguardo. Aumentare le imposte per aumentare ulteriormente i prezzi?
Robin Hood, se ci sei batti un colpo…
CARLO SCARPA
20 giugno, 2008
Non i liberali in Italia, ma proprio i liberali alla Ostellino sono senza speranza
Naturalmente noi liberali italiani ci sentiamo profondamente offesi dalla gratuita provocazione, che potrebbe per il prestigio di cui gode l'autore influenzare negativamente il nostro quotidiano lavoro per riportare i liberali sulla scena, anzi addirittura per unificarli.
Non ci sono liberali. E noi chi siamo - potremmo rispondere ad Ostellino - siamo forse socialisti? Piuttosto, chi è Ostellino? Intanto dirò con parole semplici perché Ostellino, e anche i liberali che prendono per oro colato la sua analisi, sbagliano.
Liberale lo è senza dubbio, ma è anche un uomo fortunato. Da direttore della piccola rivista di politologia liberale Biblioteca della libertà di Torino a giornalista del Corriere della Sera, poi inviato in Russia, infine direttore del Corrierone per tre anni (1984-87). Durante i quali, se non ricordiamo male, Piero Ostellino non si distinse granché. Nessun guizzo, nessuna fantasia, nessuna genialità s’intravvedevano nei titoli e nei testi, sempre grigi, di quello che per generale demerito degli altri era allora "il miglior giornale italiano". Né la Terza pagina, né la Politica interna ricorsero a giornalisti e intellettuali liberali più del solito, cioè oltre la normalità statistica.
Gli articoli, per esempio, Ostellino non sapeva e non sa tuttora scriverli bene. Se uno è un bravo giornalista o scrittore o anche insegnante di italiano al liceo, anche se è liberale, se ne accorge. Ci piace perché esprime concetti liberali, ma in quanto allo stile di scrittura e alla fantasia compositiva, da un'analisi di 150 articoli appare sciatto, non particolarmente dotato. Ma niente di grave, per carità: potrei citare almeno dieci famosi direttori che non sanno fare i titoli. E secondo un costume italiano, ad un direttore non si richiede di saper scrivere in modo superlativo.
Gli anni della "politologia", il suo vero amore, gli hanno lasciato una fastidiosa aria professorale e seriosa, uno stile irto, poco armonioso, una lingua poco felice. A leggere in rapido confronto Ostellino e Panebianco, due icone liberali per liberali che di icone ne hanno poche, come quelli italiani, il giornalista vero sembra il secondo, che infatti ha sbagliato professione, mentre l’accademico pare il primo, che dovrà pur riconoscere l’errore fatto.
Ma Ostellino ha avuto fortuna. Altri, meno liberali di lui, sono stati migliori direttori. Altri ancora, giornalisti più bravi, direttori non lo sono mai diventati, e già è tanto se possono scrivere senza raccomandazioni sulla Gazzetta di Roccasecca.
Ora, però, che un giornalista in pensione, così "neutro" in quanto a politica italiana, distintosi infatti per le corrispondenze e i libri dall’Urss e dalla Cina, dopo decenni di silenzioso distacco professionale, sostenga che i liberali non ci sono più, e per di più attraverso l’intervista di un giornalista poco noto, e su un giornale marginale, be’, è certamente curioso. Ma, tant’è, sempre meglio - direbbe un battutista - che giocare a petanque (bocce) nel giardino comunale d’un bel paesino sulla Costa Azzurra. L’ex-direttore, infatti, ha un suo buen retiro in Francia.
Nell’intervista, Ostellino gioca a fare l’accademico sine ira ac studio e osserva con distacco snob i liberali d’Italia. La distanza focale – storia e fotografia insegnano – dovrebbe giovargli. E invece, no. Cade nel solito pessimismo conservatore, secondo cui gli Italiani sarebbero negati come liberali. Solo perché non ci sarebbero personalità liberali nel Centro-destra o nel Centro-sinistra attualmente in Parlamento. E se ci sono, sono inifluenti
Ma non è vero: ci sono certamente tanti liberali a Destra e a Sinistra. Il liberalismo ormai è maggioritario in Italia. Basta con questo snobismo insopportabile di considerarsi sempre tra pochissimi eletti, come scusa se non si è capaci di fare. Solo che i tanti liberali sono figure anonime, yesmen, "impiegati del voto" senza personalità, carrieristi di provincia che badano solo ai soldi e al potere, adatti tutt'al più a pigiare un tasto per conto della Destra populista e della Sinistra che la imita. Il coraggio uno non se lo può dare. Con quale selezione del personale sono stati scelti? Con la pura cooptazione amicale, anzi servile.
D'altra parte, essere liberali, dove e quando tutti sono o si dicono liberali, oggi non è una virtù eroica che vuole intelligenza, coraggio, fantasia e originalità. Non è una scelta eccentrica, ma è la normalità, la banalità. Anche i nostri club e Partiti liberali, del resto, sono composti da gente così. E' il destino di tutti i gruppi democratici in tempi tranquilli di democrazia consolidata attirare solo i mediocri. A forza di discutere di elezioni, tattiche, accordi "concreti" (con cani e porci) anziché cercare di attuare le idee liberali, a forza di fare i "moderati" o i "centristi" su tutto, a forza di barcamenarsi nell'equidistanza geometrica del "né né", accade che liberali e repubblicani neanche parlino più di politica, di idee forti, e tantomeno le possano trasmettere ai cittadini. Dall'anti-politica sono, siamo, già entrati nella poco aurea mediocritas della non-politica. Perché la politica è fatta di contrasti e scontri, mentre i liberali all'italiana gli scontri li evitano. Così non si distinguono più dagli altri. Ecco perché anche se sono
tantissimi, la maggioranza degli Italiani, nessuno li nota. E' per questo che Ostellino compie anche il secondo errore, cioè non guarda al Paese reale, al nuovo liberalismo effettivamente diffuso tra gli Italiani, ma solo ai rappresentanti, agli eletti, illudendosi che siano i migliori, mentre in realtà sono i peggiori.
Allora forse per "liberali" Ostellino voleva dire i "geni", le fortissime personalità? Eh, magari, ma i geni bisogna saperli attrarre. E mancano i geni che attraggano gli altri geni. E poi vanno selezionati con un'imponente screening di massa (p,es. Stati Generali) che li metta opportunamente in luce, perché i geni vogliono spazio e sono narcisisti. Ma i geni vogliono anche idee forti, appelli nazionali, grandi battaglie, coinvolgimento della popolazione. E soprattutto scappano appena vengono contornati da mediocri, dai soliti "buoni a nulla ma capaci di tutto" che in realtà della Politica amano il comando e il potere meschino che ne deriva. Il caporale, la casalinga e il politico. La Politica, in fin dei conti, è l'unico posto, con l'Esercito, in cui un perfetto imbecille può esser chiamato impunemente a prendere decisioni senza passare attraverso la concorrenza o un serio esame psicologico. Ma solo perché cooptato o delegato da altri imbecilli.
"L’Italia non è un Paese liberale". Non è vero, lo è. E un liberale, sia pure giornalista, non dovrebbe dire queste cose. Come si fa ad avere il polso degli Italiani se si frequentano quasi soltanto politici, direttori, industriali, e si vive quasi sempre in Francia?
E' il tormentone pessimistico dei politici liberali italiani di oggi e di ieri. Ma è un alibi per il loro non-fare, per i loro insuccessi, per la loro incapacità personale di fare propaganda, per la loro incomprensione psicologica del cittadino medio, talvolta per il loro cinismo di professionisti della politica. In tal modo credono di giustificare come mai i liberali (compresi i repubblicani) riescano a racimolare alle elezioni solo lo 0,3-0,8, rispetto al 30-40 per cento di liberali potenziali esistenti in Italia – siamo pur sempre un Paese dell’Occidente liberale, col liberalismo unica ideologia dominante! – come finalmente le prime indagini demoscopiche cominciano a rivelare.
Questo pessimismo fatalistico e di comodo è in contrasto con tutta la tradizione liberale anglosassone fatta propria dai liberali e mazziniani del Risorgimento, da Cavour (che parlava francese, ma pensava inglese) a Nathan (che parlava e pensava inglese), secondo cui il liberalismo non è un concetto elitario e aristocratico – i liberali nascono come anti-aristocratici, bisognerebbe far imparare a memoria questa frase ai nostri esponenti del Sud – ma è collegato all’entusiasmo, alla volontà, al progresso, al desiderio di libertà innato nel popolo. Perfino il pessimista Croce fu costretto all’ottimismo su questo punto: anche in Italia la storia è sempre storia di libertà.
"I liberali non ci sono più, sono scomparsi". Certo, a guardare da elitari solo in alto, ai professionisti della politica, ai fannulloni privilegiati del Parlamento, al sistema del potere e della comunicazione, non in basso, alla società, alla gente semplice che non frequenta salotti mondani o redazioni, e che è sempre più liberale senza saperlo. Ma casalinghe, studenti, impiegati e pensionati saprebbero anche loro che cosa vuol dire il Liberalismo, se qualche liberale interessato solo ad essere eletto (invano, per fortuna), si degnasse di fare "pedagogia sociale", cioè di insegnare, di divulgare. Gli Italiani sono anche ignoranti: ultimi per lettura di libri tra le Nazioni più sviluppate. Perciò attivisti, politici e giornalisti liberali devono fare di più, molto di più dei loro omologhi stranieri.
Non siamo più ai tempi di La Malfa e Malagodi. Oggi anche gran parte degli allora comunisti e fascisti è stata conquistata dal liberalismo. E oggi, anche da noi, come nei Paesi anglosassoni, ci si divide e si discute, piuttosto, tra liberali di destra, di centro e di sinistra. Questo, semmai, è il punto. Non che "non ci sono i liberali".
Se qualche demografo meno stupido dividesse gli Italiani democratici secondo le idee, con un centinaio di domandine pratiche, senza mai citare il seducente termine "liberale", sono sicuro che tra conservatori, liberali e socialisti il 40-50 per cento lo prenderemmo noi. Saremmo non il primo partito, perché questo riguarda l'organizzazione, ma certamente la "opzione ideologica più diffusa".
E invece? L’errore di Ostellino e di tanti, troppi, liberali "filosofici", realisti politici imbolsiti dal benessere, senza alcun contatto con i cittadini, è sempre il solito: per "liberali" loro intendono i leaders, i capi, i già eletti, i pochi fortunati frequentatori del mitico Transatlantico, i politici di professione. E’ quello che pensano istintivamente anche La Malfa, Pannella, Biondi, Martino, Zanone, perfino De Luca e Nucara. Sbagliano, naturalmente, per mancanza di logica. Se noi liberal-repubblicani ci lamentiamo "di non avere una rappresentanza politica", come possiamo poi andare nei corridoi del Parlamento per tentare accordi? E’ una contraddizione di cui i liberali eletti non si rendono conto.
Fatto sta che i liberali veri, la massa (mi scuso, ma dobbiamo imparare a convivere con questo concetto orribile), che è paradossalmente il primo partito virtuale in Italia, stanno tutti fuori del Parlamento, nelle Università, nelle professioni, nelle arti, nelle aziende, tra l'insospettabile gente comune che non vota, oppure vota per tutti i partiti dell'arco politico.
Del resto, non per fare come la volpe e l’uva, ma un liberale professionista elettorale è già un piccolo ossimoro, una contraddizione. Ricordo che a 16 anni, giovane liberale, già ero, come i miei compagni liberali, contro il "professionismo della politica", e infatti leggevo articoli sulla Tribuna dello stesso tenore. Sapevamo tutti già allora che il Liberalismo non è un’idea qualunque, che viene e che va, imposta dall’alto da un politicante improvvisatore. Ma in fondo è una "norma di vita" anche individuale. O è nella società, oppuire non esiste. Il Liberalismo è dapprima cultura (meta-politica, diceva Croce) e poi politica. Ma il problema è che è penetrato talmente nella cultura di ogni giorno da essere diventato luogo comune, ovvietà, banalità. E le persone intelligenti, che potrebbero fare i nostri leader, non amano le banalità. Mentre si impegnarono a morte, cavourriani e mazziniani, nel Risorgimento, perché allora essere liberali significava avere idee forti, essere coraggiosi e anticonformisti, imprudenti, insomma rischiare di persona. Tutte cose che piacciono ai migliori. Ma oggi la politica non piace neanche ai liberali più ordinari.
Se nella società occidentale, già di per sé liberale (all'acqua di rose) anche senza il nostro aiuto o la nostra presenza in Italia, servono leader liberali ma non se ne trovano, è anche perché il discredito della politica, nonostante o forse proprio per i suoi privilegi, ha schifato talmente il nostro pubblico semplice, i liberali di base, che nessuno di loro pensa minimamente a fare attività politica.
Il che è insieme un segno buono e e un segno cattivo. Significa che non solo un genio, ma una persona normalmente intelligente non sopporta di essere messa in minoranza, come nel condominio del caseggiato, da dieci meno intelligenti di lui, ma più aggressivi e meglio coalizzati. Ma vuol dire anche che la borghesia appare rinunciataria e non è più disposta a battersi per le idee in cui dice di credere.
Il liberalismo, insomma, più ancora del conservatorismo e del socialismo, è penalizzato dall’equivoco luogo comune del suo presunto vuoto "moderatismo". Che è un errore storico, filosofico, ideologico. Durante i momenti topici, epocali, di svolta, mai i liberali si sono dichiarati aprioristicamente "moderati", ma sempre si sono mostrati decisi e progressisti, lasciando al libero gioco della lotta, cioè alla dialettica politica, la composizione necessariamente moderata tra tes e antitesi. E i cugini Radicali, gli unici intelligenti della famiglia (nonostante qualche errore del genio Pannella), questo lo hanno capito benissimo. Ma i loro "errori" sono semmai di eccesso crudele di selezione del personale (v. la vicenda Capezzone), di pan-politicismo, di decisionismo e di iper-comunicativismo. Il loro è un perfetto e professionale vivaio di classe dirigente laica e liberale. Appunto, perché ancora "eroica", "testimoniale", esemplare, risorgimentale. L'esatto contrario di liberali e repubblicani.
Ma, finché resta lo stereotipo, il liberalismo viene visto come una "idea inutile", con la quale o senza la quale tutto resta come prima. Del resto, guardiamoci negli occhi: vi battereste voi animatamente e con tenacia per un’idea per definizione "moderata", cioè che parte già con le ali tarpate nella tenzone politica, per di più condivisa da tutti?
19 giugno, 2008
Einaudi e Rossi si rivoltano nella tomba: ecco i privilegi dei petrolieri in Italia
Ammesso e non concesso che le misure del Governo attuale vadano a buon fine, non solo dal punto di vista finanziario, ma economico, cioè se le tasse in più comminate "per punizione" in mancanza di altri strumenti - come sostiene l'articolista - ai grandi redditieri fuori mercato non sranno scaricate sui consumatori, ebbene, saremo contenti perfino noi liberali che le tasse non le amiamo, ma che da Einaudi abbiamo appreso la funzione sociale e di giustizia del Liberalismo. Checché ne dica l'anarco-individualista Martino, che oggi protesta ma non ricordiamo di averlo sentito protestare ieri, quando i monopolisti accumulavano indebiti profitti, destinati dal mercato alla concorrenza liberale oppure ai risparmi dei consumatori.
IL MERCATO SONO I CONSUMATORI - Ma a noi liberali che cosa insegna questa vicenda? L'apologo finale è istruttivo per i tanti "liberali" improvvisati che provengono dal conservatorismo o dalla Destra. La lezione per loro è che i liberali, quelli veri, non sono aprioristicamente "a favore dei produttori", cioè "per le aziende", qualunque cosa facciano e in qualunque modo si comportino, come loro avevano finora creduto da neofiti. Questa vecchia vulgata popolare fu messa in giro dai comunisti e poi presa per vera dai conservatori.
I liberali sono, invece, oltre alla libera iniziativa, per le regole del mercato, cioè per la libertà e correttezza della competizione, per la libera concorrenza. Insomma, in teoria siamo nati per fare gli arbitri, non per parteggiare per questo (il datore di lavoro, come si credeva nel vecchio PLI, anche se Malagodi ne mise alla porta uno troppo arrogante) o quello (il lavoratore). Se dobbiamo scegliere, ribaltando l'intuizione gobettiana ("alleanza dei produttori") oggi sceglieremmo non i produttori, ma i consumatori, cioè tutti i cittadini. Sono loro, siamo noi, il mercato.
Ma il mercato, per essere davvero liberale, deve evitare le prepotenze di pochi, cioè ha bisogno del Diritto (il "braccio armato" del Liberalismo), regole semplici, certe, ma severe, come dimostrano le centinaia di arresti di managers furbi compiuti ieri a Wall Street, nel cuore della finanza degli Stati Uniti, dall'FBI, per lo scandalo dei subprimes.
Resta, però, rileggendo l'articolo, un sapore da tassazione di guerra, di imposte "speciali" o d'emergenza che non può piacere a noi liberali. Ma tant'è: il Governo vi è stato tirato per i capelli per rimediare agli imbrogli dei precedenti Governi di Sinistra e di Destra. Nicola Rossi (PD) sostiene che, a ben guardare, le misure contro i petrolieri sono poca cosa, una misura populistica, e non intaccano la loro rendita in modo strutturale. Siamo d'accordo.
NICO VALERIO
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"L'obiettivo di Giulio Tremonti è mettere fine ai finanziamenti pubblici alle fonti assimilate", scrive Ruggiero Capone sull'Opinione. "Le cosiddette 'false rinnovabili', che nel nome dei famigerati Cip6 dal 1992 riempiono le tasche dei petrolieri italiani. Del resto gli intrallazzi dei petrolieri li può stroncare solo il fisco. Infatti nei tribunali, grazie ai buoni uffici dei loro legali, la spuntano sempre: il Tar della Lombardia ha annullato (su ricorso di Moratti, Brachetti e Garrone) la delibera 249 dell’Autorità. Così l’Autority aveva annullato i contributi Cip6 ai petrolieri, ma il Tar ha sentenziato che la stretta di cinghia per gli speculatori è immotivata. Ne deriva che l’unico modo per colpirli è una tassa.
Va considerato che, dal 1992, l’80 per cento dei costi degli impianti dei petrolieri italiani pesano (e per legge) sulle spalle dei contribuenti. Una truffa da quasi 4 miliardi di euro annui, che arricchisce per legge la francese Edison, i Moratti, i Garrone, i Brachetti Peretti. Con la Finanziaria 2007 il governo Prodi s’era impegnato (non potendo annullare i contratti) almeno a escludere da questi incentivi ingiustificati le centrali private a petrolio. Ma incomprensibilmente la Finanziaria 2007 cambiava tragitto proprio sul capito delle decurtazioni ai Cip6. E nessuno ha mai sentito gridare allo scandalo Bersani né Pecoraro Scanio, che avevano proposto una blanda modifica ai Cip6.
Eppure l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas aveva emesso a novembre la delibera 249, che chiedeva un risparmio annuale di circa 250 milioni di euro per le tasche degli italiani. Ma evidentemente al vecchio governo premeva più la salute finanziaria di Edison, Saras (Moratti), Isab (Brachetti), Erg (Garrone) e compagnia cantante. Al punto che le malevole voci di corridoio parlano ancora delle congratulazioni fatte da un deputato della vecchia maggioranza ai petrolieri, ed all’indomani della sentenza del Tar Lombardia che dava ragione a Moratti e bella compagnia.
Ecco il principale scoglio al nucleare in Italia: l’energia prodotta dalla centrale dei Moratti viene tutta comprata dall’ente pubblico. Saras è la più grande raffineria di petrolio del Mediterraneo per capacità produttiva: 15 milioni di tonnellate l’anno di petrolio grezzo trattato, che per la maggior parte viene da Libia e Mare del Nord. Tra i clienti Shell, Repsol, Total, Eni, Q8, Tamoil. Moratti ci guadagna 5,5 miliardi di euro annui.
Intanto l’impianto brucia 150 tonnellate di petrolio l’ora: oltre a CO2, ossidi di azoto ed emissioni varie, a fine anno dalla combustione risultano 1.400 tonnellate di scarti tra zolfo e concentrati di metalli (dal vanadio al nichel). Potremmo parlare di mercato vincolato da un unico soggetto privato, i Moratti. Così dal 1995 (anno della joint venture tra Saras ed Enron) chi illumina le case degli italiani è obbligato a comprare energia dai Moratti. Ma Garrone, Moratti, Peretti e bella compagnia speculano anche sui combustibili per autotrazione.
Secondo le ultime rilevazioni del ministero per lo Sviluppo economico, in termini assoluti il prezzo industriale della benzina italiana è stato in media di 0,684 euro al litro. Invece per il gasolio (sempre ragionando sul prezzo industriale assoluto) siamo primi con 0,822 euro al litro. I prezzi più alti d’Europa, anche se in Italia i costi di lavorazione sono più bassi che in altre parti dell’Ue.
Da qui comprendiamo che la Robin Hood Tax dovrebbe incidere sui profitti straordinari delle compagnie petrolifere. Il provvedimento mette in atto gli ostacoli ai meccanismi speculativi. Il ministro Tremonti ha infatti ricordato che il prezzo del greggio è “la somma di un barile di petrolio più una bottiglia di champagne, a causa di chi ha perso coi derivati e vuole rifarsi speculando sul petrolio”. La Robin viene introdotta con un meccanismo virtuoso, ed entra nel novero delle tasse “generalizzate non distorsive”. Verrà applicata a tutti i petrolieri.
Il principio di neutralità e le finalità della tassa sono in perfetta linea con quanto auspicato dalla Commissione europea.La misura viene così inserita nel cosiddetto “pacchetto di fine mese” che, insieme con il Dpef, conterrà il noto piano di riduzione del deficit. In pratica la Robin viene partorita insieme alla correzione del disavanzo di 30 miliardi in tre anni. Quindi fa parte della famiglia dei provvedimenti che assicureranno il pareggio di bilancio entro il 2011: nel pacchetto ben l’80 per cento di misure di tipo sociale. Lo stesso ministro dell’Economia ha così commentato la proposta “è tassare un po’ di più i petrolieri per dare un po’ di più a chi ha bisogno, ossia burro, pane e pasta: l’Italia può e deve farlo da sola”.
Nelle parole di Tremonti una grande verità: si tratta di quei provvedimenti che ogni stato europeo deve prendere per proprio conto, e perché non ricadono sugli altri. “La gente non può aspettare, vuole subito un risultato su benzina ed energia - ha sottolineato Tremonti. Qualcosa di simile sul petrolio è stato fatto in Inghilterra nel 1997, ma è vero che nella storia appaiono, a fronte di fenomeni straordinari, delle forme straordinarie di tassazione”. Intanto nelle alte sfere in molti parlano di provvedimenti impopolari nei riguardi dei poteri forti".
RUGGIERO CAPONE