01 luglio, 2018

 

Utopia di Ventotene. Non “egoismi”, ma Storia e naturali interessi contro l’Europa dell’ipocrisia.

Una nuova e disastrosa guerra europea sta iniziando nei primi anni Quaranta, e gli intellettuali liberali e socialisti democratici, disgustati da Fascismo, Nazismo e Comunismo sovietico, visti come le ultime malattie dell’Europa, continente sconvolto dalle guerre per secoli, elaborano il progetto di una nuova Europa pacificata e federata.
      Il "Manifesto di Ventotene" sulla nuova Europa federale di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli (1941), edito con una partecipata presentazione da Eugenio Colorni (1944), rappresenta la visione anticipatrice di tre grandi idealisti a cui dobbiamo essere grati per la rettitudine e la dedizione a una nobile causa, un desiderio comprensibile di pace e collaborazione tra i Paesi dopo una guerra sanguinosa. Per di più, l’Europa post-bellica è ancora lontana dalla “democrazia di massa” o piuttosto “società di massa”, che darà voce per la prima volta nella Storia ai veri interessi e voleri delle persone qualunque, quelle poco colte e poco intelligenti, certo, ma attente soprattutto al proprio borsellino, alla propria tranquillità personale e al proprio campanile. Tutte virtù sensate, naturali e legittime, sia chiaro, ma che giudicate in una visione romantica non appaiono esaltanti alle éelites illuminate liberali, cattoliche, socialiste.
      Inevitabile la distanza, l’incomprensione tra élites, spesso formatesi in lunghi studi appartati o all’estero, e il popolo. Perciò se il primo grave errore lo si può imputare a quegli uomini generosi (non tener conto della realtà psico-sociologica che li circondava già allora, ma anche del passato, della Storia, delle scienze dell’Uomo, che è sempre un grave “reato” intellettuale per gli intellettuali), forse non può essere addebitato il secondo: non aver saputo prevedere la degenerazione in Europa della grande Democrazia Liberale una volta morti i totalitarismi; ma prima ancora l’applicazione del suffragio universale a milioni di masse impreparate e ineducate, senza occuparsi di un programma radicale di scolarizzazione ed educazione.
      Ma se anche restasse valido solo il primo capo di “imputazione”, possiamo chiederci: erano davvero lucidi o non semplicemente passionali o emozionati dagli eventi quei grandi Uomini?
      Già pensare che quella, come la precedente, fosse una guerra fratricida era un errore storico, pura retorica scolastica, ipocrisia. Eravamo veri nemici, invece, e da sempre. Per tacere dei Germanici (tedeschi e austriaci) che avevano scorrazzato ogni anno per secoli lungo la Penisola mettendola a ferro e fuoco come facile e imbelle terra di ricchezze e di facili titoli da conquistare, che cosa avevamo noi Italiani da spartire con i Francesi, che una melensa retorica unidirezionale (solo italiana…) considera “i più vicini”, i quali, per passar sopra a secoli di sopraffazioni, avevano perfino combattuto sul Gianicolo nel 1849 i nostri gloriosi giovani liberali per proteggere il Papa reazionario, invadendo Roma e spadroneggiandovi con l’arroganza e l’infondata aria di superiorità rimaste proverbiali? Nulla, proprio nulla. Noi che, a riprova, saremmo poi riusciti abilmente a entrare in Roma e a completare l’Unità d’Italia solo per la momentanea disattenzione dei Francesi.
      Che restava di comune dopo tanti scontri secolari? Solo remoti ricordi culturali, il latino, le grandi strade create dai Romani 2000 anni fa, qualche ponte o acquedotto romano rimasto in piedi. Ma in quanto a politica, eserciti, classi dirigenti, cultura, usi e abitudini, quasi nulla. E già nel Medio Evo era così e poi in tutti i “secoli bui”. Tanto più che Francesi, Tedeschi e Spagnoli ci avevano depredato di ricchezze e opere d’arte, come veri e propri nemici che non solo combattono, ma disprezzano e considerano inferiori, non senza qualche ragione, chi è “incapace di combattere” e di “difendere la propria Patria”, non solo per viltà cristiana essendo terra di Papi, ma per comodo quieto vivere opportunistico e meschine lotte intestine, come ricorda perfino l’Inno di Mameli.
      A guerra finita, l’economista liberale Luigi Einaudi ha una visione da utopista quasi anarchico, una Federazione di Stati Europei che dovrebbe addirittura cancellare l’ “idolo immondo dello Stato sovrano”. Einaudi non è un grande scrittore, e a differenza di Croce non maneggia le parole con la proprietà e l’attenzione di altri scrittori liberali. Però le sue sono davvero parole grosse:
      Ma dall'Anti-Stato, tipico estremismo liberal-radicale, si arriva all'Anti-Patria, dimenticando un non marginale particolare: che la Libertà dei Liberali nasce proprio - paradossalmente, direbbero i radicali - con la "invenzione" da parte del Liberalismo dello Stato come entità indipendente dal Re, che per secoli aveva potuto dire: lo Stato sono io, tutto quello che c'è nei miei territori mi appartiene. Meraviglia, perciò che i divinatori illuministi del Manifesto di Ventotene, tanto più quelli di più marcato spirito liberale, non si accorgano di questa contraddizione che smentisce le origini stesse delle lotte liberali. Così, sbagliavano a definirsi "senza Patria". Oggi anche il liberale crociano Corrado Ocone rileva magistralmente questa contraddizione in un articolo che condivido totalmente.
      E già il giovane Leopardi, in una bella pagina dello Zibaldone (3 luglio 1820, quindi ben prima dei moti del Risorgimento) che oggi suona come geniale e preveggente intuizione, mette in guardia dai rischi di sposare l'ideologia puramente razionale e illuministica dell'Universalismo e del Cosmopolitismo. Gli uomini senza Nazione, senza Patria, senza Storia e senza Identità sarebbero certamente come atomi slegati tra loro meno protetti, più soli, quindi più deboli davanti ai Poteri, più facile preda degli Autoritarismi e Prepoteri di ogni sorta, dai super-Stati continentali che ne deriverebbero - integriamo noi - alle religioni, soprattutto quelle fanatiche che esportano terrorismo, ai grandi imperi finanziari trans-nazionali, ai grandi speculatori sui mercati borsistici (oggi raggoiungibili da ogni luogo via computer), fino allo stesso mostro di un "mercato" da burletta, quella una anonima globalizzazione economica senza padri e senza Patrie che smentisce l'equivalenza liberale nei diritti tra Offerta e Domanda, tra produttori e acquirent (cfr. Einaudi in Lezioni di Politica Sociale), e vede nei cittadini solo dei passivi e succubi "consumatori", privi di ogni potere perfino giuridico, quello che invece assicuravano bene o male i forti Stati nazionali deprecati non solo dall'ideologia sottostante del Manifesto di Ventotene, ma anche da molti liberali.
      Invece, l'utopia anti-storica dell'Universalismo illuministico prevalse nel Manifesto di Ventotene. «Altra via d’uscita non v’è, fuor di quella di mettere accanto agli Stati attuali un altro Stato. Il quale abbia compiti suoi propri ed abbia un popolo “suo”. Invece di una società di Stati sovrani, dobbiamo mirare all’ideale di una vera federazione di popoli, costituita come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione Elvetica. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere scelti dai singoli Stati sovrani, ma debbono essere eletti dai cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli Stati restano sovrani per tutte le materie che non siano delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi punti che sono gli essenziali e da cui si deducono altre nume-rose norme. Entro i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute gigantesche le forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare; finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l’idolo immondo dello Stato sovrano» (Luigi Einaudi, in “Il Risorgimento Liberale”, 3 gennaio 1945).
      Certo, lo smarrimento, la depressione d’un Dopoguerra così drammatico, giustificano questo volo idealistico e utopico. Ma la Storia precedente, Storia di molti secoli, e i bisogni dei popoli europei avrebbero dovuto consigliare più prudenza.
      Queste considerazioni vengono in mente ora, in tempi di dissoluzione di quell’embrione immaturo che è la cosiddetta Unione Europea, parzialissima e difettosa burocrazia super-pagata estesa prematuramente a troppi Paesi periferici che poco o nulla hanno in comune con la tradizione dell’Europa classica, solo per far numero e simulare artificialmente una “massa critica”.
      Una “Unione” divisa come sempre, da secoli, che vede in economia, immigrazione, eserciti, accordi industriali strategici, commerci e politica estera il prevalere sistematico degli interessi nazionali (“egoistici” li chiamano i Cattolici e i post-marxisti che ormai sono tutt’uno; ma il termine è sbagliato: la Politica non è il Catechismo) dei soliti Paesi, più forti non perché sempre con i conti economici in pareggio, ma perché più prepotenti, come Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Interessi, sia ben chiaro, che ormai sono veri e propri caratteri di cui bisogna tener conto – guai a definirli moralisticamente “vizi”, alla cattolica – caratteri naturali e antichi, comunque ben lontani dalle utopie del Manifesto di Ventotene e, quel che è più grave, dalla retorica mistificatoria e “buonistica” dagli Europeisti convinti di oggi, quando ormai tutte le prove provate di politica, economia, costume e psicologia dei Popoli sono a disposizione di chiunque.
      Con questa nota prendo definitivamente le distanze dal mio utopistico “europeismo” di adolescente liberale già colto, certo, ma che scambiava, com’è tipico di molti giovani generosi dotati di passione ideale e politica, i desideri con la realtà, l’essere con l’ideologico dover essere. Un ottimismo nutrito di una certa ignoranza e immaturità, dato che non conoscevo ancora la vera natura psicologica e utilitaristica dei vari Popoli europei e l’ipocrita, falso, sentimento unionista dei ceti politici del Continente. Tutti dati, però, che se non a un adolescente idealista, agli sperimentati adulti di valore ed esperienza come Spinelli, Schumann, De Gasperi, Martino e agli altri teorici visionari e pratici costruttori dell’Europa dovevano cominciare ad essere ben chiari, in tempi di ritrovata democrazia e di più frequenti comunicazioni internazionali.
      Ma anche nel caso che dall’alto delle proprie posizioni di Governo avessero intravista o prevista, ma sottovalutata come “facile da superare”, la meschina ma naturale componente egoistica, campanilistica e centripeta dei popoli europei, ebbene, quale “Democrazia liberale” immaginavano, se si permettevano di assegnare alle élites al Potere al momento delle decisioni un ruolo illuministico, “educativo”, coercitivo così forte da essere, a differenza dell’Ottocento e del Risorgimento italiano, ormai incompatibile con la moderna democrazia di massa?
      Eppure, quella dei primi anni Cinquanta, prima ancora del Trattato di Roma del 1957, era, ma loro non lo sapevano distratti com’erano dalla dipendenza economica dagli Stati Uniti e dalla diatriba con l’URSS e con le quinte colonne interne dei partiti comunisti contratissimi all’Europa, la prima e l’ultima occasione storica degli Europeisti. Altro che timidi Euratom e CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), col senno di poi era proprio la Federazione Europea, il vero super-Stato politico ed economico, col suo esercito, immaginato da Einaudi e Spinelli, che con un folle colpo di mano avrebbero dovuto realizzare, mettendo il Mondo di fronte al fatto compiuto. Ma questo non fu fatto per eccesso di prudenza e mancanza di quel Genio che avevamo avuto nell’Ottocento. 
      Così, quando fu realizzata la UE a Maastricht nel 1992, ancora in modo limitato e parziale, era già tardi, troppo tardi. E come se non bastasse, tali e tanti sono stati gli errori, tale il peso della non-decisione (o del decisionismo burocratico più minuzioso) nei campi più importanti e più disparati, che l’idea, la stessa parola dell’Europa ha finito per disgustare i popoli. Ora siamo addirittura alla reazione popolare diffusa, all’anti-europeismo. La gente ha avuto il tempo di pensare a storie patrie troppo diverse e divergenti, alle tante guerre europee all’ultimo sangue durate secoli. E contro i Popoli uno Stato non può nascere. L’Europa non si farà mai.


IMMAGINE. Mi conforta che anche Luca Ricolfi, sociologo ed editorialista di vari giornali, e il liberale crociano Corrado Ocone, con cui quasi sempre concordo, non ritengono il Manifesto di Ventotene un modello per noi cittadini dell'Europa di oggi.

AGGIORNATO IL 21 GENNAIO 2020

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