20 dicembre, 2011
L’ateo ribelle nemico dell’oscurantismo: da suor Teresa di Calcutta agli “islam-fascisti”
Christopher Hitchens è morto, e la fine di qualsiasi altro giornalista, scrittore o polemista che avesse scritto o detto metà delle sue frasi assassine (è un complimento) ispirerebbe ora probabilmente turbamento, in qualche caso sollievo, o silenzio. Invece «Hitch» era talmente bravo da essere fino all'ultimo, e sempre di più, amato, ammirato, in malattia coccolato e - tra le persone meno vicine alle sue idee - ricoperto da quell'affetto incondizionato che si prova per un figlio forse impertinente, ma in fondo ricco di così tanto, tanto talento.
Da quando il sito di «Vanity Fair» ha annunciato, ieri mattina, che il 62enne Hitchens, malato di cancro all'esofago, aveva chiuso gli occhi per sempre, lo stesso mondo che si appresta a celebrare il Natale piange per la perdita dell'uomo che se la prese violentemente e ripetutamente - tra gli altri - con la Chiesa cattolica, quella mormone, la festa ebraica della Hannukah, quella cristiana del Natale (appunto) e Madre Teresa di Calcutta (titolando il libro, con blasfema genialità, La posizione della missionaria ), e si avventò contro lo scarso senso dell'umorismo delle donne, e poi attaccò Henry Kissinger, Bill Clinton, Fidel Castro, Cindy Sheehan (la mamma pacifista ostile alla guerra in Iraq, lui era a favore), Benedetto XVI, naturalmente gli «islamofascisti» e infine, con coerente e felice scelta di tempo, Dio.
Christopher sarebbe probabilmente il primo a sorridere nel vedersi oggi così beatificato, lui che ha fatto dell'ateismo militante la sua ultima grande battaglia, e della lotta contro le religioni la naturale prosecuzione dell'insofferenza verso tutti i totalitarismi. L'ondata di emozione planetaria per «Hitch», l'ateo che rischia curiosamente di diventare un santo della laicità, ricorda in parte, almeno nei modi se non nei numeri, quella che accompagnò il 5 ottobre scorso l'addio a Steve Jobs. E come allora, la grandezza dell'uomo e del suo ruolo si ricostruiscono anche grazie all'affetto dimostrato nelle ultime ore dai compagni illustri e dagli sconosciuti.
Il suo migliore amico Martin Amis, che Hitchens definì «la sola bionda di cui mi sono mai innamorato», in un dibattito sarebbe stato sempre dalla sua parte, sicuro di vincere, «anche contro Cicerone o Demostene». Salman Rushdie ha scritto ieri su Twitter: «Arrivederci mio grande amico. Una grande voce si è spenta, un grande cuore si è fermato». Fu in difesa di Rushdie contro la fatwa degli ayatollah che Hitchens fece il suo debutto retorico contro l'integralismo islamico e l'oscurantismo religioso, rimasti poi tra i nemici preferiti per tutta la vita. «Hitch» ospitò Rushdie nella sua casa di New York, e non ebbe dubbi nello schierarsi perché «era questione, se posso dirlo così, di tutto quello che odiavo contro tutto ciò che amavo - ha scritto poi nella sua autobiografia Hitch 22 -. Sotto la colonna odio: dittatura, religione, stupidità, demagogia, censura, prepotenza e intimidazione. Sotto la colonna amore: letteratura, ironia, humor, l'individuo e la difesa della libertà di espressione».
In onore di Hitchens l'attore e scrittore Stephen Fry ha organizzato un mese fa a Londra una serata pubblica con il compagno di lotte anticlericali Richard Dawkins e l'altro grande amico Ian McEwan, in collegamento Internet con l'ospedale di Houston dove stava tenendo compagnia al malato; negli stessi giorni è circolato su YouTube un commovente video con decine di ragazzi che brindano «To Hitch», alla salute del loro eroe.
Ian Buruma colse un aspetto fondamentale del personaggio quando scrisse sul «New Yorker» che «Christopher, più che essere un uomo di azione, è alla continua ricerca del momento decisivo, come lo fu per altri la Guerra di Spagna: il momento in cui decidi di stare dalla parte giusta, e di affrontare il nemico».
Accanto a questa testardaggine nel distinguere continuamente tra male e bene, al romantico attaccamento alla verità terrena che gli fece abbracciare cause controverse - come la guerra in Iraq - pentendosene molto raramente (fu capace però di abbandonare il trotzkismo frequentato in gioventù), Hitchens è così amato forse anche perché era colto, severo e impegnato nelle cause importanti, e allo stesso tempo ironico, leggero e beffardo in faccia all'esistenza.
«Hitchens - scrisse di lui Ian Parker, anni fa - conduce la vita che un tredicenne sveglio sognerebbe di fare una volta diventato adulto: si sveglia quando gli pare, lavora da casa, è sposato a una donna che porta scarpe leopardate con i tacchi e sta a chiacchierare con gli amici fino a notte fonda. Arrivo a casa sua poco dopo mezzogiorno, Hitchens mi accoglie decretando che "è l'ora di prendere un cocktail" e ne serve a entrambi una dose abbondante. I capelli gli cadono sugli occhi e li scosta con un leggero movimento della punta delle dita, dritte come quelle di un modello».
Negli ultimi mesi «Hitch» non ne aveva più, di capelli, per colpa della dolorosissima chemioterapia ricevuta a «Tumortown», come chiamava l'ospedale di Houston dove è morto e dove - nonostante gli auspici di tanti - non si è convertito all'ultimo momento. L'autore di Dio non è grande ci ha lasciati; e se per caso si fosse sbagliato e ora si trovasse in cielo, non vorremmo essere nei panni del padrone di casa.
STEFANO MONTEFIORI (da Corriere.it)
IMMAGINE. La copertina del libro La posizione della missionaria. Teoria e pratica di Madre Teresa. ed. Minimum Fax. Una recensione da leggere è quella di Giovanna Zucconi sulla Stampa del 17 dicembre 2002. Era la prima edizione italiana, poi aggiornata.
11 dicembre, 2011
Tasse ed evasori. Altro che “liberismo”, la borghesia italiana è piena di criminali sociali
Può un cittadino in uno Stato liberal-democratico – fondato sul consenso popolare preventivo e postumo, tramite votazione di legislatura sulla base dei programmi dei partiti – auto-ridursi le imposte da pagare, opponendo o che “sono eccessive” o che “non corrispondono ai mediocri servizi statali resi”? Può, insomma il cittadino protestatario, che pur doveva conoscere – abbia votato o no – le politiche economiche e fiscali del Governo o almeno le intenzioni dei legislatori di maggioranza, farsi giustizia da sé non pagando le tasse e infrangendo così la legge?
No, non può, a meno che non ricorra ad una consapevole forma di disobbedienza civile, pagandone tutte le conseguenze, ma facendo anche pubblicità alla propria tesi di politica fiscale o economica, e magari battendosi perché in futuro le proprie idee diventino maggioranza. Ma finché è in minoranza, deve continuare a rispettare le vecchie leggi e i vecchi regolamenti, anche se li ritiene sbagliati, ingiusti. Perché il rispetto della Legge, delle regole, da parte di tutti è in uno Stato liberale un cardine perfino superiore – ed è tutto dire – al tasso di liberalismo dei programmi e delle azioni del Governo. Perciò la disobbedienza è un atto grave, che se diffuso porta alla dissoluzione dello Stato e al discredito del sistema democratico (in cui chi ha meno voti deve ugualmente rispettare le leggi votate da chi ha più voti), e comunque denuncia un distacco profondo tra il cittadino e la Patria. Non per caso il rifiuto di pagare le tasse è stato nella Storia motivo di scontri violenti e di guerre (es. la “Guerra del tè” tra il Regno Unito e la sua colonia americana.
Perciò, spiace riconoscerlo, il presidente di Equitalia e direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, un semplice funzionario dirigente, sa di liberalismo più di molti sedicenti “liberali”, “liberisti” e “libertari” che albergano nella Destra italiana, alcuni infiltrati perfino tra i Radicali (la cosiddetta “corrente Luiss”).
Secondo loro, le tasse sarebbero sempre un male, di per sé, e se poi vanno oltre il 30% rivelano uno “Stato padrone”, inefficiente, corrotto e autoritario, diciamo “socialista”. E questo indipendentemente dalla qualità dei servizi resi dallo Stato. Che in Italia, non abbiamo difficoltà a riconoscerlo, appaiono mediocri, quando non pessimi.
Ma questo è un problema politico generale, non di disobbedienza individuale. I cittadini del partito “Low Tax” si uniscano, diano luogo ad un soggetto politico forte, imparino a diffondere dappertutto e in modo convincente le proprie idee, in gran parte condivisibili, facciano in modo di divenire maggioranza nel Paese, e se hanno fatto bene i loro calcoli finanziari, avremo finalmente uno “Stato efficienze con poche tasse”. Ma dal livello intellettuale e politico di questi protestatari e commentatori non si direbbe proprio che possano diventare un giorno classe dirigente di maggioranza.
A nessuno, è ovvio, piace pagare le tasse, neanche in Svezia, tantomeno in tempo di crisi economica e finanziaria. Ma solo agli Italiani sfugge che se tutti pagassero le tasse, cioè se fossero onesti, tutti ne pagherebbero molto di meno. Del resto, non possiamo negarlo: abbiamo una secolare tradizione di disonestà diffusa, pubblica e privata, e, quello che è più grave, tollerata socialmente.
Certo, il gigantismo dello Stato moderno che vuole occuparsi di tutto (in Italia, fino a pochi anni fa esisteva perfino il panettone di Stato), l’inefficienza e corruzione dei funzionari pubblici, mangiano soldi, troppi soldi, che poi richiedono nuove tasse. E in Italia esageriamo: le tasse servono anche per ripianare i finanziamenti che lo Stato dà ai giornali, all’opera lirica e ai produttori eccedenti di latte, oppure alle salatissime multe della Unione Europea sulla caccia o la giustizia. Certo, il sistema fiscale nei Paesi evoluti d’Europa è diverso: tutto è deducibile, cosicché è la catena stessa di vendite e prestazioni professionali che riduce l’evasione. E se scoperti gli evasori vanno in galera per lunghi anni, altro che multe.
Ma che ci vogliono fare gli anarchici super-libertari del “No Tax” se in Italia la gente vota partiti di Destra o Sinistra, Berlusconi o Prodi, che non solo non riducono le tasse, ma anzi le aumentano, per compensare l’enorme spesa pubblica in favore della Casta politica, della Casta religiosa, e per le ben note ragioni elettoralistiche? La rivoluzione, il terrorismo dei pacchi-bomba al direttore dell’Ufficio delle Imposte? Suvvia, questa è solo criminalità comune, neanche politica.
Non sarebbe meglio, piuttosto, tornare alle idee, e costruire una alternativa politica seria, riunendo i liberali di ogni partito e tendenza esclusivamente in base alle idee liberali, non al carisma di un uomo, o alla stupida scelta Destra-Sinistra (che non significa nulla in politologia), per dar luogo al primo partito in Italia (e da indagini demoscopiche sarebbe oltre il 35% della popolazione) che potrebbe realizzare finalmente uno Stato minimo e laico, non “ultra-liberista” (che non può esistere), non distruttore (con la scusa di “privatizzare”) della Natura, della Cultura e dell’Arte, ma davvero liberale in tutto, anche nell’aiutare i cittadini ad esprimere i loro diritti di libertà e realizzare i loro progetti?
Macché, non sapendo fare politica liberale, quei libertari si limitano a fare il panegirico di chi disobbedisce alle leggi, di chi non paga le tasse. E difendono gli evasori.
Fatto sta che l’evasione in Italia è colossale. “E’ quintuplicata negli ultimi 30 anni, dai 54 miliardi del 1981 ai 275 di oggi. E in mezzo abbiamo avuto ben tre condoni fiscali e tre “scudi”, scrive Sergio Rizzo in un articolo sul Corriere. “I contribuenti italiani che dichiarano al Fisco oltre 200 mila euro sono 77.273, pari allo 0,18%. Come questo dato si possa conciliare con quello delle 206 mila auto di lusso (costo medio, 103 mila euro) vendute ogni anno nel nostro Paese – prosegue Rizzo – è francamente incredibile”. L'Herald Tribune ha scritto che è il nostro vero sport nazionale. Che vergogna! L’evasione “vale dieci volte la manovra del governo Monti” scrive Lorenzo Salvia in un bell’articolo sul Corriere. “E quindi basterebbe non solo a evitare le lacrime di un ministro e di milioni di italiani ma anche a mettere per sempre in sicurezza i nostri conti pubblici. Stima l'Istat che in Italia in un anno l'evasione fiscale e il sommerso raggiungano i 275 miliardi di euro. È la stessa cifra che fattura l'industria mondiale del legno, oppure quella nazionale (ma fiorente) della corruzione russa. Tradotta in denaro sottratto al Fisco sono 120 miliardi, secondo il direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera. I lavoratori autonomi o gli imprenditori che dichiarano la metà del loro reddito reale nascondendo al Fisco più di 15 mila euro a testa. E, soprattutto, i proprietari di case, negozi e appartamenti che dalla dichiarazione tengono fuori oltre l'80% delle loro entrate, quasi 18 mila euro ciascuno”.
Voi pensate che questo indigni cortei di indignados? Pensate che i vari Grillo, Di Pietro, Pannella, ed altri protestatari di professione, se la prendano mai con i concittadini disonesti? No, mai. Solo contro i Governi, lo Stato. In Italia il cittadino non sbaglia mai, è sempre giustificato, poverino. La colpa è sempre dell’altro cattivo, specialmente se potente: lo Stato, la Regione, il Comune.
Credete che qualcuno dei comuni cittadini denunci i concittadini criminali che li obbligano a imposte più alte? Macché, neanche per sogno. E invece, ecco un’ottusa campagna dapprima contro il Governo per la “privacy violata” con le intrusioni sul conto bancario, efficace mezzo di contrasto verso i criminali fiscali (v. articolo di Giuditta Marvelli), poi l’indignazione non contro i concittadini evasori, ma contro gli… esattori. Sembra di essere tornati al popolino ignorante e cieco della Roma dello Stato Pontificio descritta nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, o alle plebi meridionali del Regno delle Due Sicilie. Così, la campagna di esagitati contribuenti su internet è culminata addirittura in un attentato (il dr. Cuccagna ferito da un pacco-bomba).
Ma questo Befera, in fatto di liberalismo ne più dei sedicenti “liberisti-libertari” del menga. Nell’intervista il giornalista gli chiede: «E’ illiberale la fine del segreto bancario?» E Befera così risponde: «Intanto, il segreto bancario non è mai stato assoluto. La magistratura ha sempre potuto accedere alle informazioni, specialmente nel contrasto al riciclaggio. Lo stesso vale per l'Agenzia a fini di accertamenti su soggetti precisi. Ora, grazie a un'apertura introdotta nella manovra di luglio (da Giulio Tremonti, ndr ) e consolidata nel decreto ora all'esame del Parlamento, l'Agenzia supera il segreto bancario in via preliminare. È certo una misura assai forte. In molti Paesi occidentali il segreto bancario è attenuato. E però nessun altro Paese, a parte la Grecia, ha il nostro livello di evasione. Il tasso di liberalismo si confronta con l'osservanza della legge. Questo è il Paese dove molte imprese, specialmente nell'edilizia, non pagano imposte e contributi, vengono fatte fallire dal proprietario che riemerge poi con nuova ragione sociale e ricomincia».
Capito che lezione agli evasori sfacciati e a certi contribuenti che spacciano la loro furberia, nientemeno, per “super-individualismo libertario e liberista”?
D’accordo, non è lecito incrudelire contro i criminali (“Nessuno tocchi Caino” si chiama un club radicale), ma uno Stato liberale non può equiparare i cattivi ai buoni, cioè agli onesti cittadini che rispettano le leggi e pagano le tasse. Altrimenti saremo costretti a fondare “Nessuno tocchi Abele”! Perfino il mercato premia gli onesti, e volete che non lo faccia uno Stato liberale?
A nessuno, ripetiamo, piace pagare le tasse, ma l’evasione di massa della classe media in Italia è un doppio crimine, contro le finanze dello Stato e contro i concittadini, in tal modo costretti a pagare più tasse per l’evasione dei furbi. Furbi e arroganti, perché in molti casi spacciano questo comportamento criminale come un atto di protesta, di disobbedienza civile, addirittura. E come alibi vanno cianciando perfino di “No taxation without representation”, slogan sacrosanto se detto dai coloni americani che si opponevano alle tasse imposte da Londra prima dell’indipendenza, ma cretino se applicato all’Italia di oggi in cui tutte le imposte sono decise per legge dai rappresentanti dei cittadini. Questo per dire a che punto di imbrogli sottoculturali arrivano le Destre pseudo-liberiste e libertarie in Italia.
Ma perché da noi la borghesia è così imbrogliona e arrogante? Facciamo un passo indietro. In un Paese che non ha avuto purtroppo la Riforma protestante e la rivoluzione liberale, in cui la stragrande maggioranza della popolazione era contadina fino a 60 anni fa, in cui la Chiesa e i nobili più arretrati e ignoranti hanno comandato nel modo più assoluto e ottuso fino a 150 anni fa, col nefasto ventennio del Fascismo di mezzo, il cinquantennio clericale e il pericolo incombente del Comunismo, insomma in un Paese senza vera borghesia come l’Italia, che spazio c’era per la borghesia?
Eppure, come nei Paesi del Terzo Mondo, come in Grecia e in Algeria, una certa globalizzazione di modelli e valori ha fatto sì che un simulacro di borghesia, comunque, nascesse.
Ma che borghesia è questa non-borghesia? E anzi, in che modo il cittadino post-contadino o pre-borghese è potuto diventare all’improvviso “borghese”? Col metodo antico e tribale con cui si crearono le prime “aristocrazie”: l’arricchimento, con ogni mezzo e a qualunque costo, senza regole che non siano la forza materiale o la forza del denaro. Altro che “doveri” sociali e individuali enunciati dai liberali e repubblicani del Risorgimento.
Càpita così che la prima misura di autodifesa per l’ex povero arricchito o di chi eredita i beni di famiglia sia l’atto asociale e anti-sociale, dunque criminale, di non pagare le tasse. Eppure si pretendono, eccome, servizi dallo Stato. Eppure si spreca come in nessun altro Paese europeo la cosa pubblica per i nostri fini individuali.
Così un “borghese” potenziale (ci piange il cuore di dover usare questa parola, altrove onorata) di prima nomina, sia esso commerciante o avvocato, idraulico o dirigente di Enti di Stato, dentista o meccanico, artigiano o industriale, come primo atto del suo programma di arricchimento rapido e senza scrupoli, deciderà di pagare meno tasse possibile. Perché sono alte, troppo alte, si sa. E dunque si fa “ingiustizia” da sé. E anzi, chi riesce a farlo in modo radicale è considerato bravo, furbo, un dritto, insomma. E non contenti di ciò, questi pseudo-borghesi del crimine sociale continuano pure a sparlare dello Stato e della classe politica, rea di avere stipendi alti (mai come i propri, comunque), auto blu (mai come le proprie), e a pagare poche tasse. Come loro stessi, appunto.
01 dicembre, 2011
Ritorna la “borghesia”. Ma non era morta? I politologi che continuano a non capire
La borghesia è morta e sepolta. Macché, è viva e vegeta, e lotta insieme a noi. Tant’è vero che “ritorna”, come intitolava il Corriere della Sera, che di queste cosette dovrebbe intendersene. Non fa in tempo ad insediarsi un Governo “tecnico” (come se potesse esistere un Governo non politico…) che scattano tra gli intellettuali i riflessi condizionati del buon Pavlov, buonanima. Primo tra tutti la vexata quaestio della borghesia come “classe dominante”.
E, a proposito di russi, o sovietici d’antan, poiché nel dopo Berlusconi c’è da aspettarsi di tutto, tranne che il ritorno alla Ragione e alla normale dialettica politica degna di un Paese liberale, ecco che su internet e Facebook tanto una certa sottocultura di Sinistra, piuttosto nostalgica anzi che no, quindi ottusa, quanto la sottocultura di Destra degli amici e degli affaristi (non che voglia equipararle, perché c’è sempre il peggio del peggio), più ottusa che nostalgica, ricominciano con i loro sbagliatissimi tic interpretativi da sezione di partito negli anni ‘50.
“Borghesia-2: la vendetta”? Ma non diciamo sciocchezze. “Ritorna”? La cosa sembra l’inizio della fine, anziché la fine dell’inizio, per alcuni amici bloggers. Ma ci casca, tanto per fare un buon titolo giornalistico, anche il Corriere. Perché, quella che c’era prima, sotto Berlusconi e sotto Prodi o D’Alema, che cos’era, lumpen-proletariat? Macché, neanche la prole ha dato, visto il gap demografico: ha solo “preso”.
E davvero certi “intellettuali” (ma bisogna finirla di considerare un qualsiasi blogger o commentatore di giornali o professore di per sé un “intellettuale”, secondo Max Weber) non riescono a distinguere tra borghesia minuta, media e grande, tra ceti parassitari che vivono alle spalle dello Stato e degli altri cittadini, meglio ancora se grandi “boiardi”, e il ceto impiegatizio e i gradi bassi e medi delle professioni, dei commerci e perfino di certa piccola industria, che al contrario questa crisi stanno patendo sulla propria pelle.
E allora, non è che i parassiti e i privilegiati sono in realtà, oggettivamente, contro la borghesia del merito, del lavoro e della concorrenza, quel vastissimo ceto medio, tipico ormai di una società senza classi, se non quelle dei furbi e degli onesti, magari per forza e contro voglia, costretti ad attenersi alle famose “regole”, di cui parla giustamente la democrazia liberale?
Ma, se esiste, questo magmatico e indefinito strato sociale è semmai vittima, non carnefice. Anche perché davvero la borghesia ha perso sia i diritti che i doveri, e dopo tante mistificazioni e aggiramenti delle regole non sa più neanche quale sia il suo ruolo nella società.
Sulla polemica, innescata dal prof. Martinotti, ecco un interessante articolo dell’intellettuale e polemista liberale Raffaello Morelli. NICO VALERIO
A PROPOSITO DELLA BORGHESIA DI MARTINOTTI
La tesi della inesistenza della borghesia richiamata dal professor Martinotti per criticarla, credo meriti una riflessione attenta. Non per approfondirne gli aspetti sociologici già delineati dall’autore, nel numero scorso di ArcipelagoMilano, quanto per svilupparne aspetti legati ai rapporti politici di convivenza. Concordo con l’autore che sia un giochetto infondato sostenere che in Italia non vi sia una borghesia. Concordo anche che la presunta mancanza piace molto ai mass media che della borghesia celebrano il funerale anzitempo. Però trovo infondata la conclusione dell’autore che vede confermati i suoi due assunti dal fatto che “la borghesia in massa si è ripresentata a occupare tutti gli scranni ministeriali disponibili“. Non perché il governo Monti sia composto da cassa integrati di Termini Imerese, ma perché solo una visone di classe può trarre connotati politico sociali generali equiparando il collocarsi sociale di alcune persone a un episodio rilevante in tutt’altro senso.
L’autore dipinge la borghesia moderna, come “un corpo unificato dalla caratteristica unica di essere la classe dominante tipica di sistemi capitalistici, inclusi i sistemi capitalisti di stato“. Affermare concetti del genere può autoconsolare le elites intellettuali borghesi oggi perdenti ma non rappresenta realisticamente la convivenza. Il governo Monti non è frutto di una accorta manovra di potere borghese. E’ il risultato di una catena di comportamenti dissennati ai limiti dell’incredibile da parte dei partiti attuali.
La completa incapacità dell’ex ministro fiscalista, ossessionato dal pericolo giallo, di avvertire la crisi finanziario economica nata in un altro continente e di predisporre un piano di sviluppo qualsivoglia. La completa incapacità politica di Berlusconi di imbrigliare il proprio ministro e di dare ai mercati risposte operative concrete (a lui ben note come imprenditore delle cose sue) persistendo, a ogni livello, in atteggiamenti da imbonitore festaiolo. La completa incapacità politica dell’opposizione di pensare a preparare un progetto alternativo per il dopo berlusconismo che sarebbe venuto, preferendo invece baloccarsi con il gossip tipico del moralismo borghese. E di fatti, quando la crisi internazionale, neppure all’improvviso ma progressivamente, ha stretto la sua morsa sull’Italia e Berlusconi, mai sfiduciato in Parlamento, ha deciso di dimettersi, al Presidente Napolitano – che per fortuna continua a ragionare sui problemi – non è restato altro che inventarsi un governo dei tecnici ancorandolo strettamente (di nuovo per fortuna) alla forma e alla sostanza delle procedure parlamentari.
In tutto ciò, cosa c’entrano i disegni della classe dominante borghese? Nulla, con buona pace della stampa conservatrice lombarda e dei nostalgici di un classismo oggi improponibile. Anzi, quanto è avvenuto fornisce un indizio sulla carenza vera della borghesia. L’indizio che la borghesia, mentre è nata contro le rendite di una società in mano ai privilegi nobiliari ed ecclesiastici e per rendere possibile l’intraprendere e lo scambiare, ora ha rinunciato a questo suo ruolo, dedicandosi alla difesa corporativa più o meno intelligente delle rendite di posizione raggiunte. Dunque, la borghesia esiste ancora, ma si è del tutto snaturata e non svolge più il suo ruolo fisiologico.
Oggi, la maggior parte dei commentatori scrive, seppur tardivamente, che in Italia non si discute più di politica. Una notevole responsabilità spetta agli ambienti borghesi, proprio perché per formazione, cultura, reddito, stato sociale, consistenza numerica, dovrebbero essere i più sensibili alle problematiche politiche della convivenza. E invece non avviene. Il venditore per antonomasia e i migliori per destino che hanno voluto scimmiottarlo, hanno presto intuito questo vuoto e giulivi hanno governato sciorinando la loro mercanzia di promesse senza progetti. In questo tripudio della cartapesta, alla sopravvenuta crisi finanziaria internazionale, si è andata sommando la crisi strutturale di un’Italia incapace di pensare allo sviluppo nel mondo globalizzato e quindi debole nella comparazione dei mercati.
Proprio nell’assenza di discussione politica sta lo snaturamento della borghesia. Che ha accettato una posizione politicamente parassitaria e non ha contrastato il dilagare, soprattutto negli ambiti delle burocrazie e della gestione pubblica, di pratiche familistiche sempre contrarie ai cambiamenti necessari per lo sviluppo: in nome dei propri privilegi e all’insegna del meglio le entrature giuste sotto casa, che regole funzionanti a livello non localistico per dare spazio a merito e competenze.
Le personalità tecniche che compongono il governo sono individualmente borghesi, ma non rappresentano affatto un progetto politico. Né borghese né d’altro genere. Rappresentano la preoccupazione di consulenti che si trovano a svolgere un compito prestigioso ma assai complesso, del cui risultato non hanno la piena padronanza professionale: perché esula dalle loro esperienze tecniche in quanto politico nel profondo. Come cittadini hanno titolo per cimentarsi in tale dimensione, ma il vincolo parlamentare, che vale anche per loro, li rende solo meno attrezzati in molti sensi. Bene che il clima sia più ragionevole. Tuttavia la politica non si improvvisa e così i loro primi vagiti (le sole cose che traspaiono, anche se nascondere le cure al malato non paia una virtù) sembrano seguire la solita propensione a tassare i redditi, a non tagliare il debito e al riservare le parole allo sviluppo. Né aiuta nascondersi dietro le colpe (che pure ci sono) del burocratico egoismo degli stati nazionali europei.
La questione reale non è che ritorna la borghesia vera ma che ritorna quella snaturata. Cioè mancano la politica e il conflitto secondo le regole di libertà che si continuano irresponsabilmente a evitare spargendo utopie e non dicendo mai quali cose concrete si intende fare ora e subito per lo sviluppo. E chi dovrebbe supplire se non i cittadini che convivono e si raggruppano liberamente? La politica sono loro.
RAFFAELLO MORELLI
Costi della politica. “Crisi del sistema”? Serve a coprire la corruzione diffusa tra i cittadini
Quanto costa il parassitario sistema dei partiti italiani, delle Regioni e delle stesse elezioni, è messo in evidenza efficacemente da questi grafici, provenienti da diverse fonti: Corte dei Conti, ISTAT, Corriere della Sera, Confartigianato, OCSE, Copaff, ecc. Il confronto, stridente, in alcuni casi è con altri Stati europei, il che vuol dire – bisogna ripeterlo sempre – con altri cittadini, insomma con ben altre persone, più che con altri sistemi.
Perché un sistema politico non forgia un popolo, ma ne è, anzi, la fedele rappresentazione politica. Un concettino che in Italia è poco noto a Destra, Centro e Sinistra, che fanno a gara nel presentare all’elettrorato una classe politica come “capace di grandi rivolgimenti”, fino al punto da mutare – sembrano voler dare ad intendere agli sciocchi – la stessa psicologia della gente.
Si tratta di grafici sintetici, ma di per sé eloquenti più di interi saggi politologici, economici o sociologici, sulla diversità, unicità, della Politica, anzi della società italiana di oggi, dominata da grandi partiti-contenitori sedicenti di Destra, Centro o Sinistra, senza ideologie e senza una cultura liberale.
Da notare, per inciso, che più i politicanti sono inefficienti, cioè nel Sud d’Italia e d’Europa (non è giusto chiamarli “latini”, infangando una grandissima civiltà, non per caso pre-cristiana, molto diversa – anzi, agli antipodi – da quella attuale), e più “rubano”, cioè si fanno pagare o provocano ad arte occasioni di spesa attorno a loro. Di qui la retorica delle piccole e Grandi Opere. Per promettere qualcosa in campagna elettorale (il “fare” secondo gli assessori o i ministri da quattro soldi: dai lampioni all’autostrada, dal ponte inutile sullo Stretto di Messina al raddoppio della TAV Torino-Lione), per darsi importanza e sopperire alla mancanza di idee, ma anche e soprattutto per aver occasioni di percentuali e “mazzette”. La spesa, motore della Politica.
I professionisti politicanti italici mi ricordano certi amministratori di condominio: propongono e cercano occasioni di spesa a tutti i costi, perché è dal movimento di denaro che possono guadagnare. E i condòmini (come i cittadini) se le bevono tutte. Controprova: quando un condòmino o cittadino onesto prova a fare lui stesso da amministratore locale o, cosa ancora più difficile, da amministratore di condominio (un tempo era possibile, ora credo che sia vietato: hanno creato un albo corporativo, non per caso...), scopre con grande meraviglia che le spese almeno si dimezzano. Guarda un pò...
Quel che è certo, è che sia l’attività di Regioni, Enti. Province e Comuni, sia l’attività del Parlamento, tutti di norma gestiti da uomini dei partiti (tranne le rare emergenze di “tecnici”), sono basate su numerose grandi spese inutili, puramente parassitarie o gonfiate ad arte. Come, appunto, quelle di alcuni amministratori di condominio.
Considerazioni complementari si possono fare per il grafico degli emolumenti dei Presidenti delle Regioni, che sono oggi i veri centri operativi della Casta dei privilegiati e dei parassiti della politica.
C’è da restare senza parole. Guardate quali regioni, nonostante che i loro cittadini godano di redditi medi più bassi, malgrado la loro bassa produttività economica e politica, hanno votato gli stipendi mensili più alti per i propri Presidenti. Sono sempre le solite: quelle a statuto speciale (trattamento privilegiato che deve essere abolito a furor di popolo, anche se potrebbe avere notevoli conseguenze sul piano giuridico e costituzionale), e le regioni del Sud.
Bella professione, soprattutto comoda, quella dei politici e amministratori, questi Professionisti del Nulla, gli unici che non devono sottostare a nessun esame di qualità e idoneità, e spesso – come hanno mostrato impietose interviste e filmati – di una ignoranza e perfino di un livello di intelligenza addirittura imbarazzanti.
Sui truffaldini “rimborsi” elettorali ai partiti, in largo eccesso rispetto alle reali spese effettuate, nonostante il divieto sancito da un referendum di finanziarli, si vedano gli ultimi due grafici, basati su dati della Corte dei Conti. Per le leggi sul tema si veda qui. Insomma, fatto il referendum trovato l’inganno legale.
Altro che problema di “sistemi”, o tantomeno di fittizie categorie para-ideologiche prive di significato politologico, come Destra, Centro o Sinistra! I grafici denunciano che la crisi politica italiana è nella selezione del personale, cioè è nel fattore umano, troppo umano. E che la cosiddetta “crisi della Politica (o addirittura la “crisi della Democrazia”!) è solo una scusa, un velo pudico e ipocrita steso sul malcostume diffuso a livello nazionale tra tutti gli strati sociali, alta e media borghesia in testa. La nostra, più di ieri, è la repubblica degli “amici” (cfr. Mafia come “Società degli Amici”), della raccomandazione, del “familismo amorale”, del nepotismo (quanti giornalisti e docenti universitari, oltre ai politici, sono digli di “qualcuno!”), della corruzione, della malversazione e della distrazione di fondi pubblici. Da cui deriva anche lo spreco generale di risorse: denaro, beni pubblici, territorio e Natura. Perché se le cose sono del primo che se le ruba, perché il cittadino dovrebbe avere l’interesse a salvaguardarle? Ecco, dunque, che democrazia delle regole (limiti), cioè Liberalismo, ed educazione, e moralità diffusa, ed ecologia (altri limiti), sono strettamente connessi. Solo gli stupidi ripetono che Liberalismo ed Ecologia sono contrapposti (v. a proposito qui).
La questione, perciò è solo psico-sociologica: chi è attratto o cooptato dalla professione politica? Questo, solo questo è il punto. Ebbene, si scopre che fa politica, per lo più, un certo tipo di persone dalla facies predatoria e dalla evidente volontà di spoliazione, dotate di inusuali capacità mistificatorie e affabulatorie. In altre parole, non sanno far nulla, tranne parlare, come quegli imbroglioni che un tempo cercavano di appiopparti pessime e inutilissime enciclopedie. E con la scienza della Politica, tantomeno con la filosofia politica, questi parassiti abituali non c’entrano nulla.
IMMAGINI. 1. Spesa di ogni singolo cittadino per i dipendenti della propria Regione nel 2010. Dati Corriere della Sera, Istat, Confartigianato, Copaff, elaboraz. Filo d’Arianna, rielaboraz. grafica N.Valerio). 2. Stipendi dei parlamentari in Italia e nei Paesi europei. 3. Stipendi medi di una coppia nei Paesi OCSE, a parità di potere d’acquisto nel 2009 (in dollari). 4. Stipendi base nett dei Presidenti di Regione, a cui bisogna aggiungere indennità varie che fanno quasi raddoppiare la cifra finale. 5. Quando costa ai cittadini il mantenimento dei partiti politici (Corriere della Sera 2011). 6. Rimborsi elettorali ai partiti nel 2008, dai dati della Corte dei Conti. Si noti il finanziamento truffaldino e illegale che consiste nella differenza tra quanto dichiarato come spese e quanto ricevuto effettivamente dallo Stato. 7. Rimborsi ai partiti dal 1994 al 2009. Appare evidente che l’aumento più rilevante si è verificato negli ultimi anni, cioè in tempi di governi Berlusconi e di Destra.