23 giugno, 2011
Non solo mercato e “liberismo” economico, c’è e deve esserci anche uno Stato liberale
La Costituzione della Repubblica italiana delinea un sistema economico misto, contraddistinto dalla necessaria compresenza di apparati pubblici e di iniziative attivate dai privati. Ciò esprime una concezione in cui l'economia è qualcosa di più del "market system". Si tratta di una concezione complessa, in cui il Governo non è onnipotente, ma non è nemmeno impotente rispetto alle richieste degli operatori economici e finanziari privati.
Nel contempo, la medesima concezione prevede che alcuni pubblici apparati siano in una posizione di neutralità e di terzietà rispetto agli attori politici, proprio per assicurare l'imparziale assolvimento dei compiti di istituto, a garanzia di specifici beni costituzionalmente protetti e dell'interesse generale di tutti i cittadini. Talvolta la Costituzione garantisce una condizione d'indipendenza ad alcuni pubblici funzionari –come espressamente previsto per i magistrati dell'Ordine giudiziario, ma lo stesso dovrebbe valere per altre Istituzioni, come, ad esempio, la Corte dei Conti – nel senso che essi non sono subordinati ai detentori del potere politico, cioè ai titolari delle funzioni di governo, a tutti i livelli, centrale, regionale, locale. Sono subordinati soltanto alla Costituzione ed alle leggi vigenti.
Richiamo di seguito alcune disposizioni costituzionali.
"La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali" (Art. 41, 3° comma, Cost.). Quindi, si prevede che l'attività economica possa essere sia privata che pubblica.
"La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati" (Art. 42, 1° comma, Cost.). Nel successivo comma si afferma lo scopo di assicurare la "funzione sociale" della proprietà privata.
"A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale" (Art. 43 Cost.).
Le modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 non interferiscono con le predette disposizioni, inserite nella prima parte della Costituzione. Ma è stato affermato il principio di sussidiarietà (in senso orizzontale): "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà" (Art. 118, 4° comma, Cost.). Ciò significa che quando privati cittadini, singoli e associati, si propongono per svolgere "attività di interesse generale", la loro iniziativa deve essere favorita dai pubblici poteri. I quali, contestualmente, rinunciano ad esercitare quelle attività tramite apparati pubblici (pubbliche amministrazioni, enti pubblici, aziende, eccetera). Va da sé che non basta proporsi. La gestione da parte dei privati deve realizzare l'interesse generale e, in particolare: i princìpi di "buon andamento" (ossia economicità, efficienza efficacia) e di "imparzialità" (che l'Art. 97, 1° comma, Cost. afferma per l'organizzazione dei "pubblici uffici"). Deve altresì realizzare il principio di "adeguatezza", stabilito dall'Art. 118, 1° comma, Cost., unitamente a quelli di sussidiarietà (in senso verticale) e di "differenziazione", per regolare la distribuzione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, a partire dal livello più prossimo ai cittadini amministrati.
Si può concludere che la nostra Costituzione, nel modellare il sistema economico, respinge tanto il collettivismo integrale (tutti impiegati pubblici), quanto il liberismo integrale (meno apparati pubblici ci sono, meglio è, perché il supremo regolatore è il mercato).
La distinzione tra liberalismo e liberismo economico esce rafforzata dall'impianto costituzionale: si tratta, di volta in volta, di appurare quale soluzione gestionale realizzi meglio l'interesse generale dei cittadini e la tutela del bene comune.
Distinguere il liberalismo dal liberismo economico non significa che le due concezioni debbano necessariamente e sempre confliggere tra loro. La distinzione teorica si traduce nella consapevolezza di una non scontata coincidenza: significa che in relazione ad alcune scelte (valutate nel loro contesto temporale e spaziale, e nei prevedibili concreti effetti), i punti di vista possono concordare, mentre rispetto ad altre scelte divergere e magari contrapporsi. E che giudice di ultima istanza resta la coscienza individuale.
Per i liberali che colgono questa distinzione teorica, le pubbliche amministrazioni non soltanto non sono un male in sé, ma sono necessarie. Si tratta di organizzarle bene e di farle funzionare. Obiettivo che sembra impossibile soltanto a quanti, per pregiudizio ideologico, pensano che tutto ciò che è pubblico debba essere inefficiente ed antieconomico.
Il cattivo funzionamento delle pubbliche amministrazioni è la premessa perché abbiano campo libero faccendieri, intrallazzatori e speculatori di ogni risma. Anche la criminalità organizzata (mafia, camorra, 'ndrangheta, eccetera) incontrerebbe molti più ostacoli se ad ogni livello si incontrassero funzionari pubblici che fanno il proprio dovere, assolvendo con coscienza i propri compiti istituzionali.
In altra occasione ho ricordato che il Testo Unico "delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato", approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, stabiliva all'articolo 17, rubricato "Limiti al dovere verso il superiore", quanto segue:
"1. L'impiegato, al quale, dal proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le ragioni.
2. Se l'ordine è rinnovato per iscritto, l'impiegato ha il dovere di darvi esecuzione.
3. L'impiegato non deve comunque eseguire l'ordine del superiore quando l'atto sia vietato dalla legge penale".
Queste disposizioni, rispondenti ad una saggezza amministrativa molto risalente nel tempo, servivano a puntellare in modo efficace il principio di legalità dell'attività amministrativa. In uno Stato che si ispira ai princìpi del liberalismo (e che, quindi, necessariamente si configura come Stato di diritto), non soltanto i governanti non possono imporre la propria volontà agli apparati burocratici quando questa volontà sia manifestamente contra legem, ma anche la stessa catena di comando gerarchica può spezzarsi. Ogni pubblico impiegato, che ha giurato fedeltà alla Costituzione della Repubblica e che è tenuto ad operare "al servizio esclusivo della Nazione" (come prevede l'Art. 98, 1° comma, Cost.), non è un automa che debba dare esecuzione comunque all'ordine del superiore gerarchico.
In altre parole, il principio di legalità dell'attività amministrativa è coerente con una concezione in cui i funzionari pubblici sono chiamati a realizzare ed a custodire l'ordinamento giuridico. Una concezione che chiede conto a ciascun funzionario, singolarmente considerato, ovviamente nei limiti delle sue attribuzioni e competenze.
Possono sembrare idee vecchie, superate. Oggi molti pensano che le ragioni dell'economia debbano prevalere sulle regioni della politica (e dell'ordinamento democratico rappresentativo). Sono convinti che le amministrazioni siano un impaccio, perché in ogni caso ritardano la velocità delle transazioni e degli affari. "La moneta deve girare", come si dice dalle mie parti.
Viceversa, distinguere il liberalismo (e la democrazia) dal liberismo economico significa riproporre il primato della politica sull'economia. Significa puntare sul primato dei valori umani. Ad esempio, esseri umani preoccupati del degrado dell'ambiente naturale e delle sorti del pianeta Terra, potrebbero liberamente e consapevolmente decidere di adattarsi ad un'esistenza più austera. Con meno beni da possedere, meno comodità. Con la prevalenza della ricchezza spirituale su quella materiale, dell'essere sull'avere.
Illusioni di "un'opposizione neo-romantica", come la chiama Luca Ricolfi (La Stampa, 22 giugno 2011)? Ricolfi è uno dei tanti intellettuali che pur avendo un passato "di sinistra", e magari pur continuando a definirsi "di sinistra", hanno subìto la fascinazione del liberismo economico. Il guaio è che pensa che liberismo economico e liberalismo siano coincidenti, per cui ritiene di interpretare pure il punto di vista dei "liberali".
I liberali autentici che fecero parte dell'Assemblea Costituente e che discussero e votarono la nostra Costituzione si richiamavano ad un'altra tradizione, ben presente nella storia d'Italia. Era costume, tra quei liberali, considerare migliori politici quelli che dimostrassero, nei comportamenti, di avere "senso dello Stato". Gli odierni antistatalisti programmatici, i teorici del "privato è bello", sono altra cosa. Dal mio punto di vista, sbagliano e ci sono solidissimi argomenti, ben radicati proprio nella cultura politica liberale, per confutarli.
LIVIO GHERSI
13 giugno, 2011
Stato laico e religioni. Mettere in pratica il “Libera Chiesa in libero Stato” di Cavour
Era stato un cattolico liberale, Charles conte di Montalembert (1810-1870), intellettuale, giornalista e politico francese, ad aver fatto incidere nel suo castello di La-Roche-en-Breuil una frase in latino che avrebbe avuto fortuna come sintesi di due riforme, di due lotte per la libertà: “Ecclesia libera in libera patria”. Prima di lui il pastore e teologo calvinista svizzero Alexandre Vinet aveva teorizzato nel saggio Mémoire en faveur de la liberté des cultes (1826) sul principio delle “libere chiese in libero Stato”. Questo libro raro oggi è stato ripubblicato tradotto in italiano.
In entrambi i casi potremmo dire che la libertà di religione è curiosamente legata alla libertà “dalla” religione. Da una parte il diritto del singolo cittadino di professare qualunque credo o filosofia, contro il principio “Cuius regio, eius religio” (letteralmente: "Di chi è la regione, di lui sia la religione") che obbligava dal ‘500 i sudditi europei a seguire la religione del proprio re, cattolico o protestante che fosse. Dall’altra, le chiese e lo Stato – auspicano uniti i fautori della libertà religiosa e quelli delle libertà individuali e politiche – devono diventare indipendenti tra loro e autonomi. Negare una delle due libertà significare negare anche l’altra. “Non è poi così poca cosa – scrive Vinet – abbandonare la causa della libertà religiosa: significa, in un solo colpo, rinunciare a tutte le libertà".
Il grande Camillo Cavour, sempre al corrente delle nuove idee liberali che circolano in Europa, è nutrito non solo di pragmatismo liberale inglese, come tutti sanno, ma per le sue frequentazioni dei parenti svizzeri e degli amici politici di Parigi, anche di spirito calvinista e di liberalismo costituzionalista francese. E’ naturale che in questa effervescente temperie culturale, dopo la proclamazione del Regno d'Italia (25 marzo 1861), rilanci il fondamentale principio della separazione tra religioni e istituzioni pubbliche nel suo famoso discorso al Parlamento di Torino in favore della proclamazione di Roma capitale (27 marzo 1861). Proprio grazie alla separazione – disse – la Chiesa e il Papato avrebbero trovato quella libertà e indipendenza che cercavano invano da secoli per poter svolgere il loro magistero spirituale. E non era finzione o retorica: era quello che volevano i grandi intellettuali cattolici liberali che erano l’anima del Risorgimento, a cominciare dal D’Azeglio. E dunque, la libertà di tutti avrebbe voluto dire anche la libertà della religione cattolica, come di tutte le altre confessioni.
Così, privata del suo “Regno terrestre”, l’abusivo e imbarazzante potere temporale, la Chiesa cattolica romana poteva finalmente liberarsi verso lo sperato “Regno celeste”, come già avevano fatto le Chiese protestanti, insomma tornare ad essere religione, cioè potere spirituale. Questo non lo ha detto chissà quale anticlericale mangia-preti, ma papa Paolo VI, Montini, che nel 1970, nel centenario della presa di Porta Pia, per la prima volta inviò un riluttante cardinale vicario Angelo Dell´Acqua a dire messa davanti alla Breccia. Lo ricorda il teologo Gianni Gennari, editorialista del quotidiano cattolico Avvenire, testimone diretto di quell´evento. Avvenne così – dice – che «per la prima volta un delegato papale definì la caduta del potere temporale come un segno benevolo della Divina Provvidenza per la Chiesa». Grazie al Risorgimento, grazie ai liberali italiani, la religione cattolica romana ritrovava il suo vero, unico, legittimo spazio: nelle coscienze dei credenti e nella spiritualità, anziché nelle armi dei soldati mercenari.
Ma sull’altro versante politico anche i liberali e i laicisti in genere hanno compiuto un errore. Quello di considerare il famoso detto cavouriano “Libera Chiesa in libero Stato” una formula rituale da aruspici estruschi, un’invenzione magica che basta da sola ad assicurare in modo automatico, e una volta per tutte, l’equilibrio tra Stato e credi filosofici o religiosi dei singoli cittadini.
Non è affatto così. Dopo i pochi decenni in cui effettivamente questa geniale formula fu rispettata nella struttura istituzionale e nelle leggi del nuovo Stato, prima piemontese poi italiano, con una nettezza riscontrabile forse in pochi Paesi europei, prima dallo stesso Cavour, in modo magistrale, e poi più fiaccamente dalla Destra storica e dalla Sinistra storica (le due correnti del Liberalismo italiano che si succedettero nel Governo italiano dal 1861 al 1912), fino a Giolitti, che sottovalutò il “patto Gentiloni”, anzi ne fu piuttosto una vittima (cfr. i veri intenti dei cattolici rivelati dallo stesso conte Gentiloni), l’ideologia della separazione tra Stato di diritto e credenze religiose o filosofiche del cittadino si attenuò fino a sparire del tutto.
Riemerse la “religione di Stato”, ma con ben altra virulenza e jattanza che non avesse nel vecchio Statuto Albertino, dove però era puramente lessicale, arrivando infine alla tragedia giuridica e costituzionale del Concordato del 1929 (tra il Papa e l’ex-socialista Mussolini) e, peggio ancora, alla sua iterazione nel 1984 (tra il Papa e il socialista Craxi). E nessuno era, non solo per caratura intellettuale e morale, ma anche per educazione politica, più lontano da Cavour dei due uomini politici in diverso modo “socialisti”. Fatto sta che la prevalenza della religione cristiana cattolica sulle altre, drasticamente eliminata da Cavour e Siccardi, due liberali, ritornò nella legislazione e nella pratica politica ed istituzionale italiana ad opera di due socialisti.
Queste ed altre divagazioni ci suggerisce l’interessante e corposo libro di Raffaello Morelli, coraggioso intellettuale e inquieto agitatore liberale abituato di solito a scandagliare anche gli aspetti più nascosti e problematici del Liberalismo, come quelli dei rapporti con la Sinistra. “Lo sguardo lungo” (questo il singolare titolo dell’opera), è un libro edito da ETS, con 468 pagine di testo (20 euro), senza contare i documenti e indici, che esce in occasione del 150.o anniversario dell’Unità d’Italia. Ed esiste anche la possibilità, come si vede nella pagina del sito, di acquistare per soli 9 euro il libro in formato digitale e-book.
Certo, che se la vera qualità dei liberali è la sfaccettatura di idee, il dibattito interno e il pluralismo, non sembri paradossale che a celebrare a suo modo l’Unità d’Italia sia ora un intellettuale che, da buon liberale, più che unire, divide. Eppure, quello del laicismo, che una volta fattosi Stato diventa Stato laico, è un discorso classico, tradizionale. E questo è un motivo di curiosità interna, ulteriore, del libro: vedere uno spirito anticonformista ed eccentrico, anche per gli anticonformisti liberali, misurarsi con un tema una volta tanto conforme.
Nel 150º dell’Unità d’Italia, passando in rassegna il lungo decorso storico, l’autore lancia un appello alla necessità di realizzare finalmente nella pratica giuridica di ogni giorno, nella vista stessa della comunità, ben oltre le enunciazioni costituzionali e le retoriche asserzioni di principio (condivise da tutti, cioè da nessuno) la cavouriana separazione tra lo Stato e le religioni.
L’Italia, infatti, va guarita dalla sua malattia d’origine: l’essere, in quanto a laicità delle Istituzioni, un’anomalia nel mondo occidentale liberale. Il che servirebbe anche a rifondare la convivenza tra cittadini sulla tolleranza effettiva tra diversi, che oggi, in tempi di mescolanze etniche e quindi anche religiose, è ancora, come un tempo, diversità religiosa, o almeno diversità di credenze filosofiche “sulla” religione.
Il volume si propone, in sostanza, di rendere l’idea separatista un principio di base, istituzionale ma anche giuridico pratico, per affrontare e risolvere il problema della diversità nella convivenza tra i cittadini.
Evitare, perciò, che una religione, la fede personale, diventi direttamente fonte legislativa, come vorrebbero i “cattolici chiusi” (così li chiama l’autore, per denotare non tanto gli integralisti per fede, quando gli opportunisti per calcolo politico tutto terreno), che poi sono i veri avversari del principio di separazione, non diversamente, aggiungiamo noi, dai famigerati fondamentalisti islamici negli Stati in cui governano. Con ciò, essi sperano di conservare per sé stessi il comodo ruolo di mediatori indispensabili. Mentre tale ruolo spetta ad altri. L’auspicio del libro, infatti, è quello di ridare sul tema l’iniziativa alla cultura laica e liberale, anche sul piano civile e giuridico-politico. Anche perché – diciamocelo – chi meglio dei liberali è culturalmente e storicamente attrezzato sulla annosa questione?
Laicità dello Stato che – per i liberali è ovvio – non serve, non può servire, a far prevalere una convinzione specifica, sia pure laicista. Infatti pochi sanno – attenzione alle parole, perché sono le prime cose che i reazionari mistificano – che i laicisti, cioè i liberali, vogliono uno Stato laico, non laicista. Che finirebbe per assomigliare, perfino agli occhi dei liberali, anzi, soprattutto ai loro occhi, ad una sorta di Governo degli illuminati, dei Buoni, dei Perfetti, autoritario e insopportabile, la negazione stessa del Liberalismo fatto Stato.
Ebbene, con tutta la vasta letteratura storica, filosofica e politologica esistente sull’argomento, sembrerà strano, ma ci sono tuttora molti cattolici per calcolo di Potere (“cattolici chiusi”), oltre ai soliti pochi integralisti, che non afferrano, anzi mistificano volutamente, questo diagramma fondamentale.
Inutile aggiungere che questo pluralismo garantito da uno Stato finalmente laico spingerebbe i cittadini ad esprimere meglio la propria diversità e quindi creatività politica e sociale. Altro che staticità o identità imposta dall’alto! Così da usufruire dello spirito critico, delle iniziative dei cittadini, delle loro relazioni innovative producendo un maggior grado di libertà e di benessere materiale.