22 maggio, 2011
Liberali, conservatori o anarco-capitalisti? Quelli che straparlano di “spiriti animali”
LE IDEE, MOTORE DELLA STORIA. Nelle considerazioni conclusive della sua "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta" (Londra, 1936) John Maynard Keynes scrive che «le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto si ritenga comunemente». Ritiene probabile che le idee che «funzionari di stato e uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti» non siano le più recenti; ma, comunque, «presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti», a modificare la realtà «sia in bene che in male» (1).
Come appassionato lettore e modesto studioso dell'opera di Benedetto Croce, sono totalmente d'accordo: sono le idee, i convincimenti ideali, che animano la Storia ed incessantemente determinano nuova Storia.
La condizione necessaria, però, è che queste idee, questi convincimenti ideali, abbiano la forza di conquistare le persone, motivandole ad impegnarsi, ad organizzare lo sforzo comune per il raggiungimento dell'obiettivo voluto, anche a correre dei rischi personali.
I RISCHI DEI TROPPI E DIVERSI “LIBERALISMI”. Molte parole abitualmente usate nel dibattito politico hanno una pluralità di possibili significati. Ci sono molti modi di intendere il termine "democratico", o il termine "socialista". Il liberalismo non è immune dalla confusione linguistica e, pertanto, anche quanti definiscono sé stessi "liberali" spesso hanno in mente cose profondamente diverse fra loro. Quando persone che dicono di richiamarsi ad una medesima radice ideale vogliono cose troppo diverse, si depotenziano e paralizzano a vicenda. Altro che capacità di conquista!
I “RADICALI E DISINIBITI”. Per farmi capire, adduco degli esempi concreti, citando quattro persone che scrivono "da liberali", facendo affermazioni che dal mio punto di vista sono sbagliate.
Parto da Carmelo Palma, direttore di "Libertiamo"; Palma si è formato nel Partito Radicale (quello pannelliano) e, pertanto, si riconosce nel trinomio "liberale, liberista, libertario". Ha accompagnato Benedetto Della Vedova, anche lui formatosi nel PR, nel suo itinerario politico; attualmente, Della Vedova è deputato di "Futuro e Libertà". In un articolo pubblicato il 18 maggio 2011, Palma sfotte un poco i moderati, "Moderati di tutta Italia, unitevi", i quali pure dovrebbero essere graditi al cosiddetto "terzo Polo". Si rivolge direttamente ai liberali e fa loro un'esortazione: "disinibitevi". Quello che Palma auspica è appunto un liberalismo «radicale e disinibito»; che dia fiducia «più alla società che allo Stato, più all'individuo che alla comunità, più alla partecipazione civile che all'intermediazione politica» (2).
MA CHE SIGNIFICA “LIBERTARIO”? ANARCHICO. Qui viene fuori l'anima libertaria dei Radicali. Che non intendono l'aggettivo "libertario" come lo potevano intendere Vittorio Alfieri e Piero Gobetti, o come l'intendevano i giovani studenti universitari tedeschi al tempo in cui visse Immanuel Kant, ossia "freisinnig" (persona dal libero sentire). No, per i Radicali pannelliani, libertario significa proprio "anarchico". Quindi, tendenziale sfiducia nei confronti delle Istituzioni rappresentative — il "Palazzo", che tende sempre a fregare i buoni cittadini per fare gli interessi del ceto politico e burocratico — ed esaltazione della democrazia diretta, con il suo principale strumento di espressione: il Referendum popolare.
“SPIRITI ANIMALI”? CI SONO GIA’, E FIN TROPPI. BASTA VEDERE AMBIENTE E PAESAGGIO. La seconda citazione è di Angelo Panebianco, intelligente commentatore dei fatti politici. Con il quale mi è capitato frequentemente di essere d'accordo; tranne per un'impostazione generale che, dal mio punto di vista, attribuisce troppi meriti e troppe virtù salvifiche al bipolarismo, che Panebianco vorrebbe consolidare con tecniche di ingegneria istituzionale ed elettorale, quale elemento portante del sistema politico. Aggiungo che non condivido neppure l'esaltazione della legge elettorale maggioritaria basata su collegi uninominali, a turno unico, come nel modello inglese. Nell'editoriale titolato "Distanti e divisi, i nodi del centrodestra", pubblicato nel Corriere della Sera, Panebianco così consiglia il Presidente del Consiglio: [Berlusconi] «deve, in accordo con Tremonti, fare ciò che è lecito aspettarsi da un governo di centrodestra: dare una vera sferzata pro-crescita all'economia, liberare gli ingessati "spiriti animali" del capitalismo italiano» (3).
A me sembra che, negli ultimi decenni, gli "spiriti animali" siano stati fin troppo liberi, e che questo abbia portato ad una devastazione senza precedenti del patrimonio naturale ed ambientale, e ad offese imperdonabili alle bellezze del paesaggio.
Vorrei che le istituzioni pubbliche a tutti i livelli, a partire dal Governo nazionale, operassero per salvaguardare e realizzare il bene comune. Il che non significa soltanto impedire la cementificazione di ciò che resta del territorio; ma richiede, ad esempio, che le opere pubbliche siano realizzate a regola d'arte, con tutte le garanzie dal punto di vista delle tecniche costruttive, in modo da non richiedere interventi di manutenzione straordinaria già pochi giorni dopo l'inaugurazione. Vorrei anche che chi costruisce male, appropriandosi del denaro pubblico e mettendo in pericolo l'incolumità dei cittadini, riceva punizioni severe e, comunque, tali da funzionare come reale deterrente nei confronti di quanti in futuro intendessero percorrere la medesima strada.
“LIBERISTI” CHE CITANO REAGAN. La terza citazione è di Antonio Martino; il cui cognome richiama le origini familiari messinesi e si associa subito suo padre, Gaetano, che fu docente universitario, autorevole politico e ministro espresso dal Partito liberale (PLI). Invece, Antonio Martino è un economista della scuola statunitense di Milton Friedman, ed è noto per essere stato tra i fondatori del partito "Forza Italia". In questo caso la citazione è meno recente; ma è particolarmente significativa: «La lezione è semplice: se lo Stato non ci mette lo zampino l'economia è perfettamente in grado di risolvere i suoi problemi. Come diceva Reagan, lo Stato è il problema non la soluzione» (4). Concezione così ribadita: «nella maggior parte dei casi lo Stato è il problema – l'intervento dello Stato crea problemi, anzichè risolverli» (5). Qui Reagan è citato come massima fonte liberale.
MA PERFINO MALAGODI DIFFIDAVA DELLA THATCHER. Fra i liberisti italiani dei nostri giorni si dà per scontato il carattere liberale della politica economica condotta dai governi di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Ricordo, invece, la freddezza di Giovanni Malagodi nei loro confronti, soprattutto nei confronti della signora Thatcher. La quale, non a caso, guidava il Partito conservatore del Regno Unito, fortemente criticato dal Liberal Party. Il giudizio di Malagodi deve pur significare qualcosa, considerato che egli era Presidente dell’Internazionale liberale.
CORRENTI CONTRAPPOSTE ANCHE TRA I LIBERISTI STORICI. Antonio Martino suole ripetere che le controversie fra gli economisti si risolvono nella differenza fra quelli che conoscono l'Economia e quelli che non la conoscono. Dando, ovviamente, per scontato che lui è fra coloro che sanno. Penso che le cose siano molto più complesse. La scienza economica era ed è tuttora campo di non risolte controversie. Voglio ricordare il palermitano Francesco Ferrara (1810-1900). Ferrara, uno fra i protagonisti del Risorgimento siciliano nel 1848, l'anno seguente si rifugiò nel Regno di Sardegna, per sottrarsi alla reazione borbonica. Ancora oggi è ricordato come uno fra i più brillanti e dotti economisti italiani d'indirizzo liberista. Nell'estate del 1874 Ferrara fondò la "Società Adamo Smith", che ebbe qualificate adesioni soprattutto in Toscana ed in Sicilia. Tra i fondatori figurano Gino Capponi, Ubaldino Peruzzi, Bettino Ricasoli; e, tra i soci ordinari, Sidney Sonnino e Vilfredo Pareto (6). Alla Società creata dal Ferrara si contrappose però l'Associazione per il progresso degli studi economici, di cui fu magna pars Luigi Luzzatti, il quale, si badi bene, non era un socialista, ma un deputato della Destra Storica. Tra gli economisti non c'è mai stato accordo. Questa è la verità.
LUOGHI COMUNI. TUTTA COLPA DEI SOLITI “LIBERALI HEGELIANI”. L'evocazione della Destra storica, cioè del gruppo politico che direttamente si richiamava a Cavour, introduce la quarta citazione. Si tratta dello storico Giovanni Belardelli, autore di una recente biografia di Mazzini, inserita nella collana "L'identità italiana" de Il Mulino. Ho letto il libro perché m'interessa Giuseppe Mazzini (non chi ne scrive), ma, per i miei gusti, in questo caso il biografo si è caratterizzato per un voluto distacco critico ed una evidente assenza di simpatia per il personaggio di cui delineava il profilo. Mazzini, per fortuna, ha avuto altri studiosi. Belardelli ha recensito nel Corriere della Sera un libro antologico su Marco Minghetti, curato da Raffaella Gherardi ("Il cittadino e lo Stato", Morcelliana, 2011). Nell'occasione, Belardelli ha lamentato la relativa sfortuna delle idee di Minghetti nella cultura politica italiana, «propensa ad apprezzare assai di più un liberalismo come quello degli hegeliani di Napoli, i quali ponevano al centro lo Stato che — come scriveva Silvio Spaventa — "ci comanda, ci obbliga e ci sforza al bene comune"» (7). Qui Belardelli ripropone una vecchia polemica contro gli "hegeliani di Napoli", polemica che, come modesto studioso di Benedetto Croce, non so più quante volte ho incontrato.
Con questa chiave interpretativa, il lettore dovrebbe essere indotto a pensare che sia colpa degli hegeliani napoletani e massimamente di Silvio Spaventa se Minghetti non sia stato apprezzato come avrebbe meritato. Mi limito a ricordare che quando il 18 marzo del 1876 ci fu la cosiddetta "rivoluzione parlamentare", che determinò la caduta del governo presieduto da Marco Minghetti e la conseguente emarginazione della Destra storica, Spaventa era autorevole ministro di quell'Esecutivo. Minghetti e Spaventa furono messi in minoranza perché il loro governo voleva che il sistema ferroviario nazionale fosse di proprietà e sotto l'esercizio dello Stato; Francesco Ferrara e i suoi amici deputati liberisti toscani unirono i loro voti a quelli della Sinistra per mettere in minoranza la Destra storica.
MA IL LIBERALISMO NON NASCE CON HAYEK. Traggo le conclusioni da quanto finora ho argomentato. Molti "liberali" odierni sono convinti che la teoria liberale sia nata con Friedrich A. Hayek e trovano inconcepibile la distinzione crociana tra liberalismo e liberismo economico. Hayek aveva una sua rispettabilità come pensatore; anche se acquistò notorietà internazionale soprattutto come critico della teoria economica di John M. Keynes. Questo semplice fatto dovrebbe già mettere in guardia.
QUELLI PER CUI “LO STATO E’ SEMPRE SOCIALISTA”. La teoria economica classica si dimostrò impotente a fronteggiare la grande crisi economica del 1929 e Keynes tentò altre soluzioni proprio perché toccava con mano che con le ricette tradizionali non si andava da nessuna parte.
In seguito, proprio l'economia keynesiana è stata oggetto di forti critiche da parte di una nuova generazione di liberisti, i quali denunciavano come qualunque intervento pubblico nell'economia fosse di per sé distorsivo e fosse un cavallo di Troia per realizzare, gradualmente, un'economia socialista. Non sono d'accordo con questa impostazione.
Ci si potrebbe facilmente intendere sul fatto che spetti ai pubblici poteri, ossia ai decisori politici, stabilire regole che poi gli operatori del mercato sono tenuti a rispettare. Sappiamo bene, però, che ogni volta che si fissano regole (a tutela della salute, dell'ambiente naturale, delle bellezze paesaggistiche, o per promuovere uno sviluppo urbanistico ordinato), poi si manifestano subito le spinte di segno contrario, per liberare l'economia dai "troppi lacci e laccioli" che la soffocano. Lo spirito dei tempi di Reagan fu proprio questo, e così si è andati avanti finora.
Sto cercando di dire, insomma, che i fautori del liberismo presumono di avere le migliori ricette per promuovere sviluppo economico. Nel breve e medio periodo quelle medesime ricette alimentano, però, forme di occupazione precaria e di vero e proprio sfruttamento lavorativo (cosa succede nel lungo periodo conta relativamente, perché nel lungo periodo siamo tutti morti). Quelle medesime ricette portano alla devastazione delle risorse ambientali (che non sono illimitate) e questa è una certezza. Infine, spesso portano pure alla distruzione della ricchezza privata accumulata sotto forma di risparmi (come avviene in modo ricorrente con le crisi dei mercati finanziari internazionali). Né, finora, si sono trovate regole sicure e sanzioni efficaci contro gli speculatori finanziari.
Sostenere che il liberalismo in quanto tale debba necessariamente identificarsi con le ricette di politica economica pensate dai liberisti in un dato momento storico, è sbagliato: significa pensare che non ci possano essere sviluppi diversi in futuro e che il futuro debba ripetere il passato.
Il Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt non fu un socialista (come sbrigativamente sostengono tutti coloro che chiamano "socialismo" qualunque forma di intervento pubblico nell'economia), ma un campione delle democrazie liberali e dell'Occidente. Nel suo celebre discorso del 1941 sulle "quattro libertà" essenziali, ripropose due libertà tradizionalmente proprie della teoria liberale, la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di religione (freedom of speech e freedom of religion). Ad esse affiancò la libertà dalla paura (freedom from fear) e, soprattutto, la libertà dal bisogno (freedom from want).
LA LIBERTA’ DAL BISOGNO E DALL’IGNORANZA. La libertà dal bisogno non è una diavoleria socialista, ma è il naturale svolgimento di un liberalismo preso sul serio. Se la libertà è un principio fondamentale, essenziale per la dignità di tutti gli esseri umani, occorre impegnarsi per la liberazione dalla povertà, perché non è libera un'esistenza ridotta a lotta quotidiana per il soddisfacimento dei bisogni materiali più elementari. Così come occorre impegnarsi per la liberazione dall'ignoranza. Infatti, non c'è libertà quando venga negata la possibilità di accedere progressivamente a sempre più raffinate forme di sapere e di conoscenza, speculativa e tecnica, da usare per la costruzione di un proprio autonomo progetto di esistenza. Adolfo Omodeo definiva tutto questo "libertà liberatrice", con una formula già usata dal Mazzini.
SI DICONO LIBERALI, MA PARLANO COME ANARCO-CAPITALISTI. Purtroppo i "liberali" della genìa cui mi riferisco vanno molto oltre Hayek. Sono affascinati da autori per fortuna minoritari negli Stati Uniti. Si dicono liberali ma sono, nella sostanza, anarco-capitalisti. Le posizioni sono note: a) il diritto di proprietà viene concepito come un diritto assoluto, intangibile; b) si chiede che l'imposizione fiscale sia ridotta quanto più è possibile, in modo da impedire l'intervento pubblico in economia e da determinare il progressivo dimagrimento e, tendenzialmente, l'estinzione di ogni apparato pubblico; c) pur di ridurre gli apparati pubblici, si chiede che anche parte dei compiti ora disimpegnati dalle Forze dell'ordine siano assolti da strutture private, ossia da agenzie di professionisti militari; ma è fin troppo chiaro che queste forme di difesa privata opererebbero nell'interesse e ad esclusivo servizio dei privati che pagano; d) si vuole il libero uso del territorio e delle risorse naturali (ecco gli "spiriti animali", evocati da Panebianco), in modo da massimizzare lo sviluppo economico, ponendo come unica regola compensativa che chi inquina paghi una tassa commisurata al danno ambientale arrecato; e) le parole "privatizzazione" e "liberalizzazione" assumono una valenza mitica, sono parole magiche, idonee a caratterizzare ogni politica economica "virtuosa". I "liberali" nel senso predetto tendono naturalmente a collocarsi a destra nello schieramento politico e, in Italia, non possono non essere "berlusconiani". Essendo programmaticamente antistatalisti, sono, di conseguenza, entusiasticamente federalisti ed indifferenti alle sorti dello Stato italiano unitario.
“LIBERALI”? SERVONO PAROLE NUOVE PER DEFINIRLI. Non voglio avere alcuna comunanza politica con gli anarco-capitalisti, anche quando si dicono liberali. Il dialogo ed il confronto su argomenti concreti, ovviamente, non sono in discussione: devono essere possibili, in generale, tra tutte le persone civili. A maggior ragione se si tratta di liberali, sia pure di contrapposto indirizzo. Tuttavia, dal punto di vista della pratica politica, non devono esserci equivoci. Non solo non voglio ritrovarmi con loro in una stessa organizzazione politico-partitica, ma non li voglio nemmeno come alleati nella medesima coalizione. Mi sento e sono alternativo a loro. C'è, dunque, bisogno di parole nuove che si uniscano a quelle antiche, per marcare e far risaltare immediatamente le differenze.
NO AL DIRITTO DEI FORTI DI PREVARICARE SUI DEBOLI. Oggi opera un Partito liberale italiano (PLI), che porta lo stesso nome del Partito che fu rifondato da Croce nel 1943 e che ebbe come Segretario nazionale Giovanni Malagodi dal 1954 al 1972. Conosco persone apprezzabili e perbene che aderiscono a questo partito; ma i limiti e le contraddizioni sono nel complesso talmente evidenti che parlarne per esteso sarebbe come sparare sui mezzi della Croce Rossa. Tra i limiti del PLI, c'è appunto quello di volere l'unione di tutti i liberali che si definiscono tali.
Il liberalismo che io ho coltivato e che mi sforzo di testimoniare considera la libertà il principio motore dello spirito umano, quindi di tutto l'umano operare. Difendere la causa della libertà non significa però riconoscere ai forti il diritto di prevaricare sui deboli e di arricchirsi alle loro spalle. Né si traduce nella libertà di devastazione dell'ambiente naturale.
Per un approfondimento, rinvio ai libri che ho scritto sull'argomento. In particolare, "Croce e Salvemini. Uno storico conflitto ideale ripensato nell’Italia odierna" (2007), e "Liberalismo unitario. (Scritti 2007-2010)" (marzo 2011). Entrambi, non a caso, pubblicati da un piccolo Editore, la Casa Editrice "Bibliosofica" di Roma. Non a caso, perché un liberalismo coerentemente definito sconta in Italia la condizione iniziale di essere fortemente controcorrente. Tanto rispetto alla precedente egemonia culturale di sinistra (in tutte le sue versioni: marxista, gramsciana, comunista, catto-comunista, socialista, democratico-radicale, progressista). Quanto rispetto alla recente, ruspante, egemonia elettorale della destra berlusconiana.
LIBERALI, DIVERSI DAGLI ANARCO-CAPITALISTI. I liberali genuini, che perseguono un'idea di bene comune, devono quindi diventare una famiglia politica diversa rispetto agli anarco-capitalisti. Soltanto a questa condizione il liberalismo potrà avere ancora un futuro in Italia, in Europa e nel Mondo. Un movimento politico è vitale se serve a qualcosa. Io legherei le sorti dei liberali alle esigenze di buona amministrazione e di buon uso del pubblico denaro. Esigenze che, nella situazione data, hanno una valenza autenticamente rivoluzionaria. Ci sono praterie da percorrere per chi intenda eliminare i costi impropri della politica e ridurre drasticamente il numero di quanti vivono di politica, mantenuti con il pubblico denaro. Il patriottismo costituzionale è doveroso quando si tratta di difendere le disposizioni della parte prima della Costituzione. Ad esempio, l'articolo 41 della Costituzione, nel testo vigente. E' sacrosanto che l'iniziativa economica privata non possa svolgersi "in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana", come bene scrissero i Costituenti al secondo comma dell'articolo 41 della Costituzione. Tuttavia, servono certamente anche riforme costituzionali. La riforma più urgente, secondo me, sarebbe la correzione di molte disposizioni introdotte nel 2001 nel Titolo quinto della parte seconda della Costituzione. Occorre un riordino istituzionale. Infatti, l'unico modo serio di responsabilizzare gli amministratori sarebbe quello di evitare la frammentazione e la sovrapposizione delle competenze fra troppi livelli di governo.
LA QUESTIONE DELLA “SINISTRA LIBERALE”. C'è un'ulteriore distinzione, che ho già affermato in passato: quella nei confronti della cosiddetta "sinistra liberale". In questo caso però la separazione politica è già avvenuta, perché la "sinistra liberale" è composta da quanti ritengono che i liberali, in quanto tali, non abbiano più un futuro politico e che servano sintesi ideali liberal-socialiste, o socialiste-liberali, che dir si voglia. Di conseguenza, fanno parte, più o meno felicemente, del Partito Democratico o dei soggetti politici che periodicamente tentano di riaggregare l'area socialista.
LIVIO GHERSI
(1) John Maynard Keynes, "Occupazione Interesse e Moneta. Teoria generale", traduzione italiana di Alberto Campolongo, Torino Utet, 1963, p. 340.
(2) Carmelo Palma, "Moderati di tutta Italia, unitevi. Ma voi liberali, disinibitevi", articolo pubblicato nel sito di "Libertiamo" il 18 maggio 2011.
(3) Angelo Panebianco, "Distanti e divisi, i nodi del centrodestra", nel quotidiano "Corriere della Sera", edizione del 18 maggio 2011.
(4) Antonio Martino, "Lo statalismo è la causa non la soluzione", pubblicato il 6 settembre 2009 nel sito dell'Istituto Bruno Leoni (IBL) / Idee per il libero mercato.
(5) Elisa Palmieri, "LiberalCafè intervista l'on. Antonio Martino", pubblicato dal periodico on-line LiberalCafè il 20 dicembre 2010.
(6) Riccardo Faucci, L'economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara, Sellerio Editore, Palermo, 1995, p. 251 e nota n. 42 a p. 274.
(7) Giovanni Belardelli, "Minghetti, né liberista né statalista: la via liberale del giusto mezzo", nel quotidiano "Corriere della Sera", edizione del 17 maggio 2011.
19 maggio, 2011
Rivalse clericali. Un inquietante beato Wojtyla presidia Roma pagana e liberale. Ma è un cesso.
Roma. La “vergine di Norimberga” era un armadio antropomorfo di ferro e legno dalle fattezze di robusta virago, irto al suo interno di punte acuminate (v. immagine). L’Inquisizione, o altro ente torturatore di Santa Madre Chiesa, vi rinchiudeva fino alla morte, con i più atroci dolori, l’accusato di eresia e blasfemia contro Dio e i Santi che fosse così testardo o pazzo da rifiutare di confessare la propria colpa e di redimersi. Perciò, con la proverbiale cinica arguzia che li distingueva, avevano buon gioco logico i dotti Padri Gesuiti nel sostenere che, essendo ben nota agli eretici la crudeltà di quella tortura, alla fine non più l’eresia veniva punita col crudele abbraccio della “Vergine” ma, appunto, la loro folle ostinazione.
La forma, si sa, è sempre significante. Eppure è curioso che lo scultore che ha eretto un tristo monumento al beato papa Wojtyla donato dalla Fondazione Angelucci (v. immagini) negli squallidi giardini della mal frequentata piazza romana dei Cinquecento – appena inaugurato tra lo sconcerto generale – non si sia posto il problema della gaffe stilistica costituita dalla “citazione” o comunque dall’impressionante somiglianza con l’inquietante strumento di tortura dell’Inquisizione o con una garitta di guardia militare, entrambi simboli eloquenti e imbarazzanti di violenza, oppressione e pensiero unico. E visto com’è mal frequentata di notte la piazza. temiamo che la garitta papale possa essere scambiata dai soliti ubriachi per un orinatoio, e dalle coppiette per un discreto e accogliente riparo per le loro effusioni. Speriamo, almeno, che l’inutile Servizio Giardini faccia una volta tanto qualcosa di utile, nascondendo il più possibile l’orribile sagoma con una fitta cortina di arbusti.
Vero è che Giovanni Paolo II, altro che papa “buono” (v. articolo), represse col pugno di ferro la dissidenza e la teologia più “liberale” (dom Franzoni, rettore di San Paolo, per esempio, fu ridotto allo stato laicale); ma paragonarlo sia pure in modo subliminale allo spietato frate domenicano Tomàs de Torquemada, ci sembra o gustosamente eccessivo o eccessivamente gustoso.
Ma tant’è, si rassegna Andrea Costa (v. articolo qui di seguito), dopo il grossolano caso di servilismo culturale dell’intitolazione della stazione Termini a Giovanni Paolo II da parte del sindaco post-comunista Walter Veltroni, la zona appariva ormai segnata da una sorta di rivalsa clericale. L’intera area urbana dell’Esedra e di piazza Termini (così si chiamava fino al 1887, prima dei “Cinquecento” di Dogali) era un quartiere tipico della Nuova Roma liberale e laica. La lunga nuova via Nazionale, luminosa e disegnata in modo razionale, in barba ai contorti e bui vicoli medievali e papalini, sfociava nella piazza, poco distante dalla fontana che faceva da punto finale (“mostra”), dell’Acqua Pia Antica Marcia, che poi fu spostata al centro dell’Esedra con l’aggiunta delle carnose e callipigie Naiadi nude scolpite dal Rutelli, che sembravano quasi offrirsi ai passanti maschi, accusati perciò non solo dai preti, ma anche dalle mogli (ci furono proteste), di essere più che liberali dei libertini.
Ed ora, invece, che ti combina il nuovo clericalismo strisciante? Come un cagnolino di città alza la zampa e schizza un ben mirato getto a marcare olfattivamente il “proprio” territorio contro potenziali concorrenti, ecco che i politicanti fascio-clericali, oltretutto personalmente atei, svendono alla Curia Romana, uno ad uno, tutti i luoghi della memoria laica e liberale. E così, traguardando lungo la via Luigi Einaudi, Padre della Repubblica, verso Termini dall’Esedra dove si affacciano le antiche Terme romane simbolo dell’edonismo corporale e la basilica di S.Maria degli Angeli, “Chiesa di Stato” per le cerimonie ufficiali, e quindi sgarbo triplo, ecco interporsi come simulacro estraneo al genius loci pagano e laicista, l’importuno oltreché orripilante catafalco clerico-mussoliniano (v. immagine).
Il pubblico, come riportano i giornali, ha già bocciato l’opera, forse ancor più jettatoria, a parere di turisti napoletani, maestri in questo genere di perizie, della cimiteriale colonnina con mesto busto bronzeo del napoletanissimo Antonio De Curtis, in arte “Totò”, nascosta – non si capirà mai perché – come un guardamacchine abusivo tra gli alberelli smilzi della brutta piazza Cola di Rienzo.
Ma, si sa, la mancanza di cultura e di buon gusto tra i politicanti fa di questi scherzi. Figuriamoci, poi, quando ci si mette di mezzo, come nel caso della statua a Wojtyla, qualche prelato (ma l’avete vista l’architettura ecclesiastica di oggi, dalle chiese alle case generalizie?).
Nel frattempo, consoliamoci. Come per le aggressive e missionarie croci imposte con autoritarismo psicologico e sovrano disprezzo della Natura sulle vette delle montagne italiane, anche sul catafalco del beato di turno cadranno pietosi l’oblio degli uomini e la sana opera devastatrice del Tempo, che di tutto il brutto, per fortuna, fa giustizia. E ciò che non osano gli Umani lo fanno gli animali: già qualche cane è stato visto fare i suoi bisogni nell’accogliente cripta, apparentemente (secondo logica canina) all’uopo dedicata.
NICO VALERIO
Roma. Vista da vicino, da dietro e dai tre quarti, anche l'effige del volto è inquietante, quasi identica a certe stilizzazioni della testa del cavalier Benito Mussolini. Di là dalle evidenti ironie cui l'imponente statua di quasi cinque metri si presta e, possiamo giurarci, si presterà sin da domani, il danno è stato comunque perpetrato. La statua è un "dono" della solita "fondazione" a forte composizione clerico-conservatrice, di quelle, tanto per intenderci, che si candidano con sempre maggiore solerzia a buttar fuori lo Stato italiano dalla proprietà e/o gestione dei Musei nazionali, comunali, delle ville storiche e delle aree archeologiche di Roma e non solo.
La vendetta postuma contro il Risorgimento e i suoi simboli, che sono poi la nostra identità laica ed unitaria. Non possono mancare nella guerra dei simboli, che uno Stato italiano imbelle ha da tempo rinunciato a combattere, le piazze, le strade, i grandi capisaldi urbanistici e monumentali come le Stazioni.
Sappiamo dell'affaire veltroniano JPII, lo ricordiamo perfettamente; sembrò giunta la parola fine con il "compromesso" della targa. Poi le "cadute" di Ruini e Veltroni. Ma non è bastato, perché, Oltretevere, c'è uno Stato straniero insaziabile che sa modulare, aumentare e diminuire a suo piacimento l'intensità della sua incessante guerra di reconquista di Roma e d'Italia, all'insegna del "due passi avanti e uno indietro". Uno Stato sovrano, che ha il tempo della sua parte e le sue "quinte colonne" ben affondate nel territorio sempre meno compatto dell'identità italiana e romana in particolare.
La statua di Wojtyla (che a tutto assomiglia fuorché ad un Papa) è stata volutamente e scientemente sistemata nell'aiola di Piazza dei Cinquecento, perfettamente centrale ed in asse prospettico con via Luigi Einaudi (laico Presidente della Repubblica italiana), tanto da essere perfettamente visibile dall'Esedra di sinistra rispetto alla prima via dell'unità d'Italia (via Nazionale). Appare esattamente in contrappunto simbolico e visuale anche con la profanissima fontana delle Najadi di Mario Rutelli (1888), che sostituì la fontana dell' Acqua Pia Antica Marcia inaugurata da Pio IX proprio nel 1870.
Tutto il quartiere è carico di simboli molto importanti per il Regno d'Italia e la successiva Repubblica italiana: vie, piazze, musei, come quelli archeologici delle Terme e di Palazzo Massimo. Senza dimenticare la Basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri, “Chiesa di Stato” italiana, che dieci anni fa, è stata protagonista di un contenzioso legale, su istigazione del clero locale, per l'affidamento delle competenze su restauri e delle opere d'arte alla gerarchie ecclesiastiche e non più alle Soprintendenze di Stato. Fortunatamente gli andò male anche se l'iperattivismo e la "kulturkampf" di questa danarosa Parrocchia sono ben evidenti in molte ed insolite opere di mecenatismo artistico (molte opere di dubbio gusto) e a riletture iperrevisionistiche della figura di Galileo Galilei.
Il curioso "missile" con la testa di Mussolini (così appare da lontano) è la prima cosa traguardata da qualsiasi persona che voglia lanciare da Piazza della Repubblica (ahi! altra piazza laica) lo sguardo verso la Stazione Termini, così da sembrarne effettivamente il tutore, il punto di fuga delle linee di prospettiva, il catalizzatore simbolico.
Proposta: E se provassimo ad installare una statua di Sandro Pertini, diciamo, alta sei metri, in largo Giovanni XXIII? La mia è una provocazione, perché l'effetto sarebbe proprio quello di "impallare" Via della Conciliazione. Molto più probabile, invece, che in vista dei prossimi lavori di riqualificazione di piazza dei Cinquecento e in occasione della rapida prossima santificazione di Karol Wojtyla, qualcuno possa cambiare nome alla Piazza, Piazza S.Giovanni Paolo II o SJPII, se volete.
ANDREA COSTA
15 maggio, 2011
Costituzione. Democrazia fondata sul lavoro? Ma chi ha detto che l’art.1 non è liberale?
Andate a dirlo a Camillo Cavour che il lavoro è una “cosa comunista”, e vedete se non vi risponde con uno di quei suoi famosi scoppi d’ira che imbarazzano tuttora i suoi biografi! Lui, lavoratore instancabile e maniacale, al punto da andare non di rado a dormire alle 3 di notte per poi svegliarsi “prima dell’alba”, perché era solito dare appuntamenti di lavoro già alle 6 di mattina. Lui che, forse per la sua formazione anglosassone e protestante, non poteva concepire la libertà, anzi l’intera faticosa e difficilissima rivoluzione liberale, senza riconoscere al cittadino il diritto-dovere dell’operosità estrema, del lavoro, cioè del merito personale, da cui solo nasce il progresso materiale e morale. Come se la libertà del Piemonte e dell’Italia si potevano ottenere gratis, senza fatica, solo discettando di filosofia del diritto in comodi salotti foderati di cuoio e boiserie.
E sicuramente sul dovere prioritario del lavoro come dimostrazione delle proprie capacità individuali erano d’accordo anche il suo oppositore della sinistra liberale, Lorenzo Valerio, poi diventato cavouriano, il suo avversario Mazzini (che come al solito ne faceva una questione “etica”), e poi, lungo i decenni successivi, tutti i grandi liberali d’ogni tendenza, dalla cosiddetta “Destra Storica” liberale al mazziniano sindaco di Roma Nathan, all’economista “liberista” Einaudi, autore delle “Lezioni di politica sociale”.
Non si capisce, perciò, in base a quale ragionamento il primo comma dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che dice che “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, debba essere considerato anti-liberale da non pochi liberali di Destra.
Eppure parla di lavoro in generale, non dice “fondata sui lavoratori” (nel linguaggio comunista sinonimo eufemistico di operai, potenzialmente rivoluzionari) come Togliatti aveva proposto alla Costituente. Nella Costituente c’erano Croce ed Einaudi, e molti altri liberali, in una proporzione numerica con cattolici e comunisti che mai più ci sarebbe stata. E dunque, se piaceva a loro… D’altra parte, c’è perfino una ruota dentata nel simbolo dello Stato italiano, approvata dai primi Governi italiani, tutti liberal-centristi. E, a proposito, quel grande lavoro di tutti i cittadini dette i suoi effetti col “boom economico”, già quindici anni dopo la fine della guerra.
Non vorremmo pensar male, ma nell’improvvisa diffidenza per il termine “lavoro” c’è qualcosa di ambiguo. Ripetiamo, possiamo sbagliare, ma la cosa puzza di estrema Destra americaneggiante lontano un miglio, quel Right People estremista, alla Reagan o alla Thathcher, che non è affatto “giusto” per un liberale vero. E infatti quei conservatori, mancando del lessico right prendono a prestito proprio dai comunisti il significato sbagliato di “lavoro”. Anche per loro, come per i comunisti trinariciuti degli anni 50 e la Costituzione sovietica, il lavoro significa in realtà i lavoratori sindacalizzati, le masse operaie potenzialmente rivoluzionarie su cui si fonda l’elite della società autoritaria e totalitaria. Ancora una volta gli estremi si toccano e si aiutano. E no, cari liberali di Destra (molto più Destra che liberali): il lavoro è il lavoro, e basta. Senza contare che oggi, in tempi di “Repubblica fondata sulle raccomandazioni” oppure sull’appartenenza a questo o quel clan politico-affaristico, comunque non sul lavoro personale, cioè sul merito, quel primo comma dell’art.1 appare un concentrato delle virtù di operosità dei grandi liberali Padri della Patria.
NICO VALERIO
Sul tema pubblichiamo l’illuminante lettera aperta del liberale Enzo Palumbo, in origine indirizzata al Corriere della Sera il 4 maggio scorso, e non pubblicata per ragioni di spazio:
“Da qualche tempo circola nel Paese e trova spazio sui giornali italiani la leggenda metropolitana, secondo cui la nostra Costituzione sarebbe il risultato di un compromesso tra il cattolicesimo dossettiano ed il comunismo di stampo sovietico, mentre la cultura liberale ne sarebbe del tutto estranea. Per quel che ricordo, ha cominciato a sostenere questa tesi Piero Ostellino (Corriere della Sera del 23 dicembre 2010), e su questa scia, confortati dall’opinione di un liberale doc come lui, si sono andati orientando anche altri autorevoli commentatori, da ultimo Angelo Panebianco sul Corriere del 22 aprile. La prova di ciò starebbe in particolare nel primo articolo della Costituzione, apparente frutto avvelenato di quel connubio.
“Siccome le cose, quando sono ripetute all’infinito senza contestazione finiscono per diventare verità storiche (la tecnica orientale del “mantra”), mi sembra il caso di intervenire per fornire ai lettori qualche elemento di conoscenza in più.
“In primo luogo per evidenziare che la componente liberale era ben rappresentata (41 liberali e 23 repubblicani, rispetto a 207 democristiani, 115 socialisti e 107 comunisti) e ben qualificata (Bozzi, Cortese, Croce, De Caro, Einaudi, La Malfa, Martino, Pacciardi, per citarne solo alcuni ed in ordine alfabetico) nell’Assemblea Costituente, nei cui lavori non ha mancato di esercitare una significativa influenza, in particolare anche sull’articolo 1, impropriamente invocato come dimostrazione del contrario.
“A contrastare quell’erronea convinzione ci ha provato prima Michele Ainis sul Corriere del 21 aprile, quando ha affermato che “la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall’art. 1”, e da ultimo Paolo Franchi sul Corriere del 23 aprile, affermando giustamente che “le cose sono parecchio più complicate” rispetto al giudizio sommario che normalmente si da del primo articolo della Costituzione. Che, intanto, andrebbe letto nella sua interezza, posto che il suo secondo comma, in cui si afferma che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, è una norma di chiara ispirazione liberale, essendo caratteristica tipica del costituzionalismo liberale quella di introdurre forme e strumenti di garanzia e di porre limitazioni al potere.
“Sono proprio quelle forme e quei limiti che consentono di definire la nostra come una democrazia liberale, e che la differenziano ovviamente da tutte le forme di democrazia totalitaria (in Germania come in Russia, nel secolo scorso, in Cina ed altrove ancora oggi), ma anche, per l’oggi, da tutte le forme di democrazia autoritaria (in Russia, in qualche paese dell’Europa orientale, da ultimo in Ungheria, come in Nord Africa e nel Medio Oriente), o plebiscitaria (come in Venezuela).
“E tuttavia, la cultura liberale è presente anche nel primo comma dell’art. 1. Qualcuno ha ricordato che, nel corso dei lavori, i comunisti Togliatti, Amendola, insieme ad altri, avevano proposto la formula “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”, chiaramente caratterizzata in senso socialista, che i costituenti respinsero in una votazione che vide schierati insieme liberali e democristiani. E Panebianco ha opportunamente evidenziato che La Malfa e Martino avevano proposto una formula che metteva l’accento sul tema della libertà: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro”.
“Ma nessuno ha ricordato che un altro liberale, Guido Cortese aveva proposto un’altra formulazione che, mettendo l’accento sui cittadini in quanto tali (piuttosto che sui lavoratori) e tuttavia anche recependo lo spirito della proposta Togliatti, appariva sostanzialmente finalizzata ai medesimi obiettivi della proposta La Malfa-Martino: ”L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica ha per fondamento il lavoro e garantisce la partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione economica, politica e sociale del Paese”.
“Al termine di un appassionato dibattito di altissimo livello culturale, l’Assemblea Costituente (seduta del 22 marzo 1947) finì per approvare il testo proposto dai democristiani, che è poi quello attualmente in vigore. Illustrando la sua proposta, Fanfani ebbe cura di precisare: “In questa formulazione l’espressione <democratica> vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di libertà e di eguaglianza, senza dei quali non v’è democrazia. Ma in questa stessa espressione, la dizione <fondata sul lavoro> vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano, quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere. Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui, e si afferma che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale”.
“A me pare che un buon liberale farebbe fatica a non condividere interamente quelle motivazioni, mentre è assolutamente evidente che il testo approvato non si discosta granché da quello che era stato proposto dal liberale Guido Cortese. Dire che <l’Italia è una Repubblica democratica… che ha per fondamento il lavoro>, non mi sembra granché diverso dal dire che <l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro>. Certo, se i liberali fossero stati maggioranza assoluta nella Costituente avrebbero magari potuto fare adottare la formula La Malfa-Martino; e tuttavia credo che quello raggiunto nell’occasione sia stato un saggio compromesso, che non merita oggi di essere degradato a simbolo di un presunto connubio cattolicomarxista, che, almeno in quell’occasione non c’è stato.
“E, se proprio vogliamo trovare un esempio di quel connubio, allora faremmo meglio a fermare l’attenzione sul secondo comma dell’art. 7 della Costituzione, che ha sostanzialmente costituzionalizzato i Patti lateranensi. Ma questa è un’altra storia, assolutamente ignorata dai sedicenti liberali di oggi, tutti protesi ad ingraziarsi i favori d’oltre Tevere, nell’illusione di ottenerne qualche presunto beneficio sul terreno del consenso elettorale, che è l’unico al quale sembrano realmente interessati.”
ENZO PALUMBO
03 maggio, 2011
Testamento biologico. Lettera aperta di Veronesi al Governo su “una legge sbagliata”
Il testamento biologico, così come sta per essere codificato in Italia, rischia di essere un atto crudele, inutile, autoritario, da Controriforma. Meglio, allora, la attuale libertà di fatto, meglio nessuna legge che una cattiva legge.
I clericali del Governo berlusconiano – pseudo-moralisti solo per propaganda – stanno facendo mostra di far di tutto per pagare alla Chiesa il prezzo di chissà quali accordi sottobanco, compreso perfino – sostengono alcuni critici – il perdono ecclesiale per le tante scappatelle libertine del premier. Anzi, non si sa se vogliono davvero questo provvedimento o se si limitano a recitare la parte, come si usa fare nel teatro politico all’italiana.
Per far questo, ad ogni modo, come già tentarono con Luana Englaro, artificialmente tenuta in “vita” per anni nonostante il coma irreversibile e la chiara volontà di Luana (vicenda in cui si distinse per autoritarismo il ministro ex-socialista Sacconi), hanno deciso di intromettersi nella libera coscienza dei cittadini, ostinandosi a limitare per legge la possibilità di decidere modi e contenuto del cosiddetto “testamento biologico”, cioè la volontà preventivamente espressa dall’individuo riguardo alla fine della vita, in caso di decorso di malattia così grave da escludere la capacità di intendere e di volere.
Ma per ottenere questo scopo, i falsi moralisti clericali, pur di idealizzare una “vita” brandita come feticcio politico integralista di stampo medievale, non possono far altro che affidare più poteri al medico, aumentandone il potere decisionale e le responsabilità. Con ciò imbarazzando molto la stessa classe medica, che già è tartassata da fin troppe norme eticho-deontologiche e discrezionali.
Sul tema ecco l’appello indirizzato al Governo dal chirurgo oncologico Umberto Veronesi il 1 maggio scorso dalle colonne del Corriere della Sera.
NICO VALERIO
“Caro presidente Berlusconi, mi permetto di scriverle pubblicamente, attraverso questo giornale, come uomo che ha dedicato la propria vita al progresso scientifico e civile del Paese, e che, cinque anni fa, ha avviato una campagna di sensibilizzazione a favore del Testamento biologico, per allineare l' Italia agli altri Paesi culturalmente e civilmente avanzati, come è ed è sempre stato il nostro.
Ci sono temi fondamentali, come lei sa, che non sono né di destra né di sinistra e neppure di questa o quella religione, e che io credo bisogna avere il coraggio di difendere, se vi si crede, a prescindere dalle logiche dei consensi. Fra questi c' è il tema della libertà e il diritto di ogni uomo di accettare o rifiutare le cure in ogni circostanza, sulla base delle proprie convinzioni e del proprio progetto di vita. Questo è il significato del Testamento biologico ovunque nel mondo.
So, per esperienza diretta, che gli scienziati sono spesso lontani dai politici, perché sono liberi pensatori e non seguono le linee guida di nessun partito. Tuttavia il mio mondo è la medicina, che è insieme protezione della persona sana e cura della persona malata, e come medico mi sento vicino alla gente, alle loro paure e i loro bisogni. Desidero quindi esprimere non solo il mio pensiero, ma soprattutto quello di un' ampia parte della popolazione, di ogni fede e credo politico, che non occupa i media e non scende in piazza, ma che si affida ancora con fiducia alle istituzioni, alle strutture e alle persone che guidano il Paese in cui vive.
Questi cittadini hanno sviluppato, accanto all'eterna paura di morire, quella di vivere indefinitamente una vita artificiale, come vegetali, senza pensiero, senza coscienza, senza vista, senza udito, senza alcuna sensibilità al dolore. Per scacciare questo spettro hanno creato un movimento civile per il testamento biologico, che permette di dire no a questa condizione di non-vita.
Purtroppo noi – io e le centinaia di migliaia di cittadini che hanno già preparato il proprio testamento biologico – ci troviamo ora nella assurda situazione di aver sollecitato una legge che, invece di tutelare la nostra scelta, la tradisce, e va nella direzione opposta al principio per cui il Biotestamento è nato: il rispetto della volontà della persona.
Meglio allora nessuna legge – come lei stesso ha ipotizzato nella recente lettera ai parlamentari del suo partito – piuttosto che una legge che ci ricaccia indietro nel progresso di civilizzazione, è antistorica, e si pone in senso contrario non soltanto rispetto agli Stati Uniti e ai Paesi del Nord Europa – da sempre attenti alla cultura della libertà individuale – ma anche a quelli più accanto e più affini a noi, come Germania, Francia e Spagna, che continuano ad avanzare nella tutela dell'autodeterminazione dei loro cittadini.
Posso capire che, per motivi complessi e antichi, non si riesca anche da noi a pervenire ad una legge sul Testamento biologico, ma non c' è motivo di farne una contro, che nessuno realmente vuole. Non la vogliono i cittadini, che desiderano scegliere come vivere e non vivere, e non la vogliono i medici, che si sentono addossati di una responsabilità che stride con le attuali regole della professione, incentrate sull' autodeterminazione dei pazienti e su un modello di scelte condivise.
In assenza di una legge la preoccupazione che lei ha espresso di promulgare norme anti-cristiane si annulla: se ognuno è libero di scegliere per sé, non c' è alcun motivo per dubitare che i credenti decideranno in base alla loro fede, seguendone la dottrina.
Non voglio entrare nel merito delle sue motivazioni per l'approvazione di una legge della cui necessità lei stesso dubita. Mi sento tuttavia di difendere il lavoro della giustizia italiana per quanto riguarda le questioni bioetiche, e voglio rassicurarla del fatto che la volontà del paziente non è tutelata esclusivamente dalla magistratura, ma prima ancora dal Codice di deontologia medica e dai trattati internazionali, come la Convenzione di Oviedo, che il nostro Paese ha sottoscritto.
Le rivolgo quindi un appello a non fare dei diritti del malato e del dilemma, che lei giustamente ha definito «intimo e privato», della fine della propria vita, una questione sostanzialmente politica.
Vorrei concludere proprio sul tema politica e religione, ricordandole le parole di Indro Montanelli, scritte proprio su queste pagine in risposta a un lettore che gli attribuiva una critica nei confronti della Chiesa sul tema di fine vita: «Io non mi sono mai sognato di contestare alla Chiesa il suo diritto di restare fedele a se stessa, cioè ai comandamenti che le vengono dalla sua Dottrina. Ma che essa pretenda di imporre questo comandamento anche a me, che non ho la fortuna (dico e ripeto, non ho la fortuna) di essere un credente, le sembra giusto? A me no.
A me sembra che l' insegnamento della Chiesa debba valere per chi crede nella Chiesa, cioè per i "fedeli". Non per i cittadini, fra i quali ci sono, e in larga maggioranza, i miscredenti, gli agnostici i seguaci di altre religioni».
UMBERTO VERONESI