17 agosto, 2021
Ma la liberal-democrazia non si esporta come il mercato; tanto meno nel mondo dell’Islam.
Basta con le “Guerre Sante” per conto altrui, o "per il bene loro", condotte con
tanto paternalismo e tanta ipocrisia, magari solo per allargare i “mercati”
delle imprese amiche.
Da liberale “risorgimentale” doc, lasciatemelo dire: ogni
Popolo lotti da sé per la propria libertà; trovi la dignità, la ragione del
proprio riscatto, nelle proprie forze, anche esigue, consistenti in una piccola
minoranza colta e decisa, come nel nostro Risorgimento, quando l’85 per cento degli
Italiani era analfabeta e non s’interessava minimamente di libertà e politica.
Certo, è giusto, sensato ed etico aiutare i liberali d’un
Paese tirannico, perfino in una teocrazia islamica, che si stanno rivoltando,
armi in pugno per cacciare i teo-fascisti. Ma queste élites ci devono essere,
devono avere un minimo di consistenza, devono possedere il sincero amore per le
libertà (che non si può fingere: ci vogliono anni e anni di azioni precise,
scritti, discorsi e condanne), e non far parte di fazioni di sceicchi o ras
locali che si combattono tra loro, magari per il mercato delle armi o del
petrolio.
Ma dove questa sana, indispensabile “rivolta di popolo” non
c’è, dove manca del tutto una sana borghesia colta, dove nella società le
stratificazioni sociali plurisecolari perdurano, nessun “aiuto” si può dare,
non c’è nulla da fare. Serve un certo grado di maturazione e cultura del
popolo. Le marmaglie serve di questo o quel “signore della guerra” non vanno
bene per le “rivoluzioni liberali”. E neanche devono essere appoggiate.
Posso arrivare a capire le “ragioni” di chi pensa di gestire gli scacchieri
internazionali nelle aree critiche in base alle aree d’influenza nel Mondo,
anziché ai Popoli; ma non sono più i tempi gloriosi di Cavour e Bismarck, oggi il
Ministeri degli Esteri toccano come per scommessa a politicanti ignari di
tutto, mentre la diplomazia di carriera ormai attira i mediocri e i
raccomandati. Fatto sta che quasi sempre la geo-politica velleitaria delle
mezze-calzette della politica estera – e non solo quella americana – sembrano essersi esercitate sul bancone d’un caffè,
tra molti boccali di birra, spostando a caso olivette e patatine sulla mappa
dell’Afganistan o dell’Iraq, tra molte risate mondane e qualche buon sigaro.
Dove è “sembrato” che gli eserciti vincitori e invasori di
Paesi liberali introducessero con successo la liberal-democrazia [a proposito,
finiamola di definirla soltanto “democrazia”, come dicono tutti, anche
giornalisti, perfino commentatori quasi politologi, perché vuol dire solo che “tutti
hanno il diritto di votare”, non altro], quel successo era dovuto in realtà al
fatto che il Paese invaso e riportato sulla “retta via” già aveva conosciuto in
passato il liberalismo; già aveva avuto una classe dirigente liberale; già
aveva avuto una lunga Storia di pensiero, di civiltà e libertà (p.es l'Italia
dopo la II Guerra Mondiale).
Ma nel vicino e medio Oriente, con l'unica eccezione di
Israele [e grazie tante, fondato da Europei], al Liberalismo devono provarci ad
arrivare da soli. Obiettivo impossibile, finché non abbandonano la religione
islamica, l’unica “religione” al Mondo che considera reati i peccati e che
pretende di governare tutta la società, non solo con “sacerdoti”, ma con
magistrati, carceri, poliziotti e col taglio delle teste.
Quindi la pretesa dell’Occidente, soprattutto degli Usa, di
esportare nel medio Oriente merci e consumismo dicendo che si tratta delle
libertà, senza aver prima almeno allevato “culturalmente” (è una parola per gli
Americani, che di cultura conoscono solo quella economica, e sono pure scarsi
in psicologia), appare come uno scoperto e perciò infantile progetto di
marketing malriuscito.
Non basta il no al burqa, le ragazze a scuola e qualche
donna poliziotta, se la mentalità generale è ancora medievale e non esiste una
borghesia maggioritaria. La Storia non fa salti. Noi italiani, senza contare i
Romani, abbiamo avuto i Comuni liberi. Loro grazie all'Islamismo non sono
ancora al livello del nostro Medioevo. E allora? Nella Storia, se non ci sono
quei precedenti che ho detto, i corsi accelerati non esistono, non devono esistere,
sia in un senso (rivoluzioni) che in un altro (liberazioni).
01 luglio, 2018
Utopia di Ventotene. Non “egoismi”, ma Storia e naturali interessi contro l’Europa dell’ipocrisia.
Una nuova e disastrosa guerra
europea sta iniziando nei primi anni Quaranta, e gli intellettuali liberali e
socialisti democratici, disgustati da Fascismo, Nazismo e Comunismo sovietico,
visti come le ultime malattie dell’Europa, continente sconvolto dalle guerre
per secoli, elaborano il progetto di una nuova Europa pacificata e federata.
Il "Manifesto di
Ventotene" sulla nuova Europa federale di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli
(1941), edito con una partecipata presentazione da Eugenio Colorni (1944),
rappresenta la visione anticipatrice di tre grandi idealisti a cui dobbiamo
essere grati per la rettitudine e la dedizione a una nobile causa, un desiderio
comprensibile di pace e collaborazione tra i Paesi dopo una guerra sanguinosa.
Per di più, l’Europa post-bellica è ancora lontana dalla “democrazia di massa”
o piuttosto “società di massa”, che darà voce per la prima volta nella Storia
ai veri interessi e voleri delle persone qualunque, quelle poco colte e poco
intelligenti, certo, ma attente soprattutto al proprio borsellino, alla propria
tranquillità personale e al proprio campanile. Tutte virtù sensate, naturali e
legittime, sia chiaro, ma che giudicate in una visione romantica non appaiono
esaltanti alle éelites illuminate liberali, cattoliche, socialiste.
Inevitabile la distanza,
l’incomprensione tra élites, spesso formatesi in lunghi studi appartati o
all’estero, e il popolo. Perciò se il primo grave errore lo si può imputare a
quegli uomini generosi (non tener conto della realtà psico-sociologica che li
circondava già allora, ma anche del passato, della Storia, delle scienze dell’Uomo, che è
sempre un grave “reato” intellettuale per gli intellettuali), forse non può
essere addebitato il secondo: non aver saputo prevedere la degenerazione in Europa della grande Democrazia Liberale una volta morti i
totalitarismi; ma prima ancora l’applicazione del suffragio universale
a milioni di masse impreparate e ineducate, senza occuparsi di un programma radicale di scolarizzazione ed educazione.
Ma se anche restasse valido solo il
primo capo di “imputazione”, possiamo chiederci: erano davvero lucidi o non
semplicemente passionali o emozionati dagli eventi quei grandi Uomini?
Già pensare che quella, come la
precedente, fosse una guerra fratricida era un errore storico, pura retorica
scolastica, ipocrisia. Eravamo veri nemici, invece, e da sempre. Per tacere dei
Germanici (tedeschi e austriaci) che avevano scorrazzato ogni anno per secoli
lungo la Penisola mettendola a ferro e fuoco come facile e imbelle terra di
ricchezze e di facili titoli da conquistare, che cosa avevamo noi Italiani da
spartire con i Francesi, che una melensa retorica unidirezionale (solo
italiana…) considera “i più vicini”, i quali, per passar sopra a secoli di
sopraffazioni, avevano perfino combattuto sul Gianicolo nel 1849 i nostri
gloriosi giovani liberali per proteggere il Papa reazionario, invadendo Roma e
spadroneggiandovi con l’arroganza e l’infondata aria di superiorità rimaste
proverbiali? Nulla, proprio nulla. Noi che, a riprova, saremmo poi riusciti
abilmente a entrare in Roma e a completare l’Unità d’Italia solo per la
momentanea disattenzione dei Francesi.
Che restava di comune dopo tanti
scontri secolari? Solo remoti ricordi culturali, il latino, le grandi strade
create dai Romani 2000 anni fa, qualche ponte o acquedotto romano rimasto in
piedi. Ma in quanto a politica, eserciti, classi dirigenti, cultura, usi e
abitudini, quasi nulla. E già nel Medio Evo era così e poi in tutti i “secoli
bui”. Tanto più che Francesi, Tedeschi e Spagnoli ci avevano depredato di
ricchezze e opere d’arte, come veri e propri nemici che non solo combattono, ma
disprezzano e considerano inferiori, non senza qualche ragione, chi è “incapace
di combattere” e di “difendere la propria Patria”, non solo per viltà cristiana
essendo terra di Papi, ma per comodo quieto vivere opportunistico e meschine
lotte intestine, come ricorda perfino l’Inno di Mameli.
A guerra finita, l’economista
liberale Luigi Einaudi ha una visione da utopista quasi anarchico, una
Federazione di Stati Europei che dovrebbe addirittura cancellare l’ “idolo
immondo dello Stato sovrano”. Einaudi non è un grande scrittore, e a differenza
di Croce non maneggia le parole con la proprietà e l’attenzione di altri
scrittori liberali. Però le sue sono davvero parole grosse:
Ma dall'Anti-Stato, tipico estremismo liberal-radicale, si arriva all'Anti-Patria, dimenticando un non marginale particolare: che la Libertà dei Liberali nasce proprio - paradossalmente, direbbero i radicali - con la "invenzione" da parte del Liberalismo dello Stato come entità indipendente dal Re, che per secoli aveva potuto dire: lo Stato sono io, tutto quello che c'è nei miei territori mi appartiene. Meraviglia, perciò che i divinatori illuministi del Manifesto di Ventotene, tanto più quelli di più marcato spirito liberale, non si accorgano di questa contraddizione che smentisce le origini stesse delle lotte liberali. Così, sbagliavano a definirsi "senza Patria". Oggi anche il liberale crociano Corrado Ocone rileva magistralmente questa contraddizione in un articolo che condivido totalmente.
E già il giovane Leopardi, in una bella pagina dello Zibaldone (3 luglio 1820, quindi ben prima dei moti del Risorgimento) che oggi suona come geniale e preveggente intuizione, mette in guardia dai rischi di sposare l'ideologia puramente razionale e illuministica dell'Universalismo e del Cosmopolitismo. Gli uomini senza Nazione, senza Patria, senza Storia e senza Identità sarebbero certamente come atomi slegati tra loro meno protetti, più soli, quindi più deboli davanti ai Poteri, più facile preda degli Autoritarismi e Prepoteri di ogni sorta, dai super-Stati continentali che ne deriverebbero - integriamo noi - alle religioni, soprattutto quelle fanatiche che esportano terrorismo, ai grandi imperi finanziari trans-nazionali, ai grandi speculatori sui mercati borsistici (oggi raggoiungibili da ogni luogo via computer), fino allo stesso mostro di un "mercato" da burletta, quella una anonima globalizzazione economica senza padri e senza Patrie che smentisce l'equivalenza liberale nei diritti tra Offerta e Domanda, tra produttori e acquirent (cfr. Einaudi in Lezioni di Politica Sociale), e vede nei cittadini solo dei passivi e succubi "consumatori", privi di ogni potere perfino giuridico, quello che invece assicuravano bene o male i forti Stati nazionali deprecati non solo dall'ideologia sottostante del Manifesto di Ventotene, ma anche da molti liberali.
Invece, l'utopia anti-storica dell'Universalismo illuministico prevalse nel Manifesto di Ventotene.
«Altra via d’uscita non v’è, fuor di
quella di mettere accanto agli Stati attuali un altro Stato. Il quale abbia
compiti suoi propri ed abbia un popolo “suo”. Invece di una società di Stati
sovrani, dobbiamo mirare all’ideale di una vera federazione di popoli,
costituita come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione Elvetica. Gli
organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere
scelti dai singoli Stati sovrani, ma debbono essere eletti dai cittadini della
confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche
fondamentali del sistema. Gli Stati restano sovrani per tutte le materie che
non siano delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle
forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il
commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi punti che sono gli
essenziali e da cui si deducono altre nume-rose norme. Entro i limiti della
federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un
assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia
ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra non scomparirà,
ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute gigantesche le
forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare; finché esse non
scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla
mente degli uomini l’idolo immondo dello Stato sovrano» (Luigi Einaudi, in “Il
Risorgimento Liberale”, 3 gennaio 1945).
Certo, lo smarrimento, la
depressione d’un Dopoguerra così drammatico, giustificano questo volo
idealistico e utopico. Ma la Storia precedente, Storia di molti secoli, e i
bisogni dei popoli europei avrebbero dovuto consigliare più prudenza.
Queste considerazioni vengono in
mente ora, in tempi di dissoluzione di quell’embrione immaturo che è la
cosiddetta Unione Europea, parzialissima e difettosa burocrazia super-pagata
estesa prematuramente a troppi Paesi periferici che poco o nulla hanno in
comune con la tradizione dell’Europa classica, solo per far numero e simulare
artificialmente una “massa critica”.
Una “Unione” divisa come sempre, da
secoli, che vede in economia, immigrazione, eserciti, accordi industriali
strategici, commerci e politica estera il prevalere sistematico degli interessi
nazionali (“egoistici” li chiamano i Cattolici e i post-marxisti che ormai sono
tutt’uno; ma il termine è sbagliato: la Politica non è il Catechismo) dei
soliti Paesi, più forti non perché sempre con i conti economici in pareggio, ma
perché più prepotenti, come Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna.
Interessi, sia ben chiaro, che ormai sono veri e propri caratteri di cui
bisogna tener conto – guai a definirli moralisticamente “vizi”, alla cattolica
– caratteri naturali e antichi, comunque ben lontani dalle utopie del Manifesto
di Ventotene e, quel che è più grave, dalla retorica mistificatoria e
“buonistica” dagli Europeisti convinti di oggi, quando ormai tutte le prove provate
di politica, economia, costume e psicologia dei Popoli sono a disposizione di
chiunque.
Con questa nota prendo
definitivamente le distanze dal mio utopistico “europeismo” di adolescente
liberale già colto, certo, ma che scambiava, com’è tipico di molti giovani generosi
dotati di passione ideale e politica, i desideri con la realtà, l’essere con l’ideologico
dover essere. Un ottimismo nutrito di una certa ignoranza e immaturità, dato
che non conoscevo ancora la vera natura psicologica e utilitaristica dei vari Popoli
europei e l’ipocrita, falso, sentimento unionista dei ceti politici del
Continente. Tutti dati, però, che se non a un adolescente idealista, agli
sperimentati adulti di valore ed esperienza come Spinelli, Schumann, De
Gasperi, Martino e agli altri teorici visionari e pratici costruttori
dell’Europa dovevano cominciare ad essere ben chiari, in tempi di ritrovata
democrazia e di più frequenti comunicazioni internazionali.
Ma anche nel caso che dall’alto
delle proprie posizioni di Governo avessero intravista o prevista, ma
sottovalutata come “facile da superare”, la meschina ma naturale componente
egoistica, campanilistica e centripeta dei popoli europei, ebbene, quale “Democrazia
liberale” immaginavano, se si permettevano di assegnare alle élites al Potere
al momento delle decisioni un ruolo illuministico, “educativo”, coercitivo così
forte da essere, a differenza dell’Ottocento e del Risorgimento italiano, ormai
incompatibile con la moderna democrazia di massa?
Eppure, quella dei primi anni
Cinquanta, prima ancora del Trattato di Roma del 1957, era, ma loro non lo
sapevano distratti com’erano dalla dipendenza economica dagli Stati Uniti e
dalla diatriba con l’URSS e con le quinte colonne interne dei partiti comunisti
contratissimi all’Europa, la prima e l’ultima occasione storica degli
Europeisti. Altro che timidi Euratom e CECA (Comunità europea del carbone e
dell’acciaio), col senno di poi era proprio la Federazione Europea, il vero
super-Stato politico ed economico, col suo esercito, immaginato da Einaudi e
Spinelli, che con un folle colpo di mano avrebbero dovuto realizzare, mettendo
il Mondo di fronte al fatto compiuto. Ma questo non fu fatto per eccesso di
prudenza e mancanza di quel Genio che avevamo avuto nell’Ottocento.
Così, quando
fu realizzata la UE a Maastricht nel 1992, ancora in modo limitato e parziale,
era già tardi, troppo tardi. E come se non bastasse, tali e tanti sono stati
gli errori, tale il peso della non-decisione (o del decisionismo burocratico
più minuzioso) nei campi più importanti e più disparati, che l’idea, la stessa parola
dell’Europa ha finito per disgustare i popoli. Ora siamo addirittura alla
reazione popolare diffusa, all’anti-europeismo. La gente ha avuto il tempo di
pensare a storie patrie troppo diverse e divergenti, alle tante guerre europee
all’ultimo sangue durate secoli. E contro i Popoli uno Stato non può nascere. L’Europa
non si farà mai.
IMMAGINE. Mi conforta che anche Luca Ricolfi, sociologo ed editorialista di vari giornali, e il liberale crociano Corrado Ocone, con cui quasi sempre concordo, non ritengono il Manifesto di Ventotene un modello per noi cittadini dell'Europa di oggi.
AGGIORNATO IL 21 GENNAIO 2020
22 dicembre, 2017
I tre “miracoli” laici, oggi irripetibili, della nostra bella Costituzione, a 70 anni dall’approvazione.
VIVA LA COSTITUZIONE (e guai a chi la tocca). Oggi, 22 dicembre, ricorre il 70.o anniversario dell’approvazione quasi all’unanimità (un miracolo laico, tra tante passioni e ideologie, una contro l’altra) da parte dell’Assemblea Costituente (1947) del testo definitivo della Costituzione della Repubblica Italiana. Ci furono 458 voti favorevoli e 62 voti contrari. Rispetto ai tempi bizantini di oggi, i lavori erano stati rapidissimi, pur dovendo affrontare scelte fondamentali e questioni molto complesse: appena 1 anno e mezzo.
Fu subito chiaro anche agli occhi di osservatori stranieri che avevano seguito i lavori e studiato il testo – come notò il vecchio Ruini, pres. della ristretta Commissione dei 75 che aveva preparato il progetto presentato all’Aula – che si trattava forse della migliore tra tutte le Carte costituzionali, nonostante – disse – difetti, lacune, esuberanze e incertezze. Apparve uno scandalo, p.es., che i Comunisti approvassero la proposta dei Cattolici di recepire il Concordato nell’art.7.
Ma si era compiuto un doppio miracolo: mettere d’accordo in un tempo breve un quadro istituzionale tipicamente liberale (separazione rigorosa e bilanciamento sapiente dei Poteri, grande spazio a garanzie, diritti di libertà e alla loro realizzazione pratica, attivazione e corresponsabilità dei cittadini singoli, indipendenza della Magistratura ecc.) le visioni stataliste, comunitarie, solidaristiche, tipiche delle due Chiese (cattolica e marxista), che unite avevano la stragrande maggioranza nel Paese, con la visione liberale, individualistica, attivistica e fondata sulla cultura e responsabilità personale, già allora ormai minoritaria dopo la crisi del Liberalismo nel primo 900, ma che aveva un prestigio anche tra gli avversari molto più vasto dei suoi voti, se un Togliatti si alzava per andare ad ascoltare Croce da vicino (don Benedetto odiava il microfono).
Un terzo miracolo, davvero laico, fu il peso delle idee liberali, molto più rilevante dei loro numeri tra i Costituenti. E fu la salvezza dell’Italia, perché tutti e tre i maggiori partiti eletti alla Costituente nel 1946 erano totalmente estranei alla tradizione liberale del Risorgimento. E forse se ne rendevano conto, chissà, forse pativano un complesso d’inferiorità. (Democrazia cristiana, 207 deputati e 35 per cento dei voti; Partito socialista, 115 deputati e 20,7 per cento; Partito comunista, 104 deputati e 18,9 per cento dei voti). Fatto sta che i tre partiti minori, di ispirazione liberale, sia pure molto diversi tra loro, non furono affatto emarginati, anzi ebbero un prestigio e un peso tale da contare nell’Assemblea molto più dei loro voti (Unione democratica nazionale, 41 rappresentanti e 6,8 per cento; Partito repubblicano, 23 deputati e 4,4 per cento; Partito d’Azione, 7 deputati e 1,5 per cento).
Quei tre “miracoli”, l’accordo armonioso tra avversari, il tempo breve per l’accordo e la redazione del testo, e il rispetto unanime per le idee liberali sulla struttura dello Stato e le garanzie dei cittadini, oggi sarebbero forse impossibili. Ecco perché oggi non bisogna riformare la Costituzione: risulterebbe inevitabilmente sbilanciata, faziosa, mal fatta, subito deperibile.
Ma a ben vedere, non erano miracoli caduti dal cielo, condizioni casuali. Erano i frutti della grande cultura e dei grandi ideali della classe politica e dirigente d’allora, formatasi nella dura selezione dell’opposizione al Regime fascista. Nelle persone meno istruite, la scuola era stata almeno la strenua lotta contro la Dittatura, la tanta passione per la libertà, il patrimonio delle tante idee radicate e motivate, che allora una qualsiasi persona – liberale, cattolica o comunista che fosse – doveva avere per essere considerata “per bene” ed essere presentata candidata a rappresentare il Paese. Altro che oggi, quando ai cittadini elettori si presentano i peggiori. Con la motivazione – ovviamente non detta – che «essendo della loro stessa pasta, si spera che piacciano di più agli ignoranti senza idee e senza ideali che votano».
Il Testo costituzionale, poi, è bellissimo anche come lingua italiana (rivisto alla fine da Concetto Marchesi, comunista, grande filologo e latinista): ogni parola è chiarissima e semanticamente pregnante, neanche una può essere tolta senza compromettere l’intero articolo (a differenza dei testi legislativi attuali: prolissi-ridondanti-equivoci-burocratici, scorretti).
Insomma, anche per me è una bellissima Costituzione. Che infatti piacque, nonostante che si votasse con molta passione su testi preparatori e su ogni articolo, anche ai valenti grandi Liberali dell’Assemblea, tra cui Einaudi e Croce, e al grande giurista azionista Piero Calamandrei (ecco un passaggio del suo
commento ai giovani), gente colta e aperta, e nient’affatto ottusamente conservatrice o beghina come certi sedicenti pseudo-liberali e laicisti di oggi (in realtà o conservatori o, molto peggio, senza idee proprie, e quindi senza passione, capaci di tutto).
La Carta Costituzionale fu poi firmata il 27 dicembre da quel galantuomo liberale che era il capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, amato e rispettato da tutti, avversari compresi. Personalmente monarchico, fu un Presidente impeccabile che separò nettamente il suo ruolo dalle proprie convinzioni. E lo stesso si deve dire per il primo Presidente regolare, Einaudi.
Altri uomini, altri tempi, d’accordo; ma non è che nel frattempo i valori umani siano cambiati: ce ne fossero oggi! (dico io). Ma mi rispondo subito: gente così oggi non sarebbe presentata candidata dai Partiti, e se presentata per errore non sarebbe eletta. Perché oggi abbiamo in Italia una democrazia di massa, falsa, solo formale, in realtà solo oligarchica, non disinteressata, che non insegna al Popolo, che non mostra esempi, impersonata da gente arrivista, insieme ignorante, poco intelligente e furba, solo attratta dalla scalata sociale, dal Potere, perfino nei casi rari in cui non è attratta dal denaro.
IMMAGINI. 1. Il liberale Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75 dell'Assemblea Costituente, firma il 27 dicembre 1947 il testo della Costituzione della Repubblica italiana, tra il cattolico De Gasperi (Presidente del Consiglio dei Ministri) e il comunista Terracini (Presidente dell'Assemblea Costituente). 2. L'Aula di Montecitorio dove si svolsero le votazioni della Costituzione.
AGGIORNATO IL 28 DICEMBRE 2017
18 dicembre, 2017
La Chiesa invita a boicottare col bio-testamento la libertà dei malati terminali sulla fine della vita.
L'Arcivescovo di Torino,
Fransoni, fu processato e condannato a un mese di carcere per aver invitato il
clero a disobbedire alle leggi dello Stato, in particolare alle leggi Siccardi
(1850) che finalmente eliminavano alcuni intollerabili privilegi della Chiesa,
equiparando la legislazione piemontese (e poi italiana) a quella della maggior
parte degli Stati europei.
Oggi, oltre 160 anni dopo, l’arcivescovo di Torino,
Nosiglia, vuole inutilmente ripetere le gesta reazionarie del suo lontano
predecessore, invitando non tanto i fedeli cattolici a non ricorrere alla nuova
legge del “bio-testamento”, cioè alle ultime volontà del malato in caso di
rischio di “accanimento terapeutico”, di cure eccessive e inutili per una
malattia terminale o incurabile (compreso il tenere artificialmente e
crudelmente in vita con macchinari e alimentazione forzata una vita che la Natura
avrebbe già estinto in santa pace); ma la loro controparte, i medici, a
rifiutare autoritariamente (il loro rifiuto infatti ha conseguenze cogenti e
drammatiche sui malati, contro ogni principio di libertà) l’applicazione della
legge con una malintesa “obiezione di coscienza”, laddove per “coscienza” –
udite, udite – non s’intende quella del soggetto vero, il malato, ma quella del
medico!
E invece questa legge sul “bio-testamento”,
sia pure imperfetta e ancora molto moderata e sottoposta in troppi casi alla possibile
discrezionalità moralistica e paternalistica del medico (p.es. con la scusa di “nuove
terapie” scoperte nel frattempo), è pur sempre una scelta di civiltà. Una mediocre
legge è pur sempre meglio di niente. E incivili sono quelli che come volevano
impedire la sua approvazione in Parlamento, così ora vogliono impedire l’utilizzazione
della legge approvata non a se stessi, cosa del tutto lecita e sensata, ma agli
altri, che è una prepotenza autoritaria bell’e buona.
A differenza del suo omologo
ottocentesco, nei lontani e felici tempi di sensato e deciso Liberalismo laicista
attuato paradossalmente da una gloriosa classe politica risorgimentale in gran
parte di origine cattolica, oggi l’Arcivescovo di Torino non rischia nulla. Perché
i Cattolici sono ridiventati illiberali e arroganti, e ormai, grazie al famigerato
Patto Gentiloni, al Fascismo di Mussolini e a cinquant’anni di potere
democristiano, hanno il Potere in Italia, dove occupano tutte le cariche importanti,
comprese tutte le più alte cariche dello Stato, e dove sono infiltrati in
posizioni dominanti in tutti i Partiti, a cominciare da quelli di
pseudo-Sinistra.
Ma l’arcivescovo di oggi ha ancora
minori ragioni, perché stavolta la legge, quella sul fine vita, a differenza
della legge Siccardi non tocca il clero e quindi non intacca nessun suo
interesse diretto, ma si applica solo a quelli che la richiedono espressamente per
iscritto.
Con quale diritto, dunque,
alcuni esponenti della Chiesa si permettono di spingere alla disobbedienza di
leggi dello Stato? Quella dei Cattolici è dunque la solita prepotenza arrogante
di chi abusivamente (in base a quale mandato, a quale rappresentanza,
addirittura a quale precetto specifico sacro?) si è impossessato di quelli che
evidentemente sono reputati i temi cruciali della vita (nascita, sessualità,
matrimonio, morte) di tutte le persone, comprese le cattoliche dissidenti, gli
atei, i credenti in altre religioni, al puro scopo di impossessarsi in modo
obliquo di tutta la loro esistenza e quindi di avere il Potere, sia pure di
veto e di ricatto.
E' forse un ritorno
fondamentalista alle origini o alla lettera di qualche messaggio religioso? Gesù,
almeno come la Chiesa lo ha ricostruito a posteriori e descritto mettendo
insieme spezzoni disparati di biografie, allo scopo di conservare il Potere che
nel frattempo aveva conquistato, non è mai esistito. Ma ammettendo pure che sia
esistito, a limitarsi alle frasi a lui artificialmente attribuite dalla stessa
Chiesa, mai avrebbe assunto posizioni simili. Dunque, sono perfino
anti-cristiani. Perfino papa Woytila che desidera “morire in pace” smentiscono.
Basta con le secolari
prepotenze della Chiesa e le sottili crudeltà psicologiche dei preti cattolici.
È ora di finirla con le intromissioni della Chiesa cattolica, fossero pure i
tentativi di qualche suo esponente, nella vita quotidiana dei cittadini.
Nessun’altra Chiesa cristiana fa altrettanto, e per trovare qualcosa di
similmente autoritario bisogna arrivare all’Islam, che anzi fa di peggio, molto
peggio. Ma questo non deve autorizzare gli esponenti della Chiesa a imitarli
nel mettere il naso dappertutto. O la Chiesa diventa davvero liberale, cioè
rispetta gli altri, come auspicavano i grandi Cattolici Liberali che hanno reso possibile il Risorgimento, o non c’è alcun motivo valido per difenderla, tollerarla e
rispettarla.
09 luglio, 2017
Tornano le biografie. Ecco le vite e le opere degli uomini illustri che hanno onorato l’Italia di ieri.
Esiste, può esistere Cultura, cioè studio e culto delle Idee
e delle Memorie di una nazione, senza un genere letterario, anzi, di "letteratura civile", fino a tutto il Risorgimento e
perfino al primo Novecento fondamentale per la crescita degli Italiani, e oggi vergognosamente
negletto, come la biografia? La risposta non può che essere “no”. Salutiamo,
perciò, con vivo plauso una raccolta di ritratti biografici e ideali di uomini grandi e illustri
(e, anzi, è già da meravigliarsi che quasi tutti siano giudicati almeno illustri, perfino dall’attuale società), liberali per lo più, ma anche non liberali, che
hanno onorato l’Italia di ieri. E quanti ce ne vorrebbero, nella degradata
Italia di oggi, di personaggi del loro calibro! (NV).
“Figure dell’Italia civile” (*), l’ultimo libro di Pier
Franco Quaglieni, è una raccolta di trenta profili individuali di personalità a
lui “vicine”, sia che siano state fisicamente conosciute dall’autore, sia che
esse abbiano semplicemente avuto un ruolo nella sua formazione intellettuale e
siano state punti di riferimento nella sua attività di operatore culturale alla
guida del Centro “Pannunzio”. Il primo motivo di interesse dell’agevole volume
è il suo carattere biografico, un genere che la storiografia in Italia non ha
molto frequentato.
L’incontestabile influenza del marxismo nel secondo
dopoguerra ha indirizzato la ricerca e l’analisi piuttosto in direzione dei
movimenti, dei partiti o delle grandi correnti di pensiero, un contesto in cui
l’individuo in qualche modo rimaneva sullo sfondo.
Connesso a questo
atteggiamento è il giudizio critico nei confronti della civiltà liberale: di
qui il rifiuto nei confronti dell’individuo come membro di una classe
dirigente, di cui per molti anni ci si è preoccupati soltanto di dire male o di
non dire assolutamente nulla. Anni fa, Brunello Vigezzi sottolineava una
dicotomia tra civiltà individualista e “diritti” delle masse che, come è facile
immaginare, non ha giovato al genere biografico.
Figure dell’Italia civile dunque non è una semplice galleria
di personaggi illustri di cui si scrive con tono elogiativo, un qualcosa di
assimilabile alla biografia “pedagogica”, quella in cui gli uomini sono
rappresentati come depositari di sole virtù, come modelli ideali che il lettore
deve seguire. Anche se non si riscontra una esaustività del dato prettamente
biografico, qui si nota uno sforzo di collocazione dei personaggi citati nel
tempo in cui hanno vissuto, nel contesto sociale in cui hanno agito, con molta
attenzione ai luoghi in cui si sono mossi, al loro carattere ed anche alle loro
debolezze.
A ben guardare, le “vite parallele” di Quaglieni non servono
soltanto per una migliore lettura del “loro” tempo, ma costituiscono chiave di
interpretazione del presente.
In che cosa consiste questa “Italia civile” di cui
scrive? Che cosa accomuna Einaudi e
Spadolini, Chabod e Calamandrei, Pannunzio ed Ernesto Rossi, per citare
solo alcuni dei profili proposti: il percepire la libertà come un valore
assoluto e una conquista da difendere quotidianamente, il senso delle
istituzioni, l’amore per lo studio, la considerazione del valore della cultura
e del fatto che non ci può essere politica senza cultura, il senso del dovere e
dell’impegno quotidiano, la sobrietà di vita, il coraggio, anche di rivedere le
proprie posizioni e di riconoscere i propri errori, l’indipendenza di giudizio
e quindi la ripulsa di ogni atteggiamento “servile”. In quale misura questi
caratteri sono presenti oggi nella vita pubblica di questo Paese?
Difficile non condividere il tono sconsolato dell’autore;
tanto che potremmo facilmente cambiare il titolo del suo libro da Figure
dell’Italia civile in Figure di un’Italia perduta.
Se però proviamo a pensare a
quanta volgarità, a quanto conformismo ed anche a quanta violenza hanno dovuto
opporsi durante la loro esistenza gli uomini di cui ha scritto Quaglieni, il
suo libro diventa una piccola, ma significativa testimonianza di speranza.
GERARDO NICOLOSI
(*) Pier Franco Quaglieni. Figure dell’Italia civile, Torino,
Golem Edizioni, 2017.
30 giugno, 2017
Nel Manifesto di Oxford dell'aprile 1947 l’abc dei diritti di libertà del cittadino e del Liberalismo.
MANIFESTO DI OXFORD
Aprile 1947
Noi liberali di 19 nazioni, riuniti ad Oxford in tempo di
disordine, povertà, carestia e paura causati da due guerre mondiali;
convinti che le attuali condizioni del mondo sono largamente
dovute all’abbandono dei principi liberali;
affermiamo la nostra fede con la dichiarazione che segue:
1. – L’uomo è innanzi tutto un essere dotato del potere di
pensare e di agire liberamente e della capacità di distinguere il bene dal
male.
2. – Il rispetto per la persona umana e per la famiglia è la
vera base della società.
3. – Lo Stato è soltanto uno strumento della comunità: esso
non deve assumere alcun potere che possa venire in conflitto con i diritti
fondamentali dei cittadini e con le condizioni indispensabili per una vita
responsabile e creativa, e precisamente:
·
la libertà individuale, garantita da
un’amministrazione indipendente della legge e della giustizia;
·
la libertà di culto e la libertà di coscienza;
la libertà di parola e di stampa;
·
la libertà di associarsi o non associarsi;
·
la libera scelta dell’occupazione;
·
la possibilità di una piena e varia educazione,
secondo le capacità di ognuno e indipendentemente dalla nascita o dai mezzi;
·
il diritto di proprietà privata e il diritto di
iniziativa individuale;
·
la libera scelta del consumatore e la
possibilità di godere pienamente dei frutti della produttività del suolo e
dell’industria dell’uomo;
·
la sicurezza dai rischi di malattia,
disoccupazione, incapacità e vecchiaia;
·
l’eguaglianza dei diritti tra uomini e donne.
4. – Questi diritti e queste condizioni possono essere
assicurati solo da una vera democrazia.
La vera democrazia è inseparabile dalla libertà politica ed
è basata sul consenso cosciente, libero ed illuminato della maggioranza,
espresso in un voto libero e segreto, con il dovuto rispetto per la libertà e
per le opinioni delle minoranze.
II
1. – La soppressione della libertà economica conduce
inevitabilmente alla scomparsa della libertà politica.
Noi ci opponiamo a tale soppressione, tanto se è conseguenza
della proprietà o del controllo statale quanto se risulta da monopoli, cartelli
o trusts privati.
Noi ammettiamo la proprietà di Stato solo per le imprese che
vanno oltre le possibilità della iniziativa privata o là dove la concorrenza
non ha più modo di operare.
2.- Il benessere della comunità deve prevalere e deve essere
salvaguardato contro l’abuso del potere da parte di interessi particolari.
3.- Un miglioramento continuo nelle condizioni del lavoro,
nell’abitazione e nell’ambiente di vita dei lavoratori è essenziale. I diritti,
i doveri e gli interessi del lavoro e del capitale sono complementari; la
consultazione e la collaborazione organizzata tra datori di lavoro e lavoratori
è di vitale importanza per il buon andamento dell’attività produttiva.
III
Il servizio della comunità è il necessario complemento della
libertà e ad ogni diritto corrisponde un dovere.
Le libere istituzioni non possono funzionare efficacemente
se ogni cittadino non ha un senso di responsabilità morale verso il suo
prossimo e non prende parte attiva negli affari della comunità.
IV
La guerra può essere abolita, la pace del mondo e la
prosperità economica possono essere ristabilite soltanto se tutte le nazioni si
attengono alle seguenti condizioni:
a). la partecipazione leale a un’organizzazione mondiale di tutte le nazioni grandi e piccole, retta da
principi uniformi di diritto e di equità, con il potere di imporre la stretta
osservanza di tutte le obbligazioni internazionali liberamente contratte;
b). il rispetto per il diritto di ogni nazione di godere
delle libertà umane essenziali;
c). il rispetto per la lingua, la religione, le leggi e i
costumi delle minoranze nazionali;
d). il libero scambio delle idee, delle notizie, delle merci
e dei servizi fra le nazioni, e la libertà di movimento all’interno di ogni
Paese e fra Paese e Paese, senza gli ostacoli costituiti dalla censura, dalle
barriere commerciali protezionistiche e dalle restrizioni sui cambi;
e). lo sviluppo delle aree arretrate del mondo con la
collaborazione dei loro abitanti, nel loro vero interesse e nell’interesse del
mondo intero.
Facciamo appello a tutti gli uomini e a tutte le donne che
accettano questi ideali e principi perché si uniscano
a noi per ottenere la loro affermazione in tutto il mondo.
Conferenza dell'Internazionale Liberale
al Wadham College di Oxford
Aprile 1947
OXFORD MANIFESTO
April 1947
We,
Liberals of nineteen countries assembled at Oxford at a time of disorder,
poverty, famine and fear caused by two World Wars;
Convinced
that this condition of the world is largely due to the abandonment of liberal
principles;
Affirm our
faith in this Declaration:
I
1. Man is
first and foremost a being endowed with the power of independent thought and
action, and with the ability to distinguish right from wrong.
2. Respect
for the human person and for the family is the true basis of society.
3. The
State is only the instrument of the community; it should assume no power which
conflicts with the fundamental rights of the citizens and with the conditions
essential for a responsible and creative life, namely:
Personal
freedom, guaranteed by the independence of the administration of law and
justice;
Freedom of
worship and liberty of conscience;
Freedom of
speech and of the press;
Freedom to
associate or not to associate;
Free choice
of occupation;
The
opportunity of a full and varied education, according to ability and
irrespective of birth or means;
The right
to private ownership of property and the right to embark on individual
enterprise;
Consumer's
free choice and the opportunity to reap the full benefit of the productivity of
the soil and the industry of man;
Security
from the hazards of sickness, unemployment, disability and old age;
Equality of
rights between men and women.
4. These
rights and conditions can be secured only by true democracy. True democracy is
inseparable from political liberty and is based on the conscious, free and
enlightened consent of the majority, expressed through a free and secret
ballot, with due respect for the liberties and opinions of minorities.
II
1. The
suppression of economic freedom must lead to the disappearance of political
freedom. We oppose such suppression, whether brought about by State ownership
or control or by private monopolies, cartels and trusts. We admit State
ownership only for those undertakings which are beyond the scope of private
enterprise or in which competition no longer plays its part.
2. The
welfare of the community must prevail and must be safeguarded from the abuse of
power by sectional interests.
3. A
continuous betterment of the conditions of employment, and of the housing and
environment of the workers is essential. The rights, duties and interests of
labour and capital are complementary; organised consultation and collaboration
between employers and employed is vital to the well-being of industry.
III
Service is
the necessary complement of freedom and every right involves a corresponding
duty. If free institutions are to work effectively, every citizen must have a
sense of moral responsibility towards his fellow men and take an active part in
the affairs of the community.
IV
War can be
abolished and world peace and economic prosperity restored only if all nations
fulfil the following conditions:
a) Loyal
adherence to a world organisation of all nations, great and small, under the
same law and equity, and with power to enforce strict observance of all
international obligations freely entered into;
b) Respect
for the right of every nation to enjoy the essential human liberties;
c) Respect
for the language, faith, laws and customs of national minorities;
d) The free
exchange of ideas, news, goods and services between nations, as well as freedom
of travel within and between all countries, unhampered by censorship,
protective trade barriers and exchange regulations;
e) The
development of the backward areas of the world, with the collaboration of their
inhabitants, in their true interests and in the interests of the world at
large.
We call
upon all men and women who are in general agreement with these ideals and
principles to join us in an endeavour to win their acceptance throughout the
world.
Drawn up at the International Liberal Conference at Wadham College,
Oxford, in April, 1947
25 maggio, 2017
Radicali senza capo carismatico. Storicizzare Pannella e imparare con umiltà dai suoi errori.
Hanno fatto male i Radicali delle “due scuole” a surgelare il cadavere del "genio esibizionista e un po’matto" Pannella, riproponendolo ora in pillole quotiidiane (a un anno dalla sua scomparsa, quando scrivemmo questo
consuntivo politico) – con registrazioni radio, filmati agiografici e testi edificanti, come un Confucio, un Gesù, un Maometto qualsiasi. Sbagliano con i suoi “ipse dixit” apodittici che stavano bene in bocca a Lui, ma stonano in bocca a loro. Non è liberale per niente, anzi, tutto il contrario, molto irrazionale e pericoloso, basare le proprie scelte politiche sul "carisma" e sulla seduzione di un Capo, e ora sul ricordo e la nostalgia, anziché sull'ideologia, cioè sulle idee coerenti e sui programmi.
Ma sì, bisognerebbe abbandonare il vizio regressivo della nostalgia e finalmente storicizzare Pannella, consegnandolo definitivamente alla cronaca e alla Storia; riportarlo al tempo e alla complicata, spesso patologica, psicologia individuale che ne è all’origine; distinguere crocianamente “quello che è vivo e quello che è morto” del pannellismo, che fu un movimento “anti”, un’irripetibile variante del tutto personale del Radicalismo, movimento di sinistra liberale che non fu certo inventato da Pannella, ma che il giovane Pannella – facendo uscire i Grandi fondatori del Partito Radicale, e questo non è senza importanza – dirottò verso lidi mai stati del Radicalismo e del Liberalismo.
E quali sono in sintesi le novità del pannellismo rispetto al Radicalismo e Liberalismo storici? Il continuo movimentismo agitatorio, la protesta e le provocazioni continue allo scopo di pungolare la classe di Governo, la teatralizzazione e medializzazione dell'azione politica (non solo attuata, ma addirittura pensata in funzione di giornali e tv), la distruzione dell’esistente ma senza nessuna costruzione proposta in alternativa, l’abuso del referendum, l'uso patologico della seduzione da parte del leader, la polilalìa (uso eccessivo, patologico, della parola), l’Oriente della non-violenza di Gandhi, spesso non esente da violenza, e l’Oriente del Cristianesimo intransigente di Capitini, ma soprattutto la semplificazione estrema della Politica fino al populismo.
Insomma, i cittadini, l'uomo della strada, sono considerati onesti per principio, mai criticati, anzi sempre vittime, comunque titolari potenziali di sempre nuovi diritti; mentre lo Stato, i Governi, il Potere, sono l'origine di tutti i mali, l’equivalente dei “padroni” per i marxisti, la nuova “classe” oppressiva, la naturale controparte sociologica, per definizione autoritari e sempre colpevoli di tutto. Ignorando che anche nella peggiore democrazia liberale, come la nostra, Stato, Enti locali, Parlamento, Governo, Potere, non possono non essere fatti che di cittadini comuni, perfino troppo comuni negli ultimi decenni. E se sono così inadeguati, è per un gravissimo deficit culturale e psicologico dei singoli cittadini ed elettori. Problema questo (un popolo non educato alla democrazia), di cui mai ha parlato Pannella, per il quale “la colpa era sempre degli altri”: quelli più in alto. Guai ad addossare le colpe ai cittadini, elettori o no.
Senza contare la contraddizione atroce tra giusti nuovi diritti liberali richiesti e i modi non liberali con cui erano richiesti, anzi, pretesi subito, qui e ora, con frettolosità autoritaria, dopo decenni o secoli di sonnolenza, malcostume, burocratismo. Tutti elementi, compresa la sbrigatività un po’ ottusa e semplificatoria, non presenti, anzi lontane dal Partito Liberale e dal Partito Radicale originario, che avrebbero fatto rabbrividire Croce, Einaudi, Cavour, ma anche Pannunzio per il loro contenuto irrazionale, emotivo, carismatico, talvolta violento.
Inoltre, anche in economia, materia non presente per 30 anni nel messaggio pannelliano, a differenza dell’originario Partito di Rossi e Pannunzio, il “liberismo” estremo, ideologico, quasi anarco-individualista, di diversi giovani pannelliani d'oggi, non è mai esistito nel Liberalismo europeo, tanto meno italiano, se non come corrente di estrema minoranza, ed è da considerarsi, anzi, conservatore. Del resto, Cavour fondò l’antenata della Banca d’Italia, Zanardelli le Ferrovie dello Stato, Pannunzio e il Mondo fecero convegni sulla scuola pubblica e l’oculato intervento dello Stato in economia come garante delle regole del gioco e anche contro i monopoli privati.
Perciò, i pannelliani di oggi dovrebbero ora, approfittando dell’angolo visuale sempre più stretto, a mano a mano che passano gli anni dalla scomparsa di Pannella, decidersi finalmente a consegnare definitivamente questo personaggio geniale ed eccentrico, ma anche invadente, contraddittorio e imbarazzante per il Liberalismo, alla cronaca e alla Storia del Dopoguerra e, semmai, se si vuole conservare una testata politica tutto sommato dignitosa rispetto allo squallore di oggi, ripensare, proporre ai cittadini e ai politici, programmare e cercare di rendere popolari quei temi che Pannella, sbagliando per aver seguito solo il proprio carattere, non fece.
Per esempio, lasciar cadere le megalomanie di politica estera (come la balzana idea di una sempre più pericolosa Turchia “cavallo di Troia” in Europa), e occuparsi invece degli Italiani, specialmente dei loro diritti feriti o attenuati sull’ambiente, la cultura, l’arte (citati dal meraviglioso art.9 della Costituzione), l’agricoltura, l’alimentazione. Temi che non tratta nessuno, come se fossero “minori” o tecnici, ora che gli ecologisti sono spariti; e che invece sono fondamentali per la qualità della vita in Italia, che ha anche un debito nei confronti della Comunità internazionale, visto che Natura, Arte, Cultura, Antichità e Alimentazione appartengono a tutti.
E poi riprendere e sviluppare la critica radicale classica pre-pannelliana al difettoso o finto moderno “mercato libero”, in realtà inquinato da monopoli o cartelli, quindi una vera e propria dittatura dei produttori di beni e servizi, molto più potenti dei politici, ma mai criticati dai Radicali pannelliani. Eppure, a proposito di "diritto alla conoscenza", mentre i produttori tutto possono perché tutto sanno di quel che producono, gli acquirenti-utenti nulla possono perché nulla sanno di quello che acquistano: sono in un vero e proprio stato di dipendenza, perfino per i prezzi, spesso fuori mercato. E' una schiavitù consumistica.
E, vista l’ignoranza abissale degli Italiani rispetto ad altre Nazioni del Nord Europa, che è ancora analoga a quella pre-suffragio universale, altro che pendere dalle loro labbra perfino per referendum ultra-tecnici (p.es. la smilitarizzazione della Guardia di Finanza), ma al contrario educarli, continuare quell’opera di pedagogia e didattica popolare iniziata dai Liberali nel Risorgimento e poi interrotta da fascisti, clericali e comunisti, allo scopo di alfabetizzarli alla Politica, alla Scienza della Politica, alla Economia politica (a cominciare dall’einaudiano bilanciamento nella vita quotidiana tra domanda e offerta), alla Storia, come Croce insegna.
E infine misurarsi essi stessi non come portatori unici di Verità (alla Grillo, il cui motto è “prendere o lasciare”), ma dialetticamente confrontandosi con tutti, con la Politica e l’Amministrazione di ogni giorno (in questo, i Radicali Italiani, almeno, sono già sulla buona strada), lavorando per aggregare in futuro su una piattaforma ideale e un programma preciso un grande Soggetto unitario del mondo laico, razionale e anticlericale, contro i populismi di Destra, di Sinistra e di Centro. Il che andava fatto vari decenni fa, e comunque vuole tempi lunghi e non quelli brevissimi pretesi dalle scalette nevrotiche alla Pannella.
Questi sono i compiti storici, diretti ma anche di stimolo pedagogico per altre forze politiche, che ragionevolmente sono alla portata dei post-pannelliani. Che tutti i difetti possibili possono avere, tranne quello di non avere intelligenza, visto che gli riconosco la virtù di essere alcune spanne al di sopra degli comuni politici italiani. Il resto è emotività, nostalgia, regressione nell’irrazionale, che non fanno onore alla loro e alla nostra intelligenza.
AGGIORNATO IL 28 MAGGIO 2017