05 gennaio, 2012
Luigi Einaudi. Altro che Far West: Legge, Stato liberale e “liberalismo sociale” di mercato
Oggi chiunque prova a definirsi “liberale”, spesso con imperturbabile faccia di bronzo. Perché la parola, si sa, è bella, e può servire a coprire le proprie personali magagne o la propria irrimediabile mancanza di idee. Così abbiamo visto nel passato Governo e in questo degradato Parlamento (non che i precedenti fossero immuni…) più d’un politico corrotto e senza programmi, tranne quello dell’arricchimento personale a tutti i costi, definirsi “liberale”, come se il Liberalismo ai suoi occhi sottoculturali sembrasse – a causa del suo supposto “lassismo” – il sistema più adatto a coprire i trucchi, i maneggi, le illegalità e i favori della politica, nei suoi intrecci perversi con l’economia e la finanza.
Ebbene, una vulgata di tali politicanti di second’ordine vorrebbe che il “liberismo” einaudiano corrispondesse al puro e cinico “laissez faire, laissez passer” di cui si scriveva e teorizzava tra Settecento e Ottocento. Tutt’altro. La posizione di Luigi Einaudi, grandissimo esponente della cultura, dell’economia e della politica liberale, più citato che effettivamente conosciuto, rivela a chi lo legge, specialmente nelle sue bellissime Lezioni di politica sociale, il bel lato solidaristico del Liberalismo, attraverso una visione sorprendentemente moderna e agile, capace di coniugare senza sforzo mercato e tutela dei più deboli, lotta durissima ai monopoli pubblici e privati, uguaglianza nei diritti, rispetto delle regole, e iniziativa di uno Stato – lo Stato liberale, di cui sempre troppo poco si parla, ma che è pur sempre quello che ha fatto grandi le grandi democrazie liberali dell’Occidente – che non è assente, come si ritiene dai non-liberali o dai finti “liberali”, ma anzi, maieuticamente, deve facilitare, col minimo ingombro possibile, nientemeno che la libera realizzazione dei cittadini, cioè il loro uso delle libertà.
Basta per tutti – liberali e no – una pagina di Einaudi: "Va confutata la grossolana favola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare (*), e che il socialismo sia la stessa cosa dello Stato proprietario e gestore dei mezzi di produzione. Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adam Smith sia il campione assoluto del lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda;... ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire 'superata' l’idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista. Che i socialisti vogliano dare allo Stato la gestione compiuta dei mezzi di produzione è dettame talvolta scritto nei manifesti elettorali, ma ripugnante ai socialisti che aborrono dalla tirannia dello Stato onnipotente, e tali sono tutti i socialisti" (Luigi Einaudi).
Per di più, Einaudi non era affatto appiattito sugli interessi degli industriali, come sono comprensibilmente molti ex-fascisti, ex-comunisti o conservatori riciclati che si spacciano per “liberisti”, mostrando la loro enorme coda di paglia. Ed era anche strenuo difensore della Natura e dell’ambiente. Niente privilegi per le aziende, insomma, neanche di impunità in caso di inquinamento: “Questa del fumo e della polvere intollerabile che esce fuori dalla zona industriale di Pozzuoli e dalle altre… è una prova del disprezzo protervo che troppe imprese industriali private e pubbliche dimostrano verso l’interesse pubblico. Devono certamente esistere dispositivi tecnici grazie ai quali è possibile ridurre al minimo i danni del fumo e della polvere. I dispositivi costano per spese d’impianto e di esercizio, ma non è lecito a coloro che godono i profitti o prediligono le perdite sperate o temute nelle industrie, liberarsi da quei costi solo perché essi sono sopportati da altre categorie di cittadini”. (Luigi Einaudi, In difesa dei monumenti e del paesaggio, 29 luglio 1954). E ancora: “La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi, se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli italiani. Significherebbe che lo stato intende vegliare affinché, dopo secoli di distruzione, si salvi quel poco che resta delle foreste e del suolo delle Alpi e degli Appennini e si ricostruisca parte di quel che fu distrutto”. (Della servitù della gleba in Italia, 15 dicembre 1951).
Ecco perché questi due illuminanti brani di Einaudi li abbiamo posti a dedica, con altri di Croce e Bentham, nel colonnino a destra del nostro anticonformistico blog di Ecologia Liberale.
E sulle tasse? Il liberalissimo Einaudi è per l’imposta sui patrimoni, cioè sui ricchi, anziché quella sui consumi, che colpisce indiscriminatamente tutti i cittadini, soprattutto i poveri. Chi glielo dice a quegli imbroglioni di sedicenti “liberali” di oggi (oggi tutti si dicono liberali), al Governo o all’opposizione? Leggiamolo sul suo libro, “Lo scrittorio del Presidente” (pp. 282-285:
«Certamente la distribuzione del carico tributario potrà e dovrà mutare in Italia, diminuendo la quota gravante sui consumi e crescendo la quota gravante sui redditi e sui patrimoni». E ancora: «La distribuzione del carico è sperequata a danno dei consumatori, ossia della generalità dei cittadini, ed a favore degli agiati e dei ricchi. Le statistiche ci dicono che le imposte dirette hanno fruttato negli ultimi esercizi dal 14 al 16% e quelle indirette circa l’80% delle entrate totali». Fatto sta – calcola – che della tassazione «oggi in Italia forse il 33% colpisce i redditi ed i capitali ed il 66% i consumi. La proporzione dovrà essere cambiata» (1956)
Sorpresi? Ne siamo sicuri. E perfino non pochi giovani e vecchi liberali doc saranno meravigliati dall’apprezzamento che il Presidente Napolitano, ex comunista, ma certo uno dei più “einaudiani” e quindi più illuminati Presidenti della Repubblica, ha fatto in più occasioni della figura di Einaudi (l’ultima è stato un articolo su Reset).
Così, il grande liberale Einaudi – bastava leggerlo – comincia a piacere perfino a Sinistra, tanto è sfaccettato, completo, bipartisan, intriso di buonsenso e umanità, rigore ma anche solidarietà e progressismo sociale il Liberalismo che raffigura. E dopo decenni di silenzio o di ostilità preconcetta verso chiunque parlasse bene del mercato libero (incomprensione frutto di un deficit culturale che dura tuttora nell’estrema Destra, nel Centro integralista cattolico e nella Chiesa, oltreché nella Sinistra, compresi molti ecologisti), la Sinistra più laica (ex PCI), la stessa che in passato fu crociana, oggi è addirittura einaudiana, perché ha scoperto che a saperlo rettamente intendere e governare il liberalismo economico potrebbe essere la medicina efficace per molti problemi della società moderna, non escluso quello della crescente divaricazione tra le condizioni dei diversi ceti. Perché la lotta ai privilegi, ai monopoli e al parassitismo che realizza efficacemente l’economia liberale permette davvero quella eguaglianza nelle libertà e quella centralità democratica del cittadino (la “domanda”) che socialismo e comunismo non hanno potuto né potrebbero mai dare. Del resto, il miglior allievo di Einaudi, Ernesto Rossi, è sempre stato apprezzato anche dalla migliore Sinistra.
Fa piacere, perciò, ed è molto illuminante, che la rivista Reset abbia dato spazio a Einaudi e alla riscoperta del valore liberatorio e progressista del mercato, purché davvero libero, proprio in favore delle classi più svantaggiate. Bello, approfondito e originale (sottolinea qualche aspetto di Einaudi poco noto agli stessi liberali…) l’inserto monografico a più voci (“Il Liberalismo di Einaudi”) pubblicato da Caffè Europa, rivista della medesima area, a firma degli intellettuali Enzo Di Nuoscio, Paolo Heritier, Paolo Silvestri, Corrado Ocone e Flavio Felice. Di questa monografia pubblichiamo il bell’articolo-saggio a firma di Enzo Di Nuoscio, col quale concordiamo totalmente da einaudiani della prima ora. NICO VALERIO
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“In tempi, come i nostri, in cui circola una buona dose di liberalismo à la carte, pronto a ignorare i princìpi pur di compiacere i prìncipi, magari teorizzando che la rivoluzione liberale possa farla un pluri-oligopolista e arrivando persino a sostenere che Giovanni Gentile debba essere considerato un autorevole liberale; tempi nei quali alcuni che si dichiarano liberali sembrano colti da amnesie prolungate e molti critici del liberalismo ne danno una versione di comodo, leggere Luigi Einaudi è un salutare esercizio che rafforza lo spirito critico e le difese immunitarie della nostra liberal-democrazia. Se è vero, come ha scritto Italo Calvino, che è classico un autore «che non finisce mai di dire tutto quel che ha da dire», certamente Einaudi può essere oggi considerato un classico del pensiero politico, oltre che di quello economico, proponendo un liberalismo non riducibile ad astratti cliché, tanto pragmatico nella soluzione dei problemi quanto inflessibile sui principi, tanto legato alla vita quotidiana quanto ancorato ai grandi classici della tradizione liberale. Un liberalismo che alla crociana «filosofia della libertà» preferisce la difesa dei presupposti epistemologici e delle condizioni economiche e sociali che permettono agli uomini di essere non solo liberi ma anche solidali.
Tra le tante tesi di Einaudi che hanno attraversato il «secolo breve» credo che ve ne sia soprattutto una che dovrebbe essere considerata un prezioso orizzonte teorico per alcuni fondamentali problemi del tempo presente: l’idea che la giustizia sociale possa essere una conseguenza del mercato e, più in generale, della competizione interindividuale, nell’ambito di un quadro di regole stabilite; in altri termini, che il «principio di uguaglianza» può e deve essere inteso come la massima realizzazione del «principio di libertà», nel rispetto del «principio di legalità». Idee, queste, di cui si troverà ben più di un’eco in Socialismo liberale di Carlo Rosselli, che di Einaudi è stato giovane e brillante assistente alla Bocconi, e alle quali hanno consacrato buona parte delle loro riflessioni esponenti di spicco del liberalismo (come Mill, Hayek e i teorici dell’«economia sociale di mercato»), a conferma del fatto che solo l’ignoranza o il pregiudizio ideologico può indurre a sostenere che i liberali non si sono posti il problema della giustizia sociale. Dopo il crollo del comunismo e la irreversibile crisi dello statalismo socialdemocratico, questi principi, che hanno ispirato l’intera riflessione einaudiana, possono rappresentare oggi un prezioso terreno di incontro tra differenti tradizioni politiche e culturali, socialiste e liberali, laiche e cattoliche.
Concorrenza e solidarietà. Conoscitore come pochi altri dei classici dell’economia e dell’empirismo inglese, Einaudi è consapevole che l’economia di mercato è frutto di un processo evolutivo che non si può certo pianificare dall’alto. E tuttavia ciò non gli impedisce di assegnare un ruolo tutt’altro che marginale allo Stato, di difesa e di promozione della concorrenza, non solo da nemici esterni al capitalismo (pianificatori di tutti tipi), ma anche dai suoi più subdoli e sempre in agguato nemici interni.
Tre sono i principali compiti assegnati da Einaudi a uno Stato il quale voglia che la concorrenza produca efficienza economica, solidarietà sociale e democrazia politica: combattere i monopoli, intervenire fuori dal mercato per migliorare le chance dei meno abbienti e assicurare il rispetto della legge. Un vero Stato liberale deve dichiarare guerra ai monopoli, i quali, riducendo il potere di scelta dei consumatori, annullando l’incentivo all’innovazione rappresentato dalla concorrenza e imponendo i prezzi dei beni e servizi, sono «il nemico numero uno dell’economia libera», nonché fonte di «disuguaglianze sociali», consentendo di realizzare profitti che in realtà sono «un ladrocinio commesso ai danni della collettività». Dunque, l’eliminazione per quanto possibile dei monopoli deve essere «uno dei principali scopi della legislazione di uno Stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno».
Ma i monopoli minacciano non solo gli interessi dell’individuo-consumatore, ma anche i diritti dell’individuo-cittadino. Le libertà civili e politiche sono «un fatto strettamente connesso con la struttura economica della società»; e ciò perché dare all’uomo «la sicurezza della vita materiale, la libertà dal bisogno» è la condizione a che egli sia «veramente libero nella vita civile e politica, davvero uguale agli altri uomini e libero dall’obbligo di ubbidire a essi nella scelta dei governanti, nella manifestazione del pensiero e delle credenze».. Ciò significa, afferma Einaudi in polemica con Croce, che «la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica». Stabilendo un «privilegio esclusivo» sui mezzi di produzione, il monopolio riduce quindi anche le libertà civili e politiche dei singoli. «Vi sono due estremi, spiega Einaudi, nei quali sembra difficile concepire l’esercizio effettivo, pratico, della libertà: all’un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; all’altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: e ambedue sono fatali alla libertà». Dunque, la «lotta contro le ingiustizie e le disuguaglianze ha il nome della lotta contro il monopolio», il quale «sta alla radice della sopraffazione dei forti contro i deboli, e delle punte di ricchezza stravaganti e immeritate».
Quanto all’eliminazione dei monopoli naturali storicamente affermatisi sulla base di «necessità economiche» (si pensi a molti servizi pubblici), per Einaudi, nemico come pochi di ogni ideologismo, non ci sono soluzioni precostituite, ma c’è soltanto un principio da affermare, caso per caso e con gradualità: evitare di sostituire un monopolio pubblico con uno privato e invece introdurre anche in questi settori forme limitate di concorrenza, adottando gli opportuni provvedimenti per evitare che la competizione non danneggi la qualità delle prestazioni e non renda questi servizi di pubblica utilità economicamente inaccessibili per i più svantaggiati.
Strettamente legata alla lotta contro i monopoli, per Einaudi è la battaglia per la libertà di associazione sindacale. Le leghe operaie non solo «non contraddicono lo schema della concorrenza, ma sono uno strumento perfezionato della piena e più perfetta attuazione di quello schema». Mediante le associazioni di interessi, i soggetti della competizione tendono, infatti, a ridurre le asimmetrie conoscitive per risolvere al meglio i loro problemi. Ne risulterà quindi una concorrenza più efficace nell’esplorazione dell’ignoto; a condizione che si evitino sindacati monopolisti (degli operai e degli imprenditori).
Ridurre le differenze. Ma affinché la logica della concorrenza assolva pienamente alla sua funzione di motore del progresso umano non basta combattere i monopoli e difendere la concorrenza, occorre anche che gli individui siano messi in condizione di competere attraverso un intervento dello Stato a sostegno di coloro che non sono in grado di sostenere la concorrenza. Il «principio di libertà» trova il suo completamento nel «principio di solidarietà».
Esule in Svizzera, nel 1944 Einaudi scrive le Lezioni di politica sociale, opera matura di un intellettuale consapevole che le vicende storiche dell’ultimo ventennio trovavano nella lacerazione del tessuto sociale una delle cause più importanti. E allora, nella sua concezione pluralista e dinamica della società, incentrata sul principio di competizione, trova posto una impegnata riflessione sul tema della solidarietà sociale, nel tentativo di proporre un «liberalismo della povera gente».
Nelle Lezioni Einaudi disegna i tratti di una solidarietà liberale che non solo non è incompatibile con le leggi dell’economia di mercato, ma che è funzionale proprio a potenziare la capacità di problem solving del principio di competizione. L’obiettivo strategico che deve perseguire una efficace «legislazione sociale», a giudizio di Einaudi, è quello di «avvicinare, entro i limiti del possibile, i punti di partenza» degli individui, affermando «il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita». Un minimo che non induca i singoli all’ozio, che «non sia un punto di arrivo ma di partenza; un’assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini». Lo Stato liberale, quindi, non solo deve garantire l’uguaglianza giuridica dei cittadini, ma deve anche intervenire, non per tentare di realizzare il miraggio di una uguaglianza sostanziale, incompatibile con i principi liberali, bensì per migliorare le chance dei più svantaggiati. Imposte progressive, tasse di successione sulle grandi eredità, assicurazioni contro gli infortuni, assegni familiari per i figli, pensioni di vecchiaia, servizi pubblici gratuiti, sussidi per i disoccupati, sono i principali strumenti della politica sociale immaginata da Einaudi per uno Stato liberale. Questa sensibilità per la solidarietà sociale porta inevitabilmente Einaudi a mettere a confronto liberali e socialisti. Se tra liberalismo e comunismo vi è un «abisso invalicabile», perché il comunismo elimina libertà individuali e proprietà privata, tra liberalismo e socialismo democratico vi sono più o meno significative differenze di grado. «Liberali e socialisti sono concordi nel sentire il rispetto per la persona umana» e «sono parimenti persuasi che la verità si conquista» solo attraverso la «libera discussione». Liberali e socialisti, inoltre, concordano sul fatto che «tutti sono uomini e hanno diritto a tutta quella libertà di opinare e di operare, la quale non neghi l’ugual diritto di tutti gli altri uomini».
Ma, oltre che sul terreno della libertà, liberali e socialisti possono fare un significativo tratto di strada comune anche sul quello dell’uguaglianza: sono d’accordo sull’eguaglianza giuridica dei cittadini e sull’impossibilità e irrealizzabilità di una «eguaglianza assoluta o aritmetica». E convergono anche sulla necessità di interventi statali per ridurre eccessive disuguaglianze. Ciò su cui si dividono non sono i «principi», ma i «limiti» e le «applicazioni» delle politiche di intervento. Ad esempio i socialisti «oltrepassano il punto critico della progressività delle imposte», perché, sulla base di un’idea «manifestamente sbagliata», pensano che «il vero problema sia quello della distribuzione della ricchezza, e non più, come in passato, della sua produzione».
Inventare un altro nome. Nonostante queste differenze, che possono essere anche molto accentuate, quello tra liberalismo e socialismo democratico è «un contrasto fecondo e creatore», perché in esso si esprime quel confronto tra idee che è alla base del progresso sociale. I liberali, dunque, sono anch’essi favorevoli a un certo grado di intervento dello Stato, cosicché per identificarli «bisognerebbe inventare un altro nome» rispetto a quello di «liberisti», «tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laisser faire, laisser passer». La vera linea di demarcazione tra liberali e socialisti non è «fra chi vuole e chi non vuole l’intervento dello Stato nelle cose economiche, ma tra chi vuole un certo tipo di intervento e chi vuole un altro tipo». Per cui «va confutata ancora una volta la grossolana favola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare e che il socialismo sia la stessa cosa dello Stato proprietario e gestore dei mezzi di produzione.
Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adam Smith sia il campione assoluto del lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire «superata» l’idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista. Che i socialisti – conclude Einaudi – vogliano dare allo Stato la gestione compiuta dei mezzi di produzione è dettame talvolta scritto nei manifesti elettorali, ma ripugnante ai socialisti che aborrono la tirannia dello Stato onnipotente, e tali sono tutti i socialisti».
Il «governo della legge». E tuttavia il «principio di libertà» può generare solidarietà solo nel rispetto del «principio di legalità». La competizione economica e politica, e più in generale la «lotta» per la difesa dei vari interessi, possono essere al servizio del progresso umano solo se si svolgono nell’ambito di uno Stato di diritto nel quale viga «l’impero della legge», una legge che stabilisca vincoli «uguali per tutti, oggettivamente fissati e non arbitrari», e che come prima cosa difenda gli individui dall’«onnipotenza dello Stato» e dalla «prepotenza dei privati». Il cittadino, quindi, «deve ubbidienza alla legge e a nessun altro fuori che alla legge»; la quale deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio di nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». «Nel regime liberale la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; e i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica». E l’esperienza «dei millenni e dei secoli dimostra l’eccellenza del metodo della cornice», cioè di regole che lasciano un margine di azione agli individui, liberi di agire nell’ambito dei confini stabiliti dalle norme.
Affinché la legge assolva a pieno alla sua funzione di regola del gioco sociale è necessario che essa venga fatta rispettare da «magistrati ordinari, indipendenti dal re, dal potere esecutivo e da quello legislativo» e «posti al di fuori e al di sopra dei favori del governo». Un paese – incalza Einaudi – «nel quale i giudici non siano e non si sentano davvero indipendenti, i quali non siano chiamati a giudicare in nome della pura giustizia, se occorre, anche contro le pretese dello Stato, è un paese senza legge, pronto a piegare il capo dinanzi al primo demagogo venuto, al tiranno, al nemico». «Il presidio maggiore della libertà dei cittadini in Inghilterra – non esita ad affermare Einaudi – è l’indipendenza della magistratura. La celebre risposta del mugnaio di Sans-Souci a Federico II, il quale voleva le sue terre: «ci sono i giudici a Berlino!», è la dimostrazione che quella prussiana era una società sana; e la sua resistenza a Napoleone ne fu la prova».
Un liberale, dunque, chiede ai magistrati che «facciano osservare contro chiunque, ricco, potente o povero, la legge quale essa vige, approvata dal parlamento o dal re, e condannino chiunque la violi o pretenda di farsi legge del proprio arbitrio. E ciò facciano nonostante le raccomandazioni e le pressioni dei potenti, dei governi, dei prefetti, dei ministri, dei giornalisti e dei demagoghi». Certo, non si fa illusioni Einaudi, «questa non è evidentemente una via regia o dritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi, tutto il contrario. È una via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa e incerta». E ciò perché «gli uomini devono fare esperimenti a loro rischio, debbono peccare e fare penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per conto loro e a loro nome quel che debbono fare o non fare, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità».
ENZO DI NUOSCIO
(*) L’espressione francese “laisser faire, laisser passer”, nata nel 700, è stata fino ai primi del 900 un modo comune tra politici e filosofi della politica (più che tra gli economisti, come scriveva J.M.Keynes) per dire quello che noi oggi definiremmo liberalismo economico spinto, liberismo (solo noi Italiani) selvaggio, ideologia del mercato libero, economia libera senza regole ecc. E diventò rapidamente un’espressione-mito, positivo o negativo che fosse, oggi reperibile solo nei testi. Da ricordare il libro La fine del laissez faire di Keynes (1926), autore considerato il massimo esponente dell’interventismo statale in economia. Che, curiosamente, confermò sempre la sua iscrizione al Partito Liberale inglese.