24 maggio, 2007

 

Costi della politica. E perché, i costi della società italiana sono meno pesanti?

Borbottare è il vizio dei deboli. Sì, ma dei deboli un po’ cinici, a quanto pare. Tutti in Italia parlano male dei politici. Molto più che nei Paesi protestanti, e più o meno come in Sud America e nel sud del Mondo, cattolico o no: "Sono corrotti, inefficienti, costano troppo, pensano solo al proprio potere, si oppongono alle riforme". E così via.
Vero, naturalmente. Ma nessuno accenna mai ai "costi della società" in Italia, ben più salati di quelli della politica. Ricordare i dati della sociologia e, peggio, dell’antropologia, non è mai considerato politicamente corretto. Sembra quasi che uno voglia dire: "Che volete farci? E’ la società". Immutabile. Insomma, per non fare nulla. Per bloccare le riforme.
No, al contrario, la lettura è un'altra. I mali non sono soltanto politici in Italia, ma sociali, psicologici e antropologici, insomma radicati nella mentalità e negli usi del popolo. E le necessarissime riforme liberali devono perciò essere fatte in profondità, devono prendere le mosse dall’educazione, cioè dalle radici. Per questo devono essere radicali.
E invece il malcontento può essere addirittura una spia negativa. Vi ricordate i sonetti romaneschi del poeta satirico Trilussa?
Questo lamento continuo del popolo italiano nei caffè, nei salotti, in autobus, su internet, perfino in spiaggia, che nei Paesi anglosassoni avrebbe connotazioni nobilmente etiche, in casa nostra nasconde qualcosa di vile, di ipocrita, di losco. Per almeno due motivi.
Intanto, molti Italiani contraddicono quanto vanno lamentando e fanno a gara - specialmente nelle aree più depresse - per essere eletti deputati, senatori, consiglieri di regioni, province, circoscrizione, comunità montane, Asl ecc. La politica la vedono, cioè, più come una "sistemazione", un impiego di lusso, che come dedizione alla causa comune, come servizio sia pure ben pagato alla comunità. Cioè vogliono far parte proprio della classe dei privilegiati che condannano. Bella coerenza morale. Al paese mio la chiamano "invidia".
Ma il secondo motivo è ancora meno nobile, se possibile. E’ che il grande lamento serve da scusa per l'accidia, la pigrizia, la mancanza di coraggio, insomma il "non fare". L’italiano medio "parla" male della politica anche perché questo lo esime dal "fare" qualcosa di concreto. Come dire: "Che altro debbo fare? Ne sto parlando da sempre!"
Gli Italiani sono coerenti, invece, quando preferiscono in massa i comodi impieghi pubblici (e non più solo al Sud, ormai: l’Italia si è del tutto meridionalizzata, ecco perché si è aggravata la sua decadenza), dove qualunque sia il tuo stipendio, modesto o ricco, dall’uscere al giudice, nessuno ti licenzia, o controlla se lavori o no, quanto produci, in quanto tempo smaltisci una pratica, se risolvi i problemi o no.
Sarà lontano, certo, da quelli dei politici, ma l’impiego pubblico nel suo piccolo è un privilegio del tutto analogo.
Tutti conosciamo professionisti, commercianti e prestatori d’opera che si rifiutano di rilasciare ricevute o evadono le tasse. Ma insospettisce lo strano moralismo sulla classe politica da parte di dirigenti e funzionari dello Stato, professionisti, bottegai, artigiani e industriali, anche perché o non conoscono o non rispettano la concorrenza, e così lucrano in regime di quasi monopolio o rendita di posizione. La conseguenza è che comunque, sia pure in ambiti così disparati, non si permette al cittadino-consumatore di punire il demerito e premiare il merito con le proprie scelte.
Nel loro piccolo, neanche gli Italiani meno fortunati scherzano in quanto a disonestà quotidiana. Non la politica in particolare, dunque, ma l’intera società italiana è così conservatrice, così attenta a tutelare i propri privilegi, che non sembra possibile riformare la prima senza prima purificare e rieducare in profondità la seconda. E avevano visto giusto i liberali della prima Italia unita, e il più illuminato sindaco di Roma, Nathan, a vedere nella scuola il primo motore del rinnovamento morale e civile degli Italiani. Ma oggi la scuola è una struttura che ha perso dignità e scopi primari, e conserva se stessa, cioè i propri impiegati.
Con quale faccia tosta, perciò, l’Homo italicus si permette di criticare le spese di Regioni e Asl, o i costi del Parlamento, quando egli stesso si ritiene uno che "sa vivere", che "sa stare in società", cioè un "furbo", perché abituato ad aggirare divieti, ad infrangere leggi, a raccomandare e a farsi raccomandare in barba al merito? Davvero la moralità in Italia deve tuttora riguardare solo gli altri, magari i nemici, ma mai se stessi, il proprio Partito, la propria famiglia, i parenti, gli amici?
Amici? Molti scrittori anglosassoni e Goethe, teorico dell’amicizia in base alle intellettive e spirituali "affinità elettive", escludono che l’italiano, nonostante che abbia sempre in bocca la parola "amico", sia davvero portato all’amicizia più che all’interesse, cioè a uno scambio di favori.
Si può discutere se tutto questo sia avvenuto per colpa dei levantini della Magna Grecia (la città di Neapolis, Napoli, dove si parlò greco fino all'800 dC, così corrotta che già la Repubblica Romana vi inviò i consoli per moralizzarne la vita pubblica e dirimere le controversie. Altro che "colpe" dei piemontesi, dei Savoia o di Garibaldi, come vanno cianciando i meridionali...), oppure se all'origine ci siano i rais musulmani o i corrotti viceré spagnoli. Ma non per caso l’unica istituzione salda e sicura del sud Italia, la Mafia, aveva come prima denominazione "Società degli Amici".
"Amico" è, anzi deve essere considerata, un brutta parola in Italia. Disprezzate coloro che dicono, parlando di terzi: "E' un amico".

Comments:
Peccato, ho perso il mio commento al tuo articolo. Lo sintetizzo qui.
Avevo mosso alcune obiezioni al tuo articolo che sposta il biasimo verso la classe politica ('la politica' è una astrazione) alla società sottolineando i costi eccessivi di questa più che di quella. Ti obiettavo che una (la società) è conseguenza dell'altra (la classe politica che l'ha costruita nel tempo). Condividevo invece la considerazione di elemento amorfo verso il popolo italiano diviso in 'mandrie' contrapposte col cimiero in testa, piuttosto che coacervo di liberi cittadini autonomamnete pensanti. Ma anche qui rilevavo che -se la dura lotta politica italiana di sopravvivenza liberale ha formato i cittadini durante la 'guerra fredda' tra i blochi è finita- nessun leader politico ne ha preso atto, preferendo la persistenza di attivisti e portaborse pedissequi alla linea. Di questi ha imbottito i partiti sotto il segno dell' ut o des creando una 'casta' -come scrivono Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella- che monopolizza il potere di tutti riducendo la democrazia ad un simulacro.
Ciao.
pier luigi baglioni, blogger in genova
 
Caro Baglioni, io ovviamente sulla classe politica la penso esattamente come te (ormai ci conosciamo) e come Gerardo Mazzotti (v. articolo precedente sullo "sfoltimento" del personale politico). Anzi, se possibile, sono anche più duro.
E' chiaro che ogni classe politica è espressa dalla società.
Solo, mi piacerebbe che almeno cospicue minoranze della società italiana (p.es., i cosiddetti "laici") avessero quel minimo di spina dorsale, dignità e combattività, che le autorizzerebbe sul piano morale e perfino politico ad esigere politici diversi.
Così, invece, non è. Per colpa appunto della società italiana.
 
Mi viene in mente quella merdaccia del mio giornalaio. Spara a zero contro il sindaco diessino, ma ha l'esclusiva sulla fornitura di giornali a tutti gli uffici comunali.
 
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