23 febbraio, 2007
Laicità, laicismo e anticlericalismo. Parole chiare e forti per i liberali. Ma attenti agli errori.
Saggio
LAICITÀ, LAICISMO, ANTICLERICALISMO
.di NICO VALERIO*
*Lezione tenuta alla Scuola di Liberalismo, Roma 22 febbraio 2007.
Il Caso, che può esser visto anche come una forma occulta di razionalità, ha voluto che questa conversazione ("Laicità, laicismo, anticlericalismo") venisse a cadere pochi giorni dopo le celebrazioni, tra il presidente Prodi e il cardinale Segretario di Stato Bertone, del rinnovato Concordato del 1984, e subito dopo la caduta d’un Governo che a dar retta ai dietrologi più arditi "oltre all’America, aveva irritato troppo il Vaticano con la legge sulle coppie di fatto"..Siamo in un momento politico in cui l’anticlericalismo, da sempre componente minore ma anche mezzo di autodifesa estremo del Liberalismo, è presente più nelle accuse preventive degli anti-laici che in quelle dei laicisti. In realtà, il mondo liberale, di qualunque corrente culturale o schieramento politico, si limita come nell’800 a chiedere l’indipendenza dello Stato da tutte le chiese, riguardo al diritto, alle istituzioni, alla scienza, alla vita sociale, alla morale, all’economia e al fisco. La stessa libertà religiosa - dicono i liberali - dovrebbe attuarsi compiutamente senza privilegi per nessuno, solo se tutte le confessioni sono su un piede di parità di fronte alla legge e alla prassi istituzionale. Insomma, una vera laicità dello Stato, pretendono i laicisti liberali.
Senonché, una vulgata recente, di origine giornalistica e conservatrice, cerca di incuneare differenze semantiche tra "laicità" e "laicismo", considerando quest'ultimo un termine peggiorativo. Ma è smentita dalla tradizione liberale, oltre che dai dizionari. Anzi questa mistificazione terminologica è essa stessa un’operazione anti-laicista, volta a creare artificialmente un nuovo uso. Per il Gabrielli, infatti, laicità e laicismo, laico e laicista sono termini contigui, senza alcun contrasto. Anzi il termine base che spiega gli altri non è laico, d’uso più ecclesiastico, ma laicismo: (sost) "Principio politico e sociale che afferma l’indipendenza d’ogni attività della vita civile da qualsiasi principio o confessione religiosa, e dal clero". Da cui, laicista (sost), "fautore del laicismo, antidogmatico".
Invece il tanto usato laico (dal tardo lat. laicus e dal gr. laikòs = del popolo), è correttamente solo aggettivo e di valore ristretto: "Che non ha carattere religioso, che non è ecclesiastico o confessionale, che non fa parte del clero. Però Stato laico acquista una valenza politica: è quello "indipendente da ogni autorità ecclesiastica". Scuola laica è quella "non affidata a religiosi, fuori d’ogni ingerenza del clero e d’ogni dipendenza da princìpi o confessioni religiose". La laicità (sost) è solo "’essere laico, condizione di laico" quindi nei due significati, religioso e politico. Appare chiaro invece anticlericalismo (sost): "Opposizione all’ingerenza del clero nel campo dell’azione civile e della libertà di pensiero". Quindi ci deve prima essere un'ingerenza.
Per lo Zingarelli cambia poco. Solo che laico è più politico che nel Gabrielli. Anche qui è laicismo, non laico, il termine chiave, che regge tutti gli altri della serie: laicismo, "Atteggiamento ideologico di chi sostiene la piena indipendenza del pensiero e dell’azione politica dei cittadini dall’autorità ecclesiastica". Laico: "che si ispira al laicismo". Laicista, "proprio dei laici"; laicità, "qualità o condizione di chi, di ciò che è laico".
Insomma, la contrapposizione tra laicità e laicismo è un puro imbroglio lessicale. Si veda anche l'importante voce Laicismo del "Dizionario di politica" di Bobbio, Matteucci e Pasquino (De Agostini 2006, pp.317-324), redatta dal moderato Valerio Zanone, uomo di grande cultura liberale che non può certo passare per estremista o "mangiapreti", voce che comprende e spiega la "laicità" dello Stato (e non viceversa), e comunque mai nel senso radicale e peggiorativo con cui è usata strumentalmente dalla vulgata giornalistica corrente, diciamo così, clericale o "atea devota" dei giorni nostri.
Ma laico e laicità hanno anche un più generale significato culturale e filosofico, che va ben oltre il rapporto diretto con una Chiesa. Il "metodo laico" è quello ritenuto vera espressione del laicismo da Zanone, secondo l'orientamento di Croce. Il laicismo (laicité per la cultura politica francese) consiste nella ricerca del sapere tramite la libertà, cioè attraverso l'analisi aperta, franca e il colloquio fondato sul rispetto e la stima reciproca fra chi sostiene posizioni diverse.
Anche secondo il Cerroni, la cultura laica significa in tempi moderni non tanto cultura anticlericale quanto cultura antidogmatica, collegata quindi alla conoscenza razionale e alla scienza (vedi Galileo, Darwin). Le sue tappe sono: Filosofia autonoma dalla teologia, Scienza libera nella ricerca e svincolata da dogmi e autorità, Diritto separato dalla morale, Politica separata dalla morale perché ispirata non alla salvezza individuale (che ognuno persegue liberamente senza rispondere alla comunità politica) ma alla Res Publica o "bene comune", Etica pubblica basata sulla nozione di Bene comune non dedotto da canoni e dottrine morali ma fondato su un sistema riconosciuto da tutti i diritti e doveri.
"Fondamentale è quindi il legame tra laicismo e ricerca scientifica. Così come nel campo della politica il laicismo afferma l’autonomia della Chiesa e la sovranità dello Stato (il motto cavouriano è "Libera Chiesa in libero Stato" e non "Libera Chiesa e libero Stato"), nel campo della cultura, il laicismo afferma l’autonomia dalla religione e la sovranità della ragione" nota Riccardo Campa. Che così prosegue: "Il metodo scientifico ─ che richiede coerenza logica ed evidenza empirica ─ si applica nelle accademie e nelle università anche allo studio delle religioni. Il laicismo non è quindi da equiparare al relativismo cognitivo, perché il laicista è neutrale verso le idee religiose (inclusa la propria, che considera soggettiva), ma non necessariamente verso le idee scientifiche, che spesso considera oggettive e universali".
Nel famoso incontro al Vaticano all'inizio del pontificato Ratzinger la laicità della Repubblica italiana fu riaffermata dal Presidente della Repubblica Ciampi davanti al papa neoeletto Benedetto XVI. Ma Ratzinger rispose pronto che doveva trattarsi di una "sana laicità". Una distinzione tutta sua. Ma poteva dirlo perché laicità è anche un termine della Chiesa, cioè la condizione dei cattolici non religiosi. Ciampi di fronte a Ratzinger era però nello stesso tempo laico (non sacerdote), laicista (fautore di uno Stato laico, cioè indipendente dalla Chiesa) e un cattolico praticante anticlericale (specie rara: ma anche il gen. Cadorna, prima di bombardare le mura del Papa il 20 settembre a Porta Pia, sentì messa al Quartier generale. E anche Capitini, maestro di Pannella, era anticlericale, ma proprio per la sua purezza di credente, "alla protestante"). Ma Ciampi non lo avrebbe mai ammesso di fronte al Papa, che come azionista avrà in cuor suo giudicato un clericale. Ciampi, dunque, era per la laicità delle istituzioni, ma anche Ratzinger poteva dirsi in favore del recupero della laicità nella Comunità ecclesiale. Solo che volevano dire due cose diverse.
Ma perché l’Italia, come ha ricordato Ciampi, è - almeno in teoria - una repubblica laica? Perché nella nostra Costituzione, arretrando rispetto alla formula di Cavour, i Padri Costituenti scrissero: "Stato e Chiesa cattolica sono ciascuno, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani". Indipendenti, comunque, anche dal punto di vista economico. Cosa che come vedremo non si verifica oggi: dallo Stato italiano alla Chiesa scorre un enorme flusso di denaro ogni anno. Mentre dalla Chiesa allo Stato si indirizza un rivolo costante di richieste, proteste, lamentele, polemiche, indirizzi, cautele, consigli, proposte, desiderata pressanti.
Laicità che non può, non deve essere, una vendetta della Storia contro antiche e moderne prepotenze della Chiesa o dell’Islam. Oltretutto i liberali in Italia non ne avrebbero la forza, tutti presi come sono dalle professioni e dai commerci, e poco dalla politica attiva e dalla cultura, pur risultando da vari sondaggi oltre il 30 per cento della popolazione.
Ma lo Stato laico è proprio il minimo requisito di quel Liberalismo che oggi è spesso richiamato a parole dagli opposti schieramenti, ugualmente illiberali ma in modi diversi, per lo più a sproposito, e per impressionare alle elezioni con la "bella parola" la casalinga, il professionista, il pensionato, che "non hanno tempo di informarsi", non leggono neanche libri e giornali, ma "vedono solo la tv". Un "Liberalismo a parole" – quando c’è – che poi è inapplicato o messo in discussione nella pratica politica e amministrativa d’ogni giorno.
Abbiamo visto la vicenda umiliante della ricerca scientifica, con una legge sull’uso delle cellule staminali condizionata dai divieti espliciti della Chiesa, prontamente eseguiti da parlamentari (e se non è clericalismo questo…), che ci colloca ai margini del mondo occidentale, come hanno giustamente denunciato la benemerita associazione Coscioni e famosi scienziati. E la solita doppia verità: la durezza di principio (vietare alla donna l’analisi pre-impianto che le potrebbe evitare un aborto è puro sadismo…) e l’ipocrisia del "viaggio all’estero", lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
E ancora, abbiamo avuto fremiti di rabbia e di pietà per la vicenda Welby, che ha mostrato il sadismo e la crudeltà di coloro che vietando l’interruzione dell’accanimento terapeutico si ostinavano in nome d’una "vita" soprannaturale a umiliare la vita reale, e tutto questo da parte d’una religione. Abbiamo avuto moti di insofferenza quando perfino per il riconoscimento di diritto delle convivenze tra cittadini che non vogliono o possono sposarsi è stata tirata in ballo la religione, come se la religione, anzi, una sola, quella cattolica, fosse la depositaria della morale privata e pubblica, della famiglia e della società. Come se i valori del moderno Stato laico e liberale debbano essere dettati, perfino nei minimi particolari, dai sacerdoti.
Un caso molto dibattuto è l’esposizione di crocefissi nelle scuole pubbliche e nelle aule di tribunale, ovvero in edifici la cui proprietà è pubblica. Secondo i laicisti - scrive Campa - con tale esposizione viene a mancare l’uguaglianza formale dei cittadini. Esisterebbero cioè cittadini di serie A (i cristiani), che possono identificarsi nei simboli esposti negli edifici, e cittadini di serie B (atei, agnostici, buddisti, musulmani, ebrei, ecc.) che, pur essendo co-proprietari degli edifici e pur essendo obbligati a contribuire all’acquisto di tali simboli, in essi non possono riconoscersi. Su questo punto, una coraggiosa battaglia personale sta conducendo il giudice Tosti, che è stato sospeso dall’incarico e dallo stipendio.
C’è poi il nodo della politica italiana, che non si sa se definire interna o internazionale, visto che le intromissioni continue di rappresentanti dello Stato del Vaticano accompagnano l’Homo italicus "dalla culla, al letto, alla bara", cioè dai problemi del concepimento a quelli dell’accoppiamento, dalla sessualità all’accanimento terapeutico e all’eutanasia, dove è proprio quella dannata radice greca eu (bene, piacere, felicità) che non va giù a certi cultori del gusto sado-maso della sofferenza. Ed è imbarazzante - non c’è bisogno di scomodare Freud - un così morboso interesse per certi temi da parte d’un personale ecclesiastico che notoriamente non può sposarsi ed è spesso coinvolto in condanne per pedofilia. E queste persone dovrebbero dettare la morale pubblica dello Stato?
Fatto sta che dal 1989, anno della caduta del comunismo, che con la sua spietata politica di forza teneva a freno l’integralismo dell’Islam, si assiste nel mondo alla rinascita delle religioni, del clericalismo, delle tentazioni teocratiche, alla crisi del laicismo razionale e liberale. Leggi e regolamenti, per colpa d’una classe dirigente non liberale e quindi non laica, cominciano a non essere più né uguali né liberali per tutti, anche in Italia. A iniziare dalle piccole cose.
A Parma la sindachessa conferisce la cittadinanza ad una famiglia egiziana, la cui donna anziana si presenta nascosta interamente dal niqab, con un’unica fessura per gli occhi. Non è tanto il banale problema dell’identità, perché ci sarà stato sicuramente l’accertamento preliminare a viso scoperto, ma il valore semantico sovversivo del vestito, chiaramente provocatorio, il principio vergognoso che si infiltra nel nostro sistema giuridico, secondo cui la donna – qualche donna (doppia discriminazione: donna-uomo e donna-donna) – può essere in Italia, come nell’Europa del 2007, "diversa dall’uomo" nella sua dignità, nei suoi diritti, praticamente un involucro, un oggetto senza volto né volontà che il maschio di casa si porta appresso come il cane.
Non solo, ma una circolare della Polizia italiana, ha fatto propria la tesi più integralista dei fanatici islamici accettando che la maschera del velo totale, in quanto "segno esteriore di una tipica fede religiosa" non costituisce reato. Tipica? E dire che non è neanche chiaramente pretesa dal Corano, secondo il giornalista d’origine egiziana Allam. Ma allora, se non è un antico abito rituale sarà forse una nuova "divisa estremistica", un subliminale richiamo propagandistico? Allora hanno ragione in Francia.
A Riccione e a Francavilla a Mare (Chieti) i Comuni hanno deciso di attrezzare tratti di spiaggia "per sole donne" e altri "per soli uomini", ufficialmente allo scopo di meglio accogliere i ricchi turisti arabi che trovano insopportabile che le loro donne siano viste al bagno da occhi maschili. Bisognerà costruire alte mura, ovviamente: mura del pianto e della vergogna.
Reazioni analoghe ci vengono a leggere la sentenza della III sezione penale della Corte di Cassazione (Italia, non Emirati Arabi), che ha stabilito che "la religione musulmana impone alle credenti" di portare il velo. Una decisione inappellabile, a meno che non si riuniscano le Sezioni Unite. Un precedente inquietante che importa nell’Italia laica e liberale l'obbligatorietà del velo per le donne islamiche. Ora qualunque uomo musulmano potrà pretenderlo dalle mogli e figlie riluttanti, e a norma di giurisprudenza italiana.
Insomma, si prepara un futuro prossimo in cui ci sarà "concorrenza nell’anti-laicità". Non più solo il Papa, ma anche oscuri imam di Lambrate o Conegliano decideranno su milioni di donne e uomini che vivono in Italia, influenzando in modo diretto o indiretto anche la vita degli italiani, offendendo quelle libertà per cui i nostri Padri si sono battuti nella Riforma, nell’Illuminismo e nel Risorgimento. A farne le spese, già adesso, sono le dottoresse delle Asl o le vigilesse, o le ragazze italiane e straniere con le gonne troppo corte e le braccia nude, e perfino le locandine delle edicole dei giornali e i manifesti sui muri: troppe donnine discinte, lamentano i giovani musulmani fanatici mentre le staccano con coscienziosità coranica. Figuratevi quando saranno tutti regolarizzati e cittadini: gli imam saranno molto più potenti.
Molti di noi si autocensureranno "per non urtare certe suscettibilità" dei nuovi clericali islamici. E chi criticherà l’uomo musulmano che sul marciapiedi procede "davanti" alle sue donne, se la dovrà vedere prima col "politicamente corretto", poi con le nuove leggi, clericali perché dettate parola dopo parola da una religione, in questo caso l’Islam. E così le proibizioni religiose degli imam, impossibili da rinchiudere all’interno d’una moschea, finiranno indirettamente per degradare la "laicità ambientale" dell’Italia, come stanno già umiliando la laicità dell'Europa. Una perdita secca di libertà.
E l’altra Chiesa che fa nel frattempo? Con la sua solita ironia, Voltaire nel Dizionario Filosofico aveva scritto che "Fra tutte le religioni, quella che esclude più nettamente i preti da ogni autorità civile è senza dubbio quella di Gesù: Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio".… Non ci sarà tra voi né primo né ultimo… Il mio regno non è di questo mondo…" Gesù oggi verrebbe preso per un pericoloso laicista e relativista non solo dalla Cei, ma anche da Pera e dal Foglio.
Ma per fortuna oggi la pratica è tutt’altra. L’insperato revival di accondiscendenza medievale verso le autorità religiose dell’Islam anche nelle piccole questioni della vita d’ogni giorno ha ringalluzzito i capi della Chiesa di Roma e li ha fatti riandare con la mente ai bei tempi del potere temporale, cioè del "catechismo reale o del Vangelo pervasivo.
Il cattivo esempio, si sa, è il motore della vita. Non gli è parso vero, ai prelati che ormai erano rassegnati ad una progressiva decadenza, con le chiese vuote, i matrimoni religiosi in calo, la perdita di credibilità del clero attraversato da incredibili scandali (da Milingo alla pedofilia), l’inarrestabile curva discendente delle vocazioni, e gli elettori cattolici che nei sondaggi d’opinione si dividono come tutti gli altri, senza badare più di tanto ai fervorini della Conferenza Episcopale.
"E se lo facessimo anche noi?", ha soffiato all’orecchio dei capi-prelati il diavoletto, che nella Chiesa è una vera istituzione, come ripeteva papa Montini. Detto fatto. Altro che "baluardo cristiano" o "civiltà europea". Ormai aldilà del Tevere il disastroso "effetto copia", il processo di imitazione della teocrazia islamica, è avviato da tempo.
Non per offendere l’ingenuo Ahmadinejad, ma il suo omologo presidente degli ayatollah politici d’oltre Tevere ha la stessa veste nera, lo stesso sguardo spiritato, lo stesso indice puntato. Naturalmente, con la scusa del "recupero del Sacro" in questa fottutissima civiltà materialista, capitalistica, occidentale, laicista, liberista, liberale, libertaria e libertina, fondata sul denaro.
Peccato che anche la Conferenza Episcopale e di conseguenza la Santa Sede, siano fondate sul denaro. E tanto. Quello dell’Otto per mille, compresa la corrispondente percentuale delle quote Irpef di chi non ha fatto alcuna scelta sulla denuncia dei redditi, rende molto alla Cei grazie al rinnovo del Concordato di Craxi-Casaroli dell’84, quando la Chiesa rinunciò al fumo della "religione di Stato" in cambio dell’arrosto, cioè un miliardo di euro all’anno, 2000 miliardi di vecchie lire.
Ma i privilegi giuridici e la disparità di trattamento sono più stridenti quando non c’è la finzione delle "elargizioni private", ma provengono direttamente dallo Stato. Il matrimonio in chiesa che vale automaticamente come il rito civile (un residuo medievale ormai raro nei diritti nazionali liberali), gli insegnanti di religione cattolica (ma se non è più religione di Stato, che senso ha?) nominati dai vescovi e pagati più degli altri insegnanti, come hanno rivelato i Radicali; i finanziamenti nascosti ogni anno nelle pieghe della legge Finanziaria a scuole, comunità, oratori, radio, parrocchie e campi di calcetto costruiti al loro interno, esenzioni fiscali (sull’Ici delle Suore Zelatrici di Ancona si è dovuta pronunciare la Cassazione), l'extraterritorialità per tutte le proprietà della Santa Sede fuori dalle mura vaticane, debiti stratosferici per forniture non pagate che sono ripianati dal Comune di Roma (Acea) e dallo Stato, nel 2004 p.es. 29 milioni per dotare il Vaticano di un sistema di acque proprio, 50 milioni per l'Università Campus Bio-Medico, "opera apostolica della Prelatura dell'Opus Dei", e come se non bastasse i Comuni italiani sono obbligati a versare l'8 per cento degli oneri per l'urbanizzazione secondaria (asili nido, scuole, impianti sportivi di quartiere) alle chiese.
La Conferenza episcopale, che ha assunto con le esternazioni alla stampa e il finanziamento Irpef ad essa indirizzato un enorme potere, senza avere un ruolo cogente nel diritto canonico, rischia di diventare la Terza Camera del Parlamento italiano, suscitando il sarcasmo dei giornali tabloid inglesi, anti-italiani e anti-papisti.
Il problema è che la Cei non si limita a dare il pensiero della Chiesa su una data questione, ma fa di più. Non distingue chiaramente tra credenti e no, e spesso si rivolge a tutti gli Italiani. Insomma, fa propaganda utilizzando grazie a giornalisti e poteri amici i grandi giornali e la tv (tutti mezzi non concessi alle altre religioni o agli atei, per esempio), e si permette di vietare non ai cattolici – perché per questo basterebbero le prediche dei parroci nelle chiese, dove ci sono i veri, unici, cattolici – ma a tutti i cittadini italiani, meglio se deputati o ministri, più facilmente ricattabili col voto, di fare o di non fare questo o quello.
La Cei discute le leggi italiane prima, durante e dopo la loro approvazione, addirittura suggerisce nuove leggi al Parlamento, come quella sulla famiglia proposta a Prodi dal cardinale Bertone. Ricorre perfino ad una sottile intimidazione psicologica, p.es. l’abile preannuncio del "Documento" sulle coppie di fatto rivolto ai parlamentari cattolici, che già ha ottenuto il suo scopo: disorientare e intimidire i rappresentanti del popolo italiano regolarmente eletti. Cose che, in mancanza di precedenti recenti, ci riportano diritti a Pio IX.
Ma come – direte voi – proprio i liberali che riconoscono diritti e libertà a chiunque, negano al Papa, ai cardinali e ai vescovi il diritto di parola, per cui i liberali dell’Ottocento si fecero incarcerare e fucilare? No, non possono e non vogliono negarli questi diritti. Su questo occorre fare chiarezza una volta per tutte. Però, i liberali avanzano almeno due obiezioni.
Prima obiezione: abuso di posizione dominante. "Libertà di parola", si dice. Ve l’immaginate Bush e Putin che invocano il diritto a dire la loro? Che piagnucolano in una conferenza stampa a reti unificate che "non li si fa parlare", ma intanto straparlano ogni minuto e muovono pedine ed emissari segreti? Secondo voi quante pernacchie gli farebbero i giornalisti?
Qui non si tratta di diritti di una minoranza oppressa, di una categoria debole ed emarginata che altrimenti non esisterebbe, d’una voce flebile e alternativa che rischia di essere conculcata, ma di uno dei Poteri più forti al mondo, radicato da secoli in tutti e 8200 i Comuni d’Italia, che ha già comandato per 2000 anni le nostre contrade, che si è battuto con ogni mezzo per ostacolare la Riforma, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese, e il nostro Risorgimento, tanto che ha costretto un generale cattolico praticante – un tipo da messa ogni mattina, anche all’alba del 20 settembre – a bombardare le mura Aureliane di Roma.
Insomma, altro che minoranza discriminata: è essa stessa che discrimina gli altri. Un Potere che ha ancora tutti i mezzi psicologici e materiali necessari per far arrivare dove vuole e come vuole il proprio volere. Se quindi decide di parlare a ripetizione, non è per avvalersi ingenuamente della "libertà di far sentire anche la propria voce", come fanno i Radicali, ma solo per influenzare, per "fare campagna propagandistica", per un fuoco di sbarramento intimidatorio, per piegare le coscienze dei credenti e per assoggettare con la forza quelle dei non-credenti.
Non per Diritto, ché già il tirarlo in ballo è sospetto per uomini di religione (allora non credono in Dio, se si affidano con puntiglio alle leggi umane?), ma per opportunità politica, per correttezza istituzionale, la Chiesa non dovrebbe mai fare quello che sta facendo in Italia, solo in Italia (il che pone un’umiliazione ulteriore per i liberali italiani). Proprio come si astengono, il più possibile, il pastore capo della Tavola Valdese e il rabbino capo della Comunità israelitica, così dovrebbero fare il Papa e il presidente della Cei.
Perché allora gli altri capi religiosi ritengono disdicevole parlare in pubblico, in tv, sui giornali, se non in casi eccezionali, di politica e di morale, e riservano le loro giuste prescrizioni all’interno dei templi? Ci sono forse capi religiosi di serie A e di serie B in Italia? La verità è che la prepotenza è diventata la norma per la dirigenza cattolica sotto papa Wojtyla e papa Ratzinger.
Ma la colpa non è dei prelati, che i liberali non devono assolutamente criminalizzare, perché in fondo fanno il loro mestiere (se non predica il missionario-predicatore…) indirizzandosi naturalmente dove ci sono meno controlli e minori reazioni. La vera colpa è della emotiva e molle classe politica italiana, che questi controlli e queste reazioni immunitarie non produce. E non tiene neanche conto dei sondaggi, tutti contrari, ostinandosi a credere che una posizione anti-laicista, il clericalismo, il far mostra di prostrarsi davanti alla Chiesa, portino voti tra i cattolici. Non è vero: la maggioranza dei cattolici italiani, molto più laici e intelligenti dei loro leaders, si è dichiarata favorevole all’uso delle staminali in medicina, ad una certa libertà di costumi, al rifiuto dell’accanimento terapeutico sul caso Welby, alle convivenze di fatto riconosciute per legge, come già al divorzio e all’aborto, almeno in certi casi.
In realtà responsabili di questa stortura politica e istituzionale sono proprio i liberali italiani. E’ la colpa più grave, quella dell’afasia per scetticismo e pessimismo, incomprensibile in una dottrina dell’ottimismo e della volontà come quella liberale. Eppure, in un certo demi-monde tipicamente italiano e provinciale il liberalismo è visto per inadeguatezza culturale come un generico moderatismo (secondo l’equazione "partito di Centro = poche idee"), come una forma di cinismo mascherato da super-individualismo anarcoide e menefreghista. A questo si aggiunge il rifiuto dalla politica come professione, il dilettantismo come superficialità, il qualunquismo da Destra conservatrice dopo anni di utopismo da Sinistra socialista. Tutti batteri che hanno privato di testosterone molti cittadini e la classe politica che dicono di ispirarsi a Cavour, Einaudi e Croce. Ma che, se fosse dipeso da loro, non avrebbero mai fatto né Porta Pia, né l’unità d’Italia, né "La Critica", né il salvataggio della lira.
I vuoti in politica vengono prima o poi riempiti. L’alto clero italiano, quasi "costretto" a fare politica per supplenza d’una classe di parlamentari senza personalità e senza il germe della laicità liberale, è però una lobby – si dirà – e voi liberali almeno in questo dovreste capirla. Le lobbies non sono un tipico fenomeno liberale? Nel Parlamento americano ci sono addirittura le stanze dei lobbisti, tanto per fare trasparenza.
Certo, ma le lobbies, anche quella della Chiesa, devono agire su una base di diritti e doveri, con limiti precisi previsti dalla legge, e soprattutto su un piede di parità, in concorrenza egualitaria tra loro. Cosa che non accade minimamente in Italia. Qui si sente solo la voce della Chiesa. Senza – è qui lo scandalo – che nessuna istituzione reagisca ristabilendo il necessario equilibrio, la famosa dialettica liberale. Se invece, al limite, facessero parte d’un dialogo serrato ma bilanciato, le esternazioni, i "veti", le denunce della gerarchia della Chiesa, non desterebbero troppa meraviglia nei liberali. Si sa che in Italia è forte, Potere tra i Poteri. E ha tutto il diritto di parlare, anche di gridare. Ma purché si trovi chi le risponda, e con la stessa voce, lo stesso tono. Allora sì che la dialettica ci sarebbe. Ma è l’assenza di reazioni e di risposte altrettanto forti che rompe il meccanismo di contrappesi su cui si basa lo Stato liberale.
Così, invece, siamo di fronte, non per colpa della Chiesa, ma dei laici non-laici proprio perché non liberali, e perciò incapaci di "fare concorrenza", al classico caso di abuso reiterato e prolungato di "posizione dominante". Insomma, divertiamoci con l’analogia economica, è il massimo del monopolio, fumo negli occhi per qualunque vero liberale, che per definizione il più duro oppositore dei monopoli.
Le altre chiese al confronto quasi non si fanno notare. E neanche montando un poco la rappresentanza islamica in Italia, come si è tentato di fare per passare da un monopolio a un duopolio, si potrebbero tacitare i liberali.
Ma la laicità dello Stato non porterà ad umiliare la Chiesa? "Laicità – dicono i cattolici integralisti – non deve significare che per lo Stato una religione vale un’altra". Che vuol dire? Non spetta allo Stato fare comparazioni filosofiche e stabilire quale fede sia "più veritiera". Per il liberalismo la sfera delle convinzioni filosofiche o delle ideologie appartiene a quella privata, quasi "sacra", del cittadino. Ci mancherebbe che lo Stato si mettesse in mezzo, come quello comunista o fascista o teocratico. Fondamento della laicità d’uno Stato è proprio permettere che i tutti i cittadini, con i medesimi diritti, senza discriminazioni né privilegi, possano essere religiosi (e di qualunque religione) oppure atei, laici, clericali o anticlericali. "Ciascuno può andare in Paradiso per la strada che preferisce", diceva l’illuminato Federico II di Prussia, il grande re-filosofo. E anche Jefferson, eroe dell’indipendenza americana, ripeteva tra lo scandalo dei benpensanti non gli dava fastidio che il suo vicino sostenesse l'esistenza di un dio, di venti o di nessuno, purché quello non allungasse le mani sul suo portafoglio o non gli rompesse una gamba.
Lo Stato laico e liberale, come deve fare per tutte le libertà, così deve garantire, con atti concreti ed eliminando eventuali vincoli, la libertà religiosa di tutti, compresa la libertà di non credere. Certo, visto il gran numero di fedi o sette, se nella scuola si vuole tenere lezione di religione cattolica, anche le altre religioni avranno i medesimi diritti, compresi gli atei. Troppo complicato? E’ vero: ragion per cui è più sensato non farne nulla: i ragazzi possono frequentare la parrocchia, la sinagoga o la moschea nel tempo libero.
E non c'è il rischio che lo Stato laico si metta a propagandare una sua visione del mondo laicista? No, sarebbe come essere confessionale. E gli stessi intellettuali liberali lo farebbero notare. Per essere davvero laico, lo Stato non deve favorire né ostacolare la diffusione della religione né dell’ateismo, né di qualsiasi filosofia o concezione del mondo. In conseguenza non dovrebbe finanziare nessuna religione, anche perché non potrebbe chiedere soldi ai propri cittadini per attività che non rientrano nei propri compiti. Sono le chiese che chiedono soldi ai propri fedeli.
Ma, allora, senza idee, quello laico sarà uno Stato debole, senza una spina dorsale di valori? Nient’affatto, risponde il Campa. Il laicismo di stampo liberale ha portato alla fondazione di Stati neutrali rispetto ai culti religiosi, ma non nei confronti della conoscenza. La filosofia, le scienze naturali, le tecniche, le matematiche e le arti sono state infatti imposte a tutti i cittadini per legge. La scuola non è solo gratuita, ma anche obbligatoria, perché le forme di conoscenza indicate dai programmi sono considerate il fondamento del progresso culturale, economico e sociale della nazione.
Il laicismo non si caratterizza dunque come pensiero debole che lascia la società priva di un indirizzo morale e cognitivo, ma come pensiero forte che si sostituisce a pensieri totalitari. Il laicismo propone la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino come caposaldo della morale, e il pensiero scientifico-filosofico come forma di conoscenza universale. Resta naturalmente ferma la libertà dei cittadini di imporsi volontariamente ulteriori limitazioni morali aderendo ad una chiesa o di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze attingendo alle dottrine magiche, alchemiche, religiose, astrologiche. Purché ciò avvenga senza oneri per lo Stato.
"Con buona pace degli ignoranti, che continuano a usare scorrettamente questo termine [laicità] come se significasse l’opposto di fede e come sinonimo di ateismo o di agnosticismo - scrive Magris - esso indica invece un pensiero capace, indipendentemente dalle convinzioni religiose o scettiche di chi lo professa, di distinguere ciò che è oggetto di fede da ciò che è oggetto di ragione, ciò che si può dimostrare da ciò in cui si può credere, ciò che compete alla Chiesa da ciò che compete allo Stato. Laicità non è un contenuto, bensì una modalità del pensiero. "E in questo senso ogni cultura, se è veramente tale, è laica, in quanto non può non basarsi su quella distinzione; un matematico, anche se è un Santo, affronta i teoremi secondo le leggi della matematica e non in base al catechismo e un politico, anche il più devoto, quando formula una legge pensa ai reati, non ai peccati; al codice, non al decalogo. Uno dei più grandi laici che ho conosciuto è stato il religiosissimo Arturo Carlo Jemolo, grande giurista, fervido praticante, strenuo avversario della scuola privata, difensore dei diritti dello Stato e della Chiesa e della loro separazione."
E a proposito di separazione tra i due Enti, dovrebbe essere rigorosa soprattutto nella comunicazione pubblica, p.es. alla tv, dove si genera l’irresistibile "effetto propaganda" in un paese poco colto come l’Italia. Le chiese devono avere, senza privilegi per nessuna, esattamente il medesimo spazio pubblico. Piccolo, s’intende, perché la religione già si pratica nei templi e nel chiuso delle proprie coscienze, e una fede non è un partito politico,. Tutti principi liberali: eguaglianza nei punti di partenza, nessuna rendita di posizione, nessun monopolio.
Seconda obiezione: il calcolo della debolezza morale altrui. Visto che i dirigenti cattolici parlano di coscienza, di foro morale interiore, bene: accettiamo questo terreno. Valutiamo il loro comportamento alla luce della stessa morale cristiana. Del resto, anche il Liberalismo deriva in qualche modo dal Cristianesimo, o meglio dai moti di libertà che dettero vita e seguirono alla Riforma protestante. E quindi noi liberali le questioni di coscienza le abbiamo conservate nel Dna. Non solo i liberali hanno una morale, ma anzi questa dovrebbe essere severissima e pignola, molto più di quella cattolica, visto che deriva dal luteranesimo e dal calvinismo.
Ebbene, visti dalla morale cristiana, questi prelati che approfittano del loro charisma extra-politico e della credibilità del loro abito per influenzare, quasi drogare alcuni concorrenti, per truccare le carte della vita sociale e della politica, che invece è fatta di voti chiaramente espressi, di maggioranze e minoranze, di responsabilità individuali non nell’Aldilà ma su questa Terra, be’, è cosa che ricorda più i trucchi sussurrati ai governanti cinici da Guicciardini e Machiavelli che la tipica carità cristiana.
Che cosa pensare sul piano morale di chi parla e fa propaganda politica con la scusa della superiore morale cattolica, sapendo benissimo che la classe politica italiana, compresi i pochi liberali all’acqua di rose, è debole, timida, tremebonda, condizionabile, sempre sotto ricatto elettorale? Non è un approfittare della debolezza altrui, non è una circonvenzione d’incapace? Questo è il secondo punto, non la presunta "libertà di parola", che qui è del tutto fuori luogo.
Ma quello che è più curioso è che laicità, laicismo e anticlericalismo – forse perché si equivoca sul loro significato – siano oggi disconosciuti e rigettati non solo da quelli che Bertrand Russell definiva i "religionari" cioè gli uomini di Chiesa, e Voltaire più semplicemente i "preti", ma anche da alcuni intellettuali che si definiscono liberali. Abbiamo visto non solo Matteucci ma perfino Ostellino dichiarare "illiberale il laicismo di Stato in Francia " (però i francesi correttamente dicono "laicité"), presente perfino nella Costituzione, dopo che una legge nel 2004 ha "vietato nelle scuole primarie e secondarie di indossare simboli o indumenti che ostentino l'appartenenza religiosa", come il velo islamico, la kippa ebraica o le vistose croci a pendaglio che vanno oggi di moda tra le ragazze. Per motivi di "ordine pubblico", ha spiegato il presidente dell'Assemblea Nazionale, Jean-Louis Debré.
Si sa che la libertà di idee base del Liberalismo nasce con la libertà religiosa. Perciò anche lo studente più distratto non si meraviglierà se partiamo dall’episodio apparentemente "futile" del velo femminile islamico nelle scuole pubbliche di Francia per arrivare alla crisi della laicità in Occidente. La questione, poi, va a colpire l'immagine che la Francia ha di sé, cioè di un esemplare "Stato laico" che permette le più ampie libertà, ma che ora ha deciso di tenere lontana la religione dalle scuole e dai servizi pubblici per evitare discriminazioni e prepotenze di pochi. Una curiosa analogia – scusate l’accostamento – col teppismo e col mercato: in fondo è un po’ quello che fa la polizia quando vieta striscioni provocatori nei cortei o negli stadi, o l’autorità garante della concorrenza in certi casi di cartello o di posizione dominante.
Ma uno Stato liberale come si comporta nell’emergenza? Vecchia questione, sempre intrigante. Bisogna essere liberali usque ad mortem con chi dichiaratamente vuole distruggere il Liberalismo? E’ quello che molti imputano all’Europa nei confronti dell’Islam, e all’Italia di fronte alle intromissioni – uniche al mondo – della Chiesa. Due viltà, è stato detto, che non appartengono al mondo liberale. O invece bisogna usare la mano pesante smentendo così le virtù liberali?
I Padri fondatori del Liberalismo decisero che, al contrario di chi lo dipinge debole, solo uno Stato davvero liberale e democratico può permettersi di essere forte e determinato con i suoi nemici, perché almeno sulle grandi questioni dovrebbe avere il consenso di tutti i cittadini di cui difende le libertà. Se no, che patto sociale sarebbe?
Avranno la forza le due Chiese anti-liberali, il neo-temporalismo della Chiesa a Roma, e l’islamismo militante a Parigi, Berlino e Londra, di indebolire o di indurire la naturale tolleranza delle democrazie liberali europee? C’è chi dice che qualunque delle due cose accada, le due Chiese avranno pur sempre guadagnato punti in visibilità, il che per due strutture in decadenza e in crisi di vocazioni equivale a una mezza vittoria. Il rischio paventato da molti è che la nuova chiesa di importazione abbia già infiltrato l’Europa con gli usi tribali e familisti d’un Oriente arretrato, per poi imporre con la forza del numero la sua sottocultura, approfittando delle sue leggi liberali, multiculturalismo incluso. Riuscirà a deteriorare il neutrale laicismo francese e a trasformarlo in qualcosa di vagamente autoritario?
Le libertà vecchie e nuove, proprio perché riconosciute dal Liberalismo a tutti - e questa è la sua grandezza - sono non di rado in contrasto tra loro. Pensate alle inconciliabili libertà del nudista e di chi non vuole vedete persone nude; di chi vuol costruire una fabbrica e di chi vorrebbe tutelare quel terreno come sito archeologico; di chi desidera ascoltare musica rock di notte a 120 dB e di chi vuole dormire. Ebbene, diritti di libertà così contrastanti possono essere garantiti alla totalità dei cittadini a patto che questi accettino di limitarli un poco in ampiezza. Tranne i diritti "personalissimi", s’intende: dal nome all’integrità fisica e morale ecc. Ma per la maggior parte delle cosiddette "libertà", di fatto i cittadini "si mettono d’accordo" tra loro (politica) delegando lo Stato liberale e il Diritto, che è il suo "braccio armato", a decidere il come e il quanto. Questo è il vero "Contratto Sociale" tra i cittadini e lo Stato liberale.
Il Liberalismo, in questo senso, è perciò sempre paradossalmente la "dottrina dei limiti dei diritti di libertà". Una curiosa analogia con l’ecologia. Ecco perché, poi, anche libertà definite impropriamente di "idee" o di "opinione" trovano limiti e vincoli precisi nelle leggi. Che deve limitare il meno possibile, sia chiaro.
Così in Francia, per il velo esibito nelle scuole delle banlieues con una fierezza sospetta – proprio in questi anni di identità islamica e di terrorismo mai smentito dalle comunità islamiche – è scattato il limite di legge previsto addirittura nella Dichiarazione dei Diritti e del Cittadino del 1789. In pratica – altro che libertà e identità – il legislatore sospetta, visto quello che è accaduto in Europa e in Asia dopo l’11 settembre 2001, che certi simboli come cuffie, croci, corani, kippa, mano di Fatima – come le bandiere e gli striscioni dei cortei – possano essere agitati dai giovani come provocatori striscioni di hooligans in uno stadio, atti a eccitare all’odio o a fare proselitismo. La legge è stata criticata proprio perché riguarda forme di abbigliamento e decorazioni personali, da sempre giustamente "sacre" per l’individualismo liberale, ma va considerato che oggi ogni cosa può avere una valenza semantica aggressiva, e si può offendere anche passeggiando a Carnevale, travestiti da Hitler, nel quartiere ebraico. Però è anche vero che la portata del divieto è tale da far sorgere alcune obiezioni. A Debré ha risposto il presidente della Repubblica Federale Tedesca, Johannes Rau: "se quel velo è considerato come una espressione di fede, come un indumento a carattere missionario, ciò deve valere anche per l'abito monacale o il crocifisso". Impeccabile, paradosso per paradosso.
Oggi il laicista è spesso accusato di ateismo dai clericali cattolici italiani, evidentemente digiuni di Storia. Non sanno (possibile?) che la stragrande maggioranza dei patrioti liberali che fecero il Risorgimento, tutti strenui laicisti, erano cristiani e cattolici, non di rado perfino sacerdoti o frati. "In realtà il laicismo non comporta, di per sé, alcuna ostilità nei riguardi delle religioni o delle chiese", precisa il Campa. Anzi, aggiungiamo, la separazione tra politica e religione rafforza e fa più pura quest'ultima. Così come la fine del potere temporale ha fatto bene alla Chiesa (cfr. famosa dichiarazione di papa Paolo VI). Dunque, "i cittadini credenti possono essere laicisti. E persino i ministri di culto. Se il clero accetta spontaneamente le regole della democrazia e si pone su un piano paritario con le altre religioni e con l’ateismo, rende ipso facto inutile e pretestuosa ogni azione anticlericale. Se invece il clero respinge il laicismo e si fa promotore della teocrazia, l’anticlericalismo diventa una strategia necessaria del laicismo.
L’anticlericalismo in Italia è stato in passato giustificato dalla pretesa esplicita della Chiesa cattolica di sovrapporsi o sostituirsi al potere statale, cercando di trasformare le proprie credenze private in leggi dello Stato. Si consideri, a titolo di esempio, l’Enciclica Quas primas di Pio XI (1925), che definisce il laicismo la peste dell’età contemporanea: "La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto ─ che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo ─ di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei Principi e dei magistrati.
"La Chiesa si ritiene l'unica depositaria dell'etica, ha commentato Umberto Galimberti. Un'etica prerogativa esclusiva della religione avvicina notevolmente il cristianesimo alla mentalità islamica. Per fortuna noi abbiamo avuto l'illuminismo e lo Stato laico che ci hanno parzialmente immunizzati".
Ma è curioso che 150 anni prima dell’enciclica anti-laicista di Pio XI, il filosofo Kant scrivesse già: "Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)". Parole sante, anche se malscritte.
Ma allora, è meglio lo stile concreto e asciutto di Cavour (Camera dei Deputati del Parlamento Subalpino, seduta del 25 maggio 1861): "Io non so concepire una maggiore sventura per un popolo colto che vedere riunite in una sola mano, in mano de’ suoi governanti, il potere civile e il potere religioso".
"La storia di tutti i secoli, come di tutte le contrade, ci dimostra che, ovunque questa riunione ebbe luogo, la civiltà sempre immediatamente cessò di progredire, anzi sempre indietreggiò; il più schifoso dispotismo si stabilì, e ciò, o signori, sia che una casta sacerdotale usurpasse il potere temporale, sia che un califfo o un sultano unisse nelle sue mani il potere spirituale".
E che pensa, signor Conte, dei preti che fanno politica? Ai sacerdoti, almeno a titolo individuale, non si può negare il diritto di farsi eleggere. Ma che vuole che le dica, caro mio, rispose Cavour, "come si fa a far politica con qualcuno che ti dice di parlare a nome di Dio?"
Nel marzo del 1861, Cavour aveva lamentato in un dibattito parlamentare che l'elezione di alcuni preti fosse avvenuta approfittando delle canoniche, delle sacrestie e delle prediche domenicali. Le elezioni in alcuni collegi furono ripetute, dopodiché i clericali furono sconfitti. Ecco un passaggio del discorso cavouriano:
"... quando il clero, riconquistata ed assicurata la libertà, vuol combattere per riacquistare gli antichi privilegi, per far tornare indietro la società, per impedire il normale e regolare sviluppo della civiltà moderna, allora è da deplorare il suo intervento nelle lotte politiche (...). Io ho troppa fede nel principio del progresso e della libertà per temere che possa essere posto a cimento in una lotta condotta con armi puramente legali. Se la libertà ha potuto fare dei progressi immensi quando aveva a lottare contro il clero e le classi privilegiate, e la libertà era in certo modo inerme, come mai potrei temere che ora dessa potesse correre vero pericolo se avesse a combattere i suoi avversari ad armi uguali? (…) Ma se io non temo le lotte politiche, quando siano combattute con armi legali, non posso dire altrettanto, ove il clero potesse impunemente valersi delle armi spirituali di cui è investito per ben altri uffizi che per trionfare questo o quell’altro politico candidato. Oh! Allora veramente la lotta non sarebbe più uguale; ed ove si lasciasse in questo terreno pigliare piede e assoldarsi l’uso di queste armi spirituali, la società correrebbe i più gravi pericoli, la lotta da legale correrebbe rischio di trasformarsi in lotta materiale". (G. Massari, Il Conte di Cavour, ed. Barion, Torino 1872)
NICO VALERIO