07 gennaio, 2016
Zanone, un grande intellettuale liberale, ma nel posto sbagliato: la politica pratica non era per lui.
Segretario del Partito Liberale dopo Malagodi, di cui era stato oppositore di centro-sinistra, era poi diventato parlamentare, ministro (anche il secondo ministro dell’Ambiente, dopo Alfredo Biondi e prima di Di Lorenzo, altri liberali, nei primi anni 80 col Governo Craxi) e sindaco di Torino.
Studioso del Liberalismo, uomo di cultura interessato alla storia delle idee, laureato in filosofia con Pareyson quando ancora una laurea in filosofia valeva qualcosa; studioso e autore di saggi (come "Il Liberalismo moderno", in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo; "L'Età Liberale"; la voce "Laicismo" nel Dizionario di Politica di Bobbio, Matteucci e Pasquino), era visibilmente più a suo agio nelle biblioteche e nella sua fornita libreria che tra i politicanti della scena romana, piemontese e nazionale.
Pur perseguendo politicamente un liberalismo aperto, solidale, moderno, laicista, europeo, anti-elitario, dei diritti (tutti i diritti) ma anche dei doveri e del rispetto delle regole, e non banalmente e puramente liberista, egli stesso impersonava – al contrario – perfino col suo carattere signorile e rigoroso, ma schivo, timido, triste e pessimista (sempre troppo pessimista), lo stereotipo dell’intellettuale liberale solitario e scontento, incapace di misurarsi con la società di massa e i volgari mezzucci della propaganda, della retorica, della dialettica e della polemica politica, ma privo anche della necessaria furbizia, determinazione e spregiudicatezza che vengono da un buon intuito politico, e perfino di quella grandissima passione e di quell'intransigenza che porta facilmente un liberale all'indignazione e perfino agli scoppi d'ira, che erano state invece caratteristiche essenziali, virtù più che vizi, d'un Cavour.
L’unica sua furbizia, poco riuscita, fu quella di bilanciare col gioco parlamentare la totale assenza di propaganda, l’incapacità di proselitismo e le controproducenti e ben poco carismatiche apparizioni in televisione (sempre virate a considerazioni negative, pessimistiche e perdenti, perfino nell’espressività). Rinunciatario o incapace per incertezza e troppo pessimismo a costituire un grande e vero soggetto liberale (come gli fu rimproverato giustamente da alcuni liberali), divenne come per ripiego il principale sostenitore non socialista del governo Craxi, poi appiattendosi (rifugiandosi, dissero alcuni) con un ruolo irrilevante nell’Ulivo di Prodi, illudendosi che il liberalismo cacciato dalla disprezzata Destra populista di Berlusconi potesse germogliare o anche nascondersi in una Sinistra riformatrice, che però le riforme non faceva, e infine aderendo, ormai isolatissimo, a una formazione di Centro-Sinistra molto moderato, quello di Rutelli. Due entità che ben poco avevano a che fare con la natura, la cultura, il vigore e la tradizione liberale.
L’aspetto fisico ingannevole lo faceva apparire a chi non lo conosceva una sorta di “mastino” politico, ma era assolutamente in contrasto con la sua natura delicata di liberale timido, lento, freddo, flemmatico e raziocinante, incapace di incitare con forza alla lotta politica, ma anche di eccitarsi e di coinvolgere gli altri in una grande passione. Quella forza e quella passione che Croce richiedeva come indispensabili a un liberale.
Perciò, come tutta la classe dirigente liberale pre e post-malagodiana, mai uomo più intellettualmente onesto e profondamente liberale di lui fu in pratica più inadeguato nel dare energia a un Partito Liberale, nel diffondere il Liberalismo e nel contrastarne efficacemente stereotipi ed equivoci dannosi, che hanno consentito ai cittadini della nuova democrazia di massa fondata sul teatrino dei mass-media, sulla demagogia e il crescente populismo, di ignorare o sottovalutare i Liberali, o di prenderli per troppo moderati o addirittura conservatori.
NICO VALERIO
LIBERALE DI “SCUOLA PIEMONTESE”: ANTIRETORICO, PRAGMATICO E RIFORMATORE. MA GLI MANCAVA IL CARISMA.
Molti fra i più importanti politici ed intellettuali italiani di cultura liberale nacquero in Piemonte ed ebbero affinità caratteriali riconducibili proprio al loro essere piemontesi. Basti ricordare i maggiori: Camillo Benso di Cavour ed alcuni protagonisti della Destra storica come Giovanni Lanza e Quintino Sella; poi studiosi che diedero lustro all'Università di Torino come Luigi Einaudi e Francesco Ruffini; infine, un uomo di governo della statura di Giovanni Giolitti. Piemontese fu anche il liberale eretico per antonomasia, Piero Gobetti, morto giovane, quindi caro agli dei. Si farebbe un torto, tuttavia, a non ricordare parlamentari e uomini di governo come Marcello Soleri e Manlio Brosio.
Valerio Zanone (1936-2016), torinese, fu anche lui un liberale della scuola del Piemonte: essenziale, antiretorico, riformatore per vocazione, ma pragmatico nell'approccio ai problemi e nel modo di affrontarli. Una delle qualità necessarie per svolgere in modo degno attività intellettuali consiste nell'essere veritieri: bisogna affermare quella che siamo convinti sia la verità, anche quando è scomoda, o impopolare. Zanone conservò questo costume di intellettuale anche quando ebbe rilevanti responsabilità politiche. Ad esempio, quando, nella qualità di Segretario nazionale del Partito liberale, commemorò Piero Gobetti nel Salone dei Dugento a Palazzo Vecchio a Firenze, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Gobetti, Zanone disse, fra l'altro: «Nelle pagine di Gobetti la polemica antiriformista è costante; ma è la polemica contro il riformismo di un certo genere, contro gli effetti diseducatori e decadenti del riformismo come "diplomazia di iniziati". ... Per questo aspetto i liberali di oggi non possono non sottoporre a revisione il troppo duro rifiuto gobettiano del giolittismo, ridotto da Gobetti ad una sorta di praticismo in cui la politica è umiliata al grado di amministrazione; a beneficio degli interessi costituiti» (si veda il giornale La Tribuna, n. 7/8 del 16-27 febbraio 1976, p. 2). Laddove un qualsiasi politico mediocre non avrebbe risparmiato parole per esaltare il giovane martire antifascista, facendone un "santino" da venerare, Zanone non rinunciò all'esercizio della critica razionale; la quale non evita le contraddizioni, ma le affronta perché questo è l'unico modo per superarle.
Come tutti gli autentici liberali, Zanone era capace di anticonformismo. Ad esempio, aveva memoria storica di quanto la massoneria avesse significato sia durante il processo risorgimentale, sia nelle prime fasi della vita parlamentare dello Stato italiano unitario. Laddove i mass media puntavano su una criminalizzazione indiscriminata di ciò che oggi resta della massoneria, Zanone considerò quasi un punto d'onore continuare a partecipare ad ogni riunione pubblica ed ogni convegno promosso dalla massoneria ufficiale. Fino a pochissimo tempo fa. Pensava non fosse colpa sua se i giornalisti non conoscessero La religione dell'umanità dell'illuminista Gotthold Ephraim Lessing, e riconducessero ossessivamente ogni discorso in argomento alla P2 ed a presunti tentativi golpistici, o traffici con la mafia. Peggio per loro; lui tirava dritto per la sua strada. La verità, nota a chi ha una reale conoscenza di queste cose, è che oggi non c'è una grande differenza fra l'affiliazione massonica e l'adesione ad organizzazioni come il Rotary International, o i Lions Clubs International. Fuffa mondana tanto l'una, quanto le altre.
Come uomo politico non si può dire che Zanone abbia avuto successo. Segretario nazionale del PLI, accompagnò il declino del partito, rendendolo di fatto un alleato subordinato del Partito socialista di Craxi. Non riuscì a dare al PLI una fisionomia ideale precisa, che rappresentasse un'effettiva discontinuità rispetto a quella che era stata la linea incarnata da Giovanni Malagodi. Con l'aggravante che, al tempo di Malagodi, il PLI era riuscito a raccogliere un consenso elettorale che gli aveva consentito margini di vera autonomia nell'iniziativa politica.
Quando il Partito liberale (PLI) si estinse nel 1993, Zanone, preso atto della divaricazione bipolare che aveva assunto la politica italiana, scelse di schierarsi nel campo del Centro-sinistra. Considerate le caratteristiche che aveva il campo alternativo (il partito azienda di Berusconi, alleato ai leghisti nemici dello Stato italiano unitario, ed ai postfascisti), quella scelta di Zanone fu apparentemente felice. Fu anche perfettamente coerente, se valutata dal punto di vista di un ideale seguace del riformismo giolittiano. Egli, tuttavia, fallì in quello che avrebbe dovuto essere il suo naturale compito: costruire un soggetto politico dichiaratamente liberaldemocratico, capace di margini di autonomia, pur nella fedeltà complessiva allo schieramento di Centro-sinistra. Fallito quel disegno, i liberali, uti singuli, ebbero un ruolo poco più che decorativo nelle vicende dell'Ulivo; non ebbero sorte migliore quanti si imbarcarono nell'esperimento della Margherita, affidato alla guida di Francesco Rutelli.
La verità è che Zanone non aveva capacità organizzative; né effettive capacità di guida. Tentava di convincere; ma non sapeva trascinare. L'interpretazione più benevola che possa darsi è che egli prendesse sul serio l'imperativo pratico, così formulato da Immanuel Kant: «agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo» (si veda la Fondazione della metafisica dei costumi). Cosa dire di un leader politico che effettivamente rispetti gli altri e che non voglia utilizzare in modo strumentale i propri seguaci? L'unica risposta è che non è adatto alle dinamiche della politica reale. Speriamo che i costumi possano migliorare in futuro.
LIVIO GHERSI
Su altri particolari biografici, politici e culturale di Zanone, si veda il lungo articolo di Pier Franco Quaglieni
IMMAGINE. Zanone in una sua caratteristica espressione.
AGGIORNATO IL 29 GENNAIO 2016
<< Home