08 luglio, 2007

 

Sindacati, imprese e ricerca: così la rivoluzione liberale sarebbe possibile

L’amico docente dell’Università di Roma-2 che ama firmarsi "Il Professore", mi invia le sue note a margine della presentazione sul Salon Voltaire del programma del network Decidere.net. In sostanza - sostiene - chi vorrà realizzare il programma di liberalizzazione, per limitarsi a 3 punti sui 13, dovrà fare i conti col conservatorismo non solo dei sindacati ma anche della Grande Industria, ed anche col problema della ricerca.
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"Come non condividere da veri liberali i 13 punti di Capezzone? Fa bene Nico Valerio a vederli come prodromi, anzi addirittura parte di una vera grande rivoluzione liberale, che comincia intanto da economia e istituzioni. Non voglio guastare l’atmosfera e fare l’avvocato del diavolo, ma faccio mia la famosa dicotomia liberal-azionista tra ottimismo della volontà e pessimismo della ragione, per rilevare almeno tre ostacoli strutturali e perfino di costume che vanno superati se davvero vogliamo realizzare il manifesto capezzoniano. La vera questione e' questa: quali delle 13 sacrosante proposte sono realmente realizzabili in un paese come l'Italia? Mi limito a 3 punti su 13.
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Pensioni e sindacati. In un paese normale, i sindacati dovrebbero tutelare i diritti dei loro iscritti (lavoratori, non ex-lavoratori, tanto per cominciare) anche con rivendicazioni e lotte dure, ma sempre e solo su problemi di loro effettiva competenza. E invece?
Invece, come è noto, la triplice (la trimurti, la chiamava Pannella… quantum mutatus ab illo, insomma, altri tempi) si occupa in primo luogo di pensioni di anzianita'. Anche perché quasi il 60 per cento degli iscritti alla Cgil sono pensionati. E viene considerata l'interlocutore obbligato del Governo (di ogni Governo) quando quest'ultimo prepara l'approvazione di un qualunque disegno di legge, spesso anche di interesse extra-sindacale. La chiamano "politica della concertazione con le parti sociali". Di fatto i partiti della maggioranza (Centro-destra o Centro-sinistra) debbono concordare con il partito del sindacato (tipicamente di Cs o addirittura ex-comunista) ogni tipo di provvedimento persino di natura macro-economica (leggi di bilancio, normative tributarie, incentivi finanziari ecc.). I sindacati, in sostanza, esercitano dal 1968 un ruolo di tipo esclusivamente politico (cinghia di trasmissione dell'allora PCI , oggi dei post e dei catto-comunisti). Ormai in Italia la cosa viene accettata come naturale. Al di la' dell’assurda richiesta di abolizione dello "scalone", che denota corporativismo ed uno spietato egoismo nei confronti delle future generazioni, il primo problema titanico e' quello di far tornare a svolgere ai sindacati solo il ruolo che a loro compete. Sara' possibile senza spargimenti di sangue?
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Grande impresa (GI). Mi permetto di dissentire in parte da Capezzone, quando il leader radicale applaude le esternazioni di Montezemolo. Non che le cose dette da quest'ultimo non siano in gran parte condivisibili, ma e' il pulpito che e' inaccettabile. In altre parole, come puo' il rappresentante della GI, che ha sempre richiesto aiuti statali nei momenti di crisi ("socializzando le perdite" e, ovviamente, privatizzando gli utili) permettersi di esercitare il ruolo di difesa del vero liberismo di impresa?
Voglio ricordare che in Italia e' proprio la GI che non investe in ricerca ed innovazione (0.4 per cento del PIL), limitandosi nella maggior parte dei casi ad acquistare brevetti high tech a costi onerosi sul mercato estero, e accontentandosi d’un guadagno sicuro del 1-2 per cento, invece che avere profitti di gran lungo superiori ma esposti al rischio di impresa. E’ un po’ la logica dei tanti prudentissimi e timorosi laureati piccolo borghesi che in Italia si accontano dell’impiego statale, anziché mettersi in proprio. Ebbene, da noi anche l’impresa è molto paurosa e "italiana".
Ecco il secondo problema titanico. Impareranno i grandi industriali italiani (e non parlo ovviamente di quelli che sono dei puri e semplici finanzieri travestiti da imprenditori e che militano di solito nel Centro-Sinistra…) a comportarsi come i loro colleghi americani, tedeschi, finlandesi, austriaci ecc? La "flat tax" di Capezzone e' sacrosanta, ma, ripeto, richiede anche una vera mentalita' imprenditoriale.
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Ricerca e universita'. Qui, in quanto competente e direttamente interessato, mi permetto di dilungarmi un po'. Ricordo innanzituto che in Italia la parola "professore universitario" non identifica in modo univoco una categoria professionale. Vi sono infatti almeno 4 categorie di docenti:
Quelli che svolgono esclusivamente attivita' politica in parlamento e che sono andati in cattedra per cooptazione partitica, senza alcun reale merito scientifico;
Quelli che svolgono prevalentemente la libera professione (optando per il cosidetto impegno a tempo definito), ma che, pur essendo in una posizione accademicamente corretta, non forniscono certo contributi al progresso delle scienze (tecnologiche, umanistiche o sociali che dir si voglia);
Quelli che pur avendo optato per l'impegno accademico esclusivo, una volta terminata la loro lezioncina, si limitano a rara o addirittura a nessuna attivita' di ricerca scientifica;
Quelli che - finalmente - hanno un impegno del tutto confrontabile con i loro colleghi di universita' straniere. Aggiungo che questi ultimi sono molti di piu' di quello che si ritiene, ma che hanno spesso uno scarso peso nelle strutture o visibilita' pressoche nulla all'esterno delle universita', per ostracismi di tipo baronale. Inutile ricordare che le remunerazione e l'evoluzione della carriera dei professori universitari e' identica a livello nazionale.
Capezzone ha dunque non una ma mille volte ragione quando propone con forza:
la differenziazione delle retribuzioni fra le universita' e fra i dipartimenti italiani;
l’abolizione del valore legale del titolo di studio a livello nazionale, intendendo con cio' differenziare il titolo conseguito in una universita' di prestigio da una periferica;
finanziamenti non dati "a pioggia", ma distribuiti in base al prestigio delle universita', e significativamente aumentati per i centri di eccellenza (che, ripeto, esistono anche in Italia).
Sfortunatamente, il peso elettorale degli addetti alla ricerca non è significativo. I politici (sia di Destra che di Sinistra), al di la' delle enunciazioni di principio, non hanno quindi mai compiuto azioni concrete per realizzare la valorizzazione delle universita' produttive (ignorando fra l'altro anche il protocollo di Lisbona). Si pensi che, di fronte all'esigenza di conseguire investimenti in ricerca pari almeno al 3 per cento del PIL, l'Italia si e' sempre collocata al di sotto del' 1.5, con percentuali minime proprio negli investimenti in ricerca applicata (vedi il punto 2).
Questo pessimo governo ha poi addirittura tagliato indiscriminatamente i finanziamenti ordinari senza alcun criterio meritocratico. Ecco quindi il terzo problema titanico: liberalizzare il mondo della ricerca, tagliando si' i rami secchi ma aumentando in modo cospicuo i finanziamenti nei settori di eccellenza.
Non mi dilungo sugli effetti perversi della cosidetta legge Bassanini, che ha fornito autonomia di spesa ai bilanci universitari senza una reale autonomia amministrativa (tasse universitarie bloccate a valori fuori mercato, regole arcaiche per le Fondazioni, mancanza di significativa detassazione per i finanziatori ecc..)
Cari amici liberali, la guerra da combattere e' questa. Se non si puo' realizzare una grande rivoluzione liberale, si tenti almeno di conseguire una rivoluzione possibile".
IL PROFESSORE
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Caro amico professore, alla fine del tuo articolo, mi chiedo: "E allora?". Se ho capito bene il tuo pensiero, qui più che contrapporre "riforme liberali ideali" a "riforme liberali possibili", come avevi preannunciato nel titolo, metti in evidenza che le riforme capezzoniane si potranno realizzare, nei tre campi da te esemplificati, solo se si affronteranno i nodi corporativi, di potere e di costume che stanno dietro. Altrimenti - è il mio modesto parere -non è che si farà una riforma liberale a metà, o almeno una "possibile", ma non si farà proprio nessuna riforma liberale. Mi scuso per la tautologia, ma è ovvio che nel momento in cui l'età della pensione dovesse essere portata a 65 anni per tutti, o le Università italiane dovessero essere assoggettate a criteri di valutazione ed efficienza, queste stesse misure parlerebbero da sé dell'abbasstimento dei privilegi delle rispettive baronìe. Quelle che tu avanzi, insomma, non mi sembrano condizioni ulteriori, perfezionistiche, ma essenziali o strutturali, del disegno di Capezzone (NV).

Comments:
Be', davvero la gente è strana. Questo articolo non meritava di essere ignorato dai commentatori. D'accordo, non rivelava concetti nuovi o eccentrici, però sollevava alcuni punti laterali interessanti che avrebbero meritato l'approfondimento.
Però l'ambiguità lessicale non gli ha giovato.
Io stesso non ho capito che cosa voleva concludere il mio amico Professore: se cioè temeva o invece auspicava che al posto d'un riformismo liberale ideale ci si accontentasse d'uno possibile...
 
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