11 ottobre, 2011

 

«Macché liberale, la borghesia in Italia è un ceto parassitario». Vero, Ricolfi, tutto torna.

Il berlusconismo ha riportato al potere la borghesia italiana, così mostrando il volto peggiore dell’Italia e facendoci vergognare. Com’è possibile? Noi liberali non sappiamo forse che fu proprio la borghesia europea a battersi per le libertà di commercio e di espressione, e a ottenere i fondamentali diritti di libertà contro il prepotere di Chiesa e Re, e che perfino in Italia fu la borghesia a fare il Risorgimento e l’Unità d’Italia?

D’accordo, non sarà stata la grande borghesia intellettuale o dell’economia ad appoggiarlo (anche se qualche imprenditore piccolo e medio ha dato, eccome, il suo voto e i suoi finanziamenti), ma certo il populismo vuoto del cavalier B. è stato il movimento ideale per rivolgersi più che alla borghesia, ad una idea piccola e meschina di borghesia. Come se alla scuola serale, per avere successo tra studenti testoni e svogliati, un’insegnante dicesse che il borghese è quello che vince nei film western.

Lo strato sociale del berlusconismo è quello più comune in Italia, dove è mancata la Rivoluzione liberale dei Paesi anglosassoni e la Rivoluzione giacobina francese. Dove si è passati senza soluzione di continuità da ducati, regimi assolutistici e Papi-re al liberalismo più soffice e moderato possibile, così moderato da diventare conservatore e protezionista: che è una contraddizione in termini. Dove perfino l’Unità del Paese è stata fatta dai Governanti (per fortuna con qualche scaramuccia vera, grazie al reprobo Garibaldi, spesso arrestato e confinato). Dove non solo i commercianti, ma neanche gli industriali amano o sanno praticare la concorrenza. E, infatti, quando si è entrati in liberal-democrazia, si sono viste le conseguenze di questo deficit di borghesia.

Il quindicennio berlusconiano, ha ridato fiato soprattutto alla tipica piccola borghesia arrivista e senza idee, per lo più di provincia, che ha un solo scopo nella vita: quello di arricchirsi il più e il più sbrigativamente possibile, a qualunque costo. Lecito. Ma senza idee e senza merito, solo grazie a amicizie “giuste”, appalti di Stato, raccomandazioni, do-ut-des, imbrogli, protezioni, corruzione. Illecito per un liberale.

Insomma, le velleità, l’accumulazione di capitale, il lusso dell’alta borghesia con i sistemi sognati dal popolino nei film di Totò. Anche il Fascismo, del resto, fu la reazione dei tanti “vorrei ma non posso” della piccola borghesia alle minacce egualitarie del socialismo e al rischio della “troppa” libertà, “troppa” giustizia. E questo spaccato antropologico e sociale ha, certo, il suo peso nel ritratto che un giorno gli storici inesorabili faranno di Berlusconi.

Così, il conservatorismo – estremo, a parole, a tratti perfino reazionario, da estrema Destra – ha trovato utile nella propaganda indirizzarsi a tutti i cittadini, ma in realtà pensava sempre e soltanto ad una sola frangia sociale, marginale, di cittadini, quella che andava sempre più proletarizzandosi, e che temeva la concorrenza dei ceti popolari, e che perciò radunava non i liberali, ma gli anti-Sinistra viscerali. Altro che “moderati”. Altro che “riformisti”. Del resto, è proprio la borghesia che ha impedito le liberalizzazioni promesse per convincere i pochi liberali ad appoggiare Berlusconi. E in questo caso la grande borghesia (industria e manager) e la media (professioni) si sono aggiunte alla piccola (impiegati, artigiani). Insomma, la medesima dinamica psicologica e sociale del Fascismo. Del resto, oggi, con i mercati internazionali, l’Unione Europea che mette becco, le Grandi Potenze che controllano, e perfino la Cina capitalista-comunista che, giustamente, si permette di mettere becco avendo comperato buoni del Tesoro, che altro fascismo si potrebbe produrre, se non quello finto e populista dei proclami vuoti, dei “contratti con gli Italiani”?

Berlusconi e Mussolini: due grandi propagandisti. Grandi venditori di slogan. Che hanno potuto incantare così tanto a lungo solo una platea semplice e poco colta, ma in preda alla rivalsa sociale, come la piccola borghesia marginale che costituisce l’anima vera, profonda, della società italiana.

E così tutto torna: il Risorgimento faticoso e parziale, fatto solo da pochi eroi, da uomini di Governo e da diplomatici, il trasformismo dei conservatori e clericali che si fingono "liberali", il rifugio nel fascismo, l'illusione che da Croce si potesse passare al Pci, l'insensibilità per la laicità dello Stato, l'adesione in massa prima alla Dc e poi al berlusconismo. La borghesia italiana, a differenza di quelle operose e intelligenti del Nord Europa, non ha nulla da insegnarci. E' solo avida e ignorante. Non ama la concorrenza, ma la raccomandazione. E i suoi interessi li chiama "libertà". Vecchio trucco: noi liberali veri non dobbiamo cascarci.
NICO VALERIO

 

Ecco l’intervista a Luca Ricolfi, docente di psicologia e lucido commentatore dei fatti italiani sulla Stampa, pubblicata dal sito web Linkiesta *

 

RICOLFI: «LA BORGHESIA IN ITALIA È UN CETO PARASSITARIO»

L’Italia ai tempi della crisi, parla Luca Ricolfi: «La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. Ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. I ceti produttivi del Nord non sono nemmeno riusciti a strappare un federalismo degno di questo nome».

Intervista di Jacopo Tondelli

“L’Italia annaspa, il Governo ci prova quattro volte prima di partorire una manovra che a malapena riesce a seguire le linee imposte dalla Bce. E mentre i ceti produttivi fanno quotidianamente i conti con le conseguenze della crisi economica, c’è chi si domanda che cosa faccia e dove sia la borghesia italiana, soprattutto al Nord. In altra epoca, nel 1980, guidata dalla Fiat, la marcia dei quarantamila a Torino segnò uno spartiacque. Allora erano quadri e dirigenti, guidati da Cesare Romiti. Oggi sarebbe possibile un segnale chiaro da parte della borghesia produttiva? Ne parliamo col professor Luca Ricolfi che non risparmia bordate. «La borghesia italiana? Non è mai stata liberale, è un ceto fortemente parassitario», dice a Linkiesta.    

Insomma, professore, partiamo dal principio: quale borghesia e quale ceto medio italiano si sono sentiti rappresentati da Berlusconi e dal leghismo?

Sociologicamente, i professionisti, le partite Iva e i dipendenti privati con livelli di istruzione intermedi. In senso meno sociologico ma più psicologico, direi soprattutto gli insofferenti per la sinistra e, più in generale, per la cultura della solidarietà incondizionata.

E quanto, in questo blocco politico-sociale, è sentita e percepita, secondo lei, la fine della stagione politica che chiamiamo “berlusconismo”? Quali sono le ragioni strutturali, dal punto di vista economico e sociale, di questo scongelamento?

La crisi è molto sentita, ma il consenso per Berlusconi è sempre stato sopravvalutato: anche negli anni migliori, i veri fan sono sempre stati compresi fra il 5 e il 10% del corpo elettorale.
Lo scongelamento ha certamente ragioni strutturali, ma non solo. Le ragioni strutturali si riducono a una: nessuna delle promesse fondamentali di Berlusconi, prima fra tutte l’abbattimento della pressione fiscale con le due aliquote Irpef del 23 e 33% è mai stata mantenuta, neanche quando sarebbe stato possibile farlo.
Ci sono anche ragioni meno strutturali, ma ugualmente importanti: gli italiani amano i vincenti, ma abbandonano al loro destino i perdenti. Di conseguenza i cambiamenti di orientamento politico possono essere anche molto repentini, come alla fine della prima Repubblica e alla fine del Fascismo. Mussolini, Craxi, Berlusconi: in Italia l’inversione del consenso è processo di mesi, non di anni.

E secondo lei quanto le istanze fondative di quel blocco politico-sociale cercano ancora rappresentanza? E quanto, invece, il mondo dell’impresa, delle professioni, della “borghesia” insomma sono cambiati in questi 17 anni? Quali sono i tratti unificanti di questo “nuovo ceto medio”, le loro richieste profonde?

Anche quelle istanze fondative furono largamente sopravvalutate. Forse mi sbaglio, ma io vedo soprattutto continuità dove voi vedete rotture, o evoluzioni. La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. La borghesia italiana, specie la grande borghesia, ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. È un ceto fortemente parassitario, più interessato a pilotare le risorse della politica che ad affrancarsi da essa. La nostra classe dirigente ha sempre avuto paura di scontrarsi con i governi, anche quando era piuttosto chiaro che le loro politiche mandavano a gambe all’aria il Paese, e con esso i produttori di ricchezza.
Non dice niente il fatto che non vi sia mai stata una vera battaglia per la riduzione dell’imposta societaria? E non dice nulla il fatto che i ceti produttivi del Nord non siano riusciti a strappare un federalismo capace di riequilibrare una situazione che dopo il 1995, finite le svalutazioni competitive, era divenuta insostenibile per l’economia regolare? Vi sembra possibile che, in occasione dell’ultima manovra, la Confindustria e Rete Imprese si siano lasciate scippare l’aumento dell’Iva, ossia l’unica carta che gli esportatori avevano per ridare un minimo di fiato alle imprese?
Se si fosse voluto far ripartire la crescita, i 4-5 miliardi dell’aumento dell’Iva avrebbero dovuto e potuto essere usati per abbassare l’Irap e/o l’Ires. Una borghesia coraggiosa avrebbe fatto una battaglia prima, spiegando che aiutare i produttori di ricchezza è la via maestra per tornare a creare posti di lavoro, anziché piagnucolare dopo, lamentandosi di aver perso una battaglia mai combattuta.

Nel 1980, il ceto medio si sentì rappresentato dalla marcia dei quarantamila. Oggi la Fiat non è più il catalizzatore simbolico dell’impresa italiana. Cosa può raccogliere e rappresentare attorno a sé la “borghesia produttiva”, quelli che Gabrio Casati nel suo ultimo libro chiama i “contadini”? Quanto il mondo della rappresentanza d’impresa è cambiato mettendosi al passo coi tempi, e quanto invece sconta un ritardo culturale?

La borghesia produttiva esiste, ma è priva di coscienza di classe, come avrebbe detto il buon vecchio Marx. Forse, più che scontare un ritardo, sconta due peccati originali speculari, o di segno opposto. La grande borghesia sconta una scommessa sbagliata sulla politica, la credenza (a mio parere erronea) che sia più conveniente negoziare e venire a patti con il ceto politico piuttosto che combattere per cambiare radicalmente la politica. La piccola borghesia autonoma, invece, sconta la sua presunzione di poter fare a meno della politica, di poter andare avanti senza darsi una rappresentanza forte a livello politico. Ciò vale, in particolare e forse non a caso, per le partite Iva del Triveneto, la patria del “faso tuto mi”.
Lei mi chiede se il mondo della rappresentanza d’impresa si è messo al passo coi tempi… Ma le sembra che, se Rete Imprese Italia, l’organizzazione di rappresentanza dei “piccoli”, fosse al passo con i tempi, durante questa manovra si sarebbe lasciata paralizzare dagli opposti interessi dei commercianti e dei piccoli imprenditori in materia di Iva?

Il tema della pressione fiscale e dell'evasione non ha mai smesso di essere un’urgenza italiana. Una forza politica “moderata” e liberale non potrà non farsene carico. Come riuscirci, in un paese in cui la “civiltà fiscale” non sembra consolidata, nel tempo?

Penso che non ci riusciremo, perché siamo un paese non solo cattolico, ma con una mentalità cattolica. Ogni questione economica – come il problema di aumentare la torta del reddito – viene vissuta in chiave di equità distributiva, con tutto il corredo di pregiudizi contro la ricchezza di cui è imbevuta l’Italia.
Facciamo un esperimento mentale. Siamo in pieno deserto, un manipolo di disperati avanza in groppa a dei cammelli. Se qualcuno si alzasse e dicesse “diamo da mangiare ai cammelli, perché sono loro che ci trasportano, se li lasciamo senza cibo non usciremo mai da questo deserto e finiremo per morire tutti”, immancabilmente si alzerebbe l’egualitarista-solidarista-moralista per spiegare che il poco cibo disponibile va distribuito secondo giustizia. Seguirebbe un’appassionata discussione sui meriti relativi di cammelli e esseri umani, sui bisogni rispettivi di maschi e femmine, giovani e anziani, pastori e contadini. Il gruppo troverebbe immorale dare da mangiare ai cammelli, che dopo tutto “sono solo delle bestie”, il cibo verrebbe diviso secondo principi più o meno sensati di equità, e alla fine nessuno – né i cammelli, né gli umani – uscirebbe vivo dal deserto.

Uno degli altri grandi nodi irrisolti riguarda la strutturale divisione del paese secondo molti indicatori macro e microeconomici. La Lega tornerà a cavalcare la protesta di cui non ha risolto le ragioni? E ancora, tornando al tema principale: può un nuovo soggetto politico “moderato” incorporare in sé quelle istanze, oppure resteranno un’esclusiva di un movimento territoriale come la Lega?

Posso sbagliarmi, ma a me pare che la Lega abbia seppellito il federalismo, e forse anche sé stessa. Hanno fatto così poco, così male, e così tardi che la bandiera del federalismo non potrà più essere agitata credibilmente da nessuno. La sinistra comunista e post-comunista non ci ha mai creduto. I cattolici lo vedono come un peccato mortale contro il sacro dovere della solidarietà. La Lega l’ha barattato con il consolidamento del suo potere governativo e amministrativo, comprese le poltrone nelle società controllate da Regioni ed enti locali. Se la Lega fosse stata veramente federalista non si sarebbe opposta né al taglio delle Province né alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali.
No, il federalismo andrà avanti come mero riordino dei conti pubblici territoriali (opera di trasparenza comunque meritoria), ma l’idea federalista è morta. All’orizzonte non vedo nessuno che possa raccogliere quella bandiera, perché in troppi ormai l’hanno disonorata.
Quello che invece potrebbe succedere, secondo me, è che alcune delle istanze del federalismo precipitino in altro da sé. Nei prossimi anni potremmo assistere – ma è solo un’ipotesi, che non considero particolarmente probabile – a una riscossa dei produttori, ma sganciata da istanze territoriali: una sorta di “marcia dei 40 mila” contro il parassitismo. Un’altra possibilità, forse più realistica, è che quando l’euro si spaccherà in un euro forte (nordico) e un euro debole (mediterraneo) il Nord-Italia, anziché aderire all’euro debole puntando su un nuovo ciclo di svalutazioni competitive, preferisca aderire all’Euro forte riprendendosi i propri soldi (50 miliardi all’anno): uno scenario da incubo, almeno per chi non ama le guerre civili nemmeno quando sono ritenute politicamente o economicamente corrette”.
JACOPO TONDELLI

* A proposito, basta, vi prego, con il vizio nazionale dei giochi di parole e dei doppi sensi! Non se ne può davvero più. In Italia, specialmente dopo l’èra Arbore in tv, lo snobismo dell’ironia è talmente diffuso che oggi non puoi aprire un negozio di scarpe se non fai lo spiritoso e non metti come insegna: “Scarpe diem”. L’ironia è una merce rara e di élite, proprio perché è critica verso il potere, la maggioranza. Non può essere di massa (come in Francia): è una contraddizione. Né, per chi non possiede l’humour o l’ironia, come gli Italiani, la comicità diffusa. E’ come se tutti fossero estremisti: e i moderati dove sono? Ma se non ci sono, non ci possono essere neanche gli estremisti… Mi vengono in mente i tic e i giochi di parole continui degli impiegati d’ufficio a Roma. Famigerato: “Olive dorci”, in cui Stanlio e Ollio in romanesco dicono “arrivederci”. Ecco, appunto, la stucchevole piccola borghesia.

AGGIORNATO IL 10 OTTOBRE 2013


Comments:
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