29 agosto, 2010
Il genio di Cavour. Grazie al suo caratteraccio e alle sue idee l’Italia fu insieme unita e libera.
Un processo di unificazione e una rivoluzione quasi "imposte" di prepotenza e regolate con estrema furbizia dal Cavour, abilissimo nel contrastare il clericalismo di potere della Chiesa, e nel profittare della lentezza militare e diplomatica dell’Austria, così come delle evoluzioni della politica interna e militare della Francia, di cui era esperto.
Ostinato, ostinatissimo, forse perché da cadetto aveva dovuto subire il peso d'una famiglia conservatrice e d'un fratello primogenito autoritario e reazionario (che arrivò al punto di pubblicare su un giornale clericale una lettera contro di lui, in occasione delle leggi Siccardi, e che perfino quando Camillo era Presidente del Consiglio fece pesare su di lui i privilegi del maggiorascato), sembrò sempre avere un fatto personale contro l'autoritarismo, contro l'Austria, lo Stato pontificio, e anche la Francia, quando le alterne vicende politiche la portarono a tradire la Rivoluzione e a diventare reazionaria. Anche all'Accademia e poi nella breve vita militare manifestò una natura insofferente e ribelle alle gerarchie e all'ottusa disciplina, sposando ogni causa liberale, tanto da essere posto sotto osservazione dalla polizia albertina.
Una battaglia così intensa, quella di Cavour per l'Italia, colorata di profonde venature caratteriali ed emotive, da sembrare inspiegabile, se non per motivazioni psicologiche ed intellettuali. Non solo era nato anticonformista, aveva fatto parte della Giovine Italia e si era formato nei circoli liberali di Ginevra e di Parigi, ma era soprattutto un grande ammiratore della Gran Bretagna da cui importò (vedi il viaggio giovanile con l'amico Santarosa) le modernizzazioni , come l'eliminazione delle barriere, il mercato libero, le ferrovie, un'agricoltura razionale ecc. Altro che gusto per il potere, era così intimamente appassionato all'Italia libera, economicamente e politicamente, indipendente e unita (in un primo momento solo al Nord: non osava sperare di più) - lui, nato con la cittadinanza francese - che perfino sul letto di morte, vaneggiando, chiese ad un re finalmente commosso, che non lo aveva capito e anzi aveva più volte cercato di cacciarlo, se fosse finalmente arrivato dagli Stati Uniti il tanto atteso riconoscimento del nuovo Regno d'Italia.
Insomma, dopo aver letto il libro, ci si rende conto con un certo sgomento che l'unità d'Italia e le dosi da cavallo di liberalismo "imposte" dall'alto da Cavour andarono a buon fine grazie alla sua tenacia e alla sua franca astuzia, esercitata alla luce del sole, come riconobbe Gobetti, ammirato. Ma anche a circostanze fortuite e avventurose. Fu davvero un miracolo, che perfino oggi non potrebbe più ripetersi. D'altra parte, tranne le minoranze attive liberali, che vedevano insieme borghesi, popolari e aristocratici illuminati, la stragrande maggioranza dell'aristocrazia e del popolo italiano erano reazionari o conservatori, soprattutto perché ignoranti. Ecco perché i liberali tenevano così tanto alla istruzione popolare, pubblica, si noti. Mentre la scuola "privata" era anche allora quella dei preti, che disdegnava le scienze e la modernità.
Una rivoluzione liberale singolare, quindi, frutto soprattutto del "caratteraccio" di Cavour, famoso e temutissimo per le sue sfuriate contro chi - conservatore o troppo moderato, o troppo tardo a capire - metteva i bastoni tra le ruote della sua mente velocissima e vulcanica. Il che spiega tutto, anche la politica e la società italiana di oggi, specialmente al Sud.
Solo Cavour poteva "fare l'Italia", e la fece, con furbizia e prepotenza. Non certo il velleitario e astratto Mazzini, che dopo ogni attentato in cui mandava allo sbaraglio tanti giovani riparava in Svizzera o in Gran Bretagna, e neanche da solo il militarmente abile e coraggioso ma politicamente confusionario Garibaldi. E neanche i liberali della Sinistra che, nientedimeno, si erano illusi di "fare la rivoluzione liberale con il Re" Carlo Alberto, tantomeno l'ala neo-guelfa, quegli ingenui liberali cattolici, più volte traditi e ridicolizzati dall'ambiguo e reazionario papa Pio IX, che divennero poi i suoi più acerrimi nemici.
Con il re Vittorio Emanuele che gli era nemico e non pensava ad altro che a licenziarlo, con più di mezza classe politica contraria (era accusato o di essere troppo moderato o troppo radicale e anticlericale), con i tanti liberali borghesi che gli rimproveravano di essere aristocratico, con l'aristocrazia e la ricca borghesia che lo osteggiavano perché aveva imposto giustamente tasse più alte ai più abbienti (quindi anche a se stesso), con avversari interni ed esterni fortissimi, avendo contro Austria, Papato e Francia, e per di più essendo antipatico a tutti, Cavour, solo contro tutti, fece dell'unità d'Italia, anzi della sua stessa vita, un vero miracolo laico. Il Viarengo questa lucidità negli obiettivi, questa determinazione, questa "fissazione" intellettuale di Cavour per l'unità d'Italia e il liberalismo la dipinge molto efficacemente come la sua missione, la sua scommessa con la vita, il suo "gioco d'azzardo", una sorta di sfida personale e a tratti solitaria.
E, buon per noi, Cavour fu sfacciatamente fortunato. Il che non diminuisce, ma anzi aumenta i suoi grandi meriti. Una figura forte, insomma, scolpita a tutto tondo nell'altorilievo del Risorgimento.
L'unico suo torto fu quello di morire troppo presto. E certo, come pure fanno alcuni stupidi, non gli si può imputare in quei pochissimi anni di non aver saputo anche "fare gli Italiani", cancellando con un secondo miracolo secoli di arretratezza antropologico-culturale e civile del Meridione e delle province governate da Stati autoritari e dominatori stranieri. Basti ricordare che il malcostume, le lotte intestine e la corruzione di stampo greco già erano presenti nel Meridione al tempo dei Romani, che arrivarono al punto di "commissariare" Neapolis (Napoli), dove si continuò a parlare greco a lungo. E sui vizi endemici della "grecità" basta legge le storie del greco Polibio.
.Il maggior risultato di Cavour fu quello di aver consegnato alla Storia, in pochissimi anni, un'Italia non solo unita e indipendente, ma anche libera. "Non sarà l’ultimo titolo di gloria per l’Italia – scriveva Cavour nel 1860 – d’aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà all’indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali d’un Cromwell, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario"(*).
NICO VALERIO
(*) La frase fa parte di una lettera inviata da Cavour al liberale toscano sen.Vincenzo Salvagnoli, che gli aveva consigliato l'immediata proclamazione del Regno d’Italia e l’imposizione dello stato d’assedio. Si era nel 1860, a spedizione dei Mille vittoriosamente conclusa, con l'aiuto anche dei bersaglieri piemontesi nella cruciale battaglia del Volturno contro l'esercito borbonico. Ebbene, la risposta di Cavour mostra tutto il suo genio razionale, il liberalismo senza macchia - quasi "istintivo", si direbbe - e la giusta considerazione per il Parlamento, per la stampa libera, per gli stessi avversari interni (Garibaldi e i repubblicani), per l'opinione italiana ed europea (soprattutto inglese). Rispetto delle forme e del gioco liberale e democratico, buonsenso, capacità di mettersi dalla parte degli altri, grande fiuto psicologico. Bella lettera. "L’Italia stava nascendo sotto buoni auspici.", commenta il sito della Treccani da cui abbiamo tratto il documento. Ma quanti politici italiani o europei, alcuni definiti anche "uomini di Stato", potrebbero paragonarsi a Cavour?
Ecco la lettera completa:
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Torino, 2 ottobre 1860
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Mio caro Salvagnoli,
Vi ringrazio della lettera che m’avete scritta il 30 settembre, ma non sono d’accordo con voi nei consigli ch’essa contiene.
Una dichiarazione del Parlamento che tutta l’Italia appartiene al nostro Regno sarebbe superflua per l’opinione pubblica in Italia, ed equivarrebbe a una indiretta e perciò intempestiva dichiarazione di guerra all’Austria.
Non meno funesta mi pare, a dirvelo francamente, la proposta di far accordare dal Parlamento al Re i pieni poteri sino al completo scioglimento di ogni questione italiana. Voi rammenterete senza dubbio quanto i giornali inglesi rimproverassero gli italiani per aver sospeso le guarenzie costituzionali durante le guerre dell’anno scorso. Il rinnovare ora, in epoca di pace apparente, una tale disposizione avrebbe il più funesto effetto sull’opinione pubblica in Inghilterra, e presso tutti i liberali del continente. Nell’interno dello Stato poi, questo provvedimento non varrebbe certo a rimettere la concordia nel grande partito nazionale. Il miglior modo di dimostrare quanto il paese sia alieno dal dividere le teorie del Mazzini ed i rancori di Bertani e di Crispi, si è di lasciare al Parlamento liberissima facoltà di censura e di controllo. Il voto favorevole che sarà sancito dalla gran maggioranza dei deputati darà al Ministero un’autorità morale di gran lunga superiore ad ogni dittatura.
Il vostro consiglio riescirebbe pertanto ad attuare il concetto di Garibaldi, che mira appunto ad ottenere una gran dittatura rivoluzionaria da esercitarsi in nome del Re, senza controllo di stampa libera, di guarentigie individuali né parlamentari. Io reputo invece che non sarà l’ultimo titolo di gloria per l’Italia d’aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà alla indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali d’un Cromwell, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario.
Ora, non vi ha altro modo di raggiungere questo scopo che di attingere nel concorso del Parlamento la sola forza morale capace di vincere le sette e di conservarci le simpatie dell’Europa liberale. Ritornare ai comitati di salute pubblica, o, ciò che torna lo stesso, alle dittature rivoluzionarie d’uno o di più, sarebbe uccidere la libertà legale che vogliamo inseparabile compagna della indipendenza della nazione.
Credetemi sempre
C. Cavour
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(Da Camillo Cavour, Epistolario, XVII, 4, a cura di Carlo Pischedda e Rosanna Roccia, Firenze, Olschki, 2005, pp. 2131 s.)